Robert Altman e l’industria
Al Ca’ Foscari Short Film Festival è stato presentato un programma speciale dedicato ai cortometraggi di Altman, con la proiezione di Perfect Crime, Girl Talk e Pot au feu.
Nel febbraio del 2006, pochi mesi prima di morire, Robert Altman rispondeva così a una domanda di Alberto Crespi che lo intervistava su “L’Unità”: «Ogni giorno mi chiedo perché gli americani abbiano votato Bush junior una seconda volta e non ho ancora trovato la risposta. Il fatto che Bush non possa essere più candidato nel 2008 è l’unico pensiero piacevole in questo momento: ma temo che i Repubblicani sapranno trovare un tizio anche peggiore di lui. La politica non è come il cinema, spesso vincono i “cattivi”»; al di là del pensiero ai limiti del profetico, con Donald Trump a darsi battaglia nelle primarie repubblicane con Ted Cruz e John Kasich (Marco Rubio si è ritirato dalla corsa oggi, dopo la batosta subita in Florida), è interessante notare come Altman, negli ultimi tre decenni di vita, sia stato letto dalla stampa e dagli addetti ai lavori solo nella sua veste di intellettuale, pensatore e autore dalla spiccata personalità.
Nulla da eccepire, ovviamente, ma l’incontro con alcuni dei cortometraggi diretti da Altman sullo schermo dell’Auditorium Santa Margherita a Dorsoduro, durante le giornate del Ca’ Foscari Short Film Festival, permettono di allargare la visuale, inquadrando con maggior precisione il percorso del regista statunitense negli anni che precedettero la fama mondiale.
Se infatti il successo internazionale arride ad Altman a partire dagli anni Settanta, con i vari M*A*S*H, Anche gli uccelli uccidono, Il lungo addio e Nashville, il regista di Kansas City era già al soldo dell’industria del cinema sul finire degli anni Quaranta, come testimonia il soggetto firmato per Bodyguard (in Italia Squadra mobile 61) diretto da Richard Fleischer nel 1948. La gavetta Altman la passa tra la televisione, dove lavora come regista per i serial più disparati, da Alfred Hitchcock Presents a Bonanza e Maverick, e gli studi dei grandi gruppi industriali, per i quali firma cortometraggi in 16mm su vari temi, come lo sport e la sicurezza stradale.
Proprio quest’ultimo è al centro di Perfect Crime, girato nel 1954 su commissione della Caterpillar Tractor Company, azienda dell’Illinois produttrice di veicoli pesanti e macchinari per la costruzione e l’agricoltura. Dominato da una voce fuori campo – e in campo – che catechizza gli spettatori sui rischi della velocità e della guida non sicura, Perfect Crime trova la sua ragion d’esistere nella memoria cinefila grazie all’intuizione con cui Altman dà il via alle danze: un noir in piena regola, con tanto di rapina in una drogheria destinata a sfociare nel sangue ma non a rimanere impunita. Sarà invece impunito l’utilizzo sconsiderato delle automobili? Il crimine perfetto non è infatti quello del delinquente che non si fa scrupolo di aprire il fuoco su inermi cittadini per racimolare la misera somma di 14 dollari, ma bensì quello di chi guida ben oltre il limite di 55 miglia orarie, magari facendosi beffe anche dei mutamenti di clima e spingendo sulla tavoletta dell’acceleratore anche con la pioggia. In questo bizzarro cortocircuito, in cui all’exploitation movie si sovrappone il documentario didattico, Perfect Crime mostra in filigrana il ghigno beffardo di Altman, all’epoca delle riprese non ancora trentenne.
Oltre dieci anni dopo, all’incira nel 1966, Robert Altman viene coinvolto in un altro progetto sulla breve distanza (nel frattempo ha anche avuto modo di esordire in un lungometraggio pensato per la distribuzione in sala, il cupo The Delinquents del 1957, con protagonista un giovane Thomas Laughlin): deve dirigere un cortometraggio musicale sulla canzone Girl Talk di Bobby Troup, un cantante pianista di formazione jazz la cui (Get Your Kicks On) Route 66 era stata portata al successo da Nat King Cole. Girl Talk, che Troup aveva ricevuto in dono dal compositore Neal Hefti, era stata scritta per il film Jean Harlow, la donna che non sapeva amare di Gordon Douglas, con Carroll Baker nei panni dell’attrice e un cast che comprendeva anche Angela Lansbury, Raf Vallone, Martin Balsam e Leslie Nielsen.
Anche qui, come in Perfect Crime, il prodotto si nobilita e cambia prospettive – all’epoca pressoché invisibili – nel passaggio tra le mani di Altman: in quella furia di donne in cerca di abiti da indossare si preconizza già, e senza troppe differenze, lo sguardo che con cinismo il regista lancerà nel 1994 in Prêt-à-Porter. Il mondo dello spettacolo è già al ready to wear, tutto luci accecanti, donne bellissime e sorridenti, musica pacificante; Altman, che ne fa parte ancora in modo laterale, lo osserva con divertito disgusto, così divertito che sembra quasi compiacente. Ma non lo è.
Ma la (ri)scoperta più ammaliante, nel programma offerto dal Ca’ Foscari Short Film Festival, la si è rintracciata in Pot au feu, divertissement che Altman girò nel corso del 1965 con amici e parenti (lui stesso interpreta un giocatore di scacchi); in preda a un lucido furore ludico Altman si lancia in un’operazione che, prendendo spunto dalla libertà di montaggio delle “nuove onde” europee, si avvicina al demenziale puro. Girando il cortometraggio in tutto e per tutto come si trattasse di uno show culinario per il piccolo schermo (e giocando con il doppio significato di pot, pentola ma anche erba, nel senso di marijuana), Altman descrive le delizie del fumare dell’erba nei momenti liberi: lo si può fare con l’amata, durante un’amabile partita a scacchi, sulla propria barca e via discorrendo. Spassoso e dominato da un ritmo che lascia senza fiato, Pot au feu è la testimonianza della consapevolezza della messa in scena di Altman già anni prima che i festival facessero a gara a premiarlo. Altman ha sempre ammesso di aver attinto a piene mani da Pot au feu per convincere i produttori ad affidargli M*A*S*H. Ma questa è un’altra storia…