El abrazo de la serpiente

El abrazo de la serpiente

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Presentato al Bergamo Film Meeting, dopo un percorso festivaliero partito dalla Quinzaine e passato per Rotterdam e Berlino, e nominato come miglior film straniero agli Oscar, El abrazo de la serpiente è il terzo lavoro del regista colombiano Ciro Guerra, che sceglie una chiave originale per raccontare come la civiltà europea abbia cancellato quelle indigene del Nuovo Continente.

Le vie dei canti

Lo sciamano amazzonico Karamakate è l’ultimo rimasto in vita della sua tribù, sterminata dall’esercito colombiano. A trent’anni di distanza l’uno dall’altro, fa da guida a due esploratori alla ricerca della yakruna, una rarissima pianta della famiglia dell’hevea brasiliensis, l’albero della gomma: nel 1909, il tedesco Theodor Koch-Grünberg, nel 1940 l’americano Richard Evans Schultes, che sta studiando una cura per la stessa pianta il cui prodotto, il caucciù, è ora assai richiesto. Stavolta, lo sciamano spera che la ricerca lo aiuti a uscire dal suo stato di chullachaqui, ovvero di “uomo vuoto”. [sinossi]

Da una parte i libri, la fotografia, la parola scritta, il grammofono, la scienza e i soldi. Dall’altra i graffiti sulla roccia, lo sciamanesimo, la conoscenza delle erbe curative della foresta, i canti che aleggiano nella natura, la magia, il dono e la condivisione comunitaria dei beni. Sulle differenze tra il sapere europeo omologante, positivista e cristiano, e quello ancestrale dei nativi americani, si costruisce El abrazo de la serpiente, nuovo film di Ciro Guerra, presentato al Bergamo Film Meeting 2016. Anche se i primi hanno annientato i secondi, commettendo un genocidio anche antropologico e culturale, va sfatato il luogo comune della loro superiore civiltà, se non nelle armi più avanzate. Su questo Guerra vuole essere molto chiaro, si tratta di culture diverse, con basi di conoscenza diverse. La cancellazione della cultura indigena è ormai definitiva. Il concetto di condivisione della conoscenza e della tecnologia – la bussola elargita agli indios – si scontra con la conseguente perdita dei loro sistemi di orientamento nella foresta. Anche l’unico sopravvissuto, Karamakate, ha perso e dimenticato il suo sapere ancestrale – le rocce ormai non gli parlano più e non riconosce più nemmeno il significato delle sue stesse pitture rupestri – diventando un chullachaqui, ovvero un “uomo vuoto”.
Ma sono chullachaqui, dal suo punto di vista, anche i personaggi ritratti in fotografia, pura parvenza, mera immagine di persone che non esistono più, e lo sono anche i libri, che ricorrono insistentemente in El abrazo de la serpiente, i diari degli esploratori, fatti di parole morte, principale espressione del modo di trasmettere il sapere dell’uomo bianco. E per estensione, dobbiamo dedurre, chullachaqui è anche il cinema, fatto di fotografia e narrazione, un vuoto simulacro, il medium stesso che ci sta trasmettendo queste informazioni.
La pervasività dell’uomo bianco ha l’effetto catastrofico di un nuovo Fitzcarraldo che porta il suo grande grammofono a far risuonare Händel in mezzo alla Foresta Amazzonica. La sua principale mira è l’avidità delle risorse da depredare, il caucciù come il petrolio. Il suo atteggiamento è quello del missionario che impone la cultura cristiana, in nome della sua presunta superiorità, agli indigeni considerati con disprezzo come cannibali e pagani.

Il lavoro di Ciro Guerra in El abrazo de la serpiente ha indubbiamente un grande valore etnografico, partendo dai diari degli esploratori, unica documentazione che fa luce su quelle civiltà ormai estinte. E rendendo un animismo della foresta che sconfina nella cosmologia, l’anaconda e la Via Lattea, gli sciami di farfalle – la natura come estensione dell’anima –, lo sguardo del giaguaro. “Ogni pianta, ogni albero, ogni fiore è pieno di saggezza”.
E il film è girato in un abbacinante bianco e nero, che contempla paesaggi di grande fascino, ruscelli, giungla, altipiani brulli evitando l’appiattimento a colori stucchevoli da National Geographic. Così come indubbiamente il tema è affrontato in modo inedito, complessivamente in forma non didascalica. Viene tuttavia il dubbio di essere di fronte all’equivalente di quello che viene definito l’orientalismo di ritorno, vale a dire una fascinazione – per quanto sofisticata e non banale, di fascinazione pur sempre si tratta – non spontanea ma costruita a tavolino per venire incontro alle aspettative di un pubblico occidentale. E nella parte ambientata nella missione, Ciro Guerra scade in un messaggio terzomondista davvero facile e manicheo. Ci permettiamo di dirlo, pur condividendone i principi etici e la posizione di fondo. I bambini ribattezzati con nomi ebraici o biblici, i Re Magi, Adeste fideles, la facile metafora dell’Eden, il cristianesimo come base culturale del predominio, della lotta per il potere e la guerra. Una semplificazione davvero disarmante.

Info
La scheda di El abrazo de la serpiente sul sito del Bergamo Film Meeting.
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