Caffè

Aspirando all’appeal internazionale, Caffè guarda idealmente al primo Iñárritu, ma si infrange su una narrazione frammentata e poco coerente, e su una regia spesso inutilmente didascalica.

Gusti non amalgamati

Tre storie ambientate in altrettanti paesi, unite dal filo conduttore di una bevanda apprezzata in tutto il mondo. In Belgio, l’iracheno Hamed possiede un piccolo negozio, ma viene derubato di un’antica caffettiera d’argento a cui è legato da profonde ragioni affettive; in Italia, l’aspirante sommelier del caffè Enzo si fa coinvolgere in un’azione criminale, quando la sua ragazza rimane incinta; in Cina, uno spregiudicato manager fa ritorno nelle campagne dello Yunnan, luogo in cui è nato e patria della produzione del caffè; qui, l’uomo scopre il malaffare della ditta per cui lavora, e la minaccia da essa rappresentata per l’intera comunità… [sinossi]

Punta, smaccatamente, al respiro e all’appeal internazionale, il nuovo film di Cristiano Bortone. Lo fa, questo Caffè, avvalendosi di un’insolita co-produzione tra Italia, Cina e Belgio, e scegliendo un modello di narrazione che guarda idealmente al primo cinema di Alejandro González Iñárritu: una sceneggiatura che frammenta e scompone tre storie diverse (ambientate in tre diversi angoli di mondo) unite dal filo conduttore rappresentato dalla bevanda del titolo. Siamo lontanissimi, nel film di Bortone, dalla leggerezza del jarmushiano Coffee and Cigarettes, dagli incontri casuali di fronte a una tazzina piena che si fanno piccoli spaccati di vita, dalla levità in forma di commedia di tanto indie americano mosso da analoghi pretesti: pur laddove il caffè rappresenta qui un MacGuffin, un trait d’union dichiaratamente gratuito, l’approccio alle storie narrate è esplicito, con temi che da subito aspirano a una portata universale, la mano registica ben presente e visibile. L’apertura, con la voce fuori campo dell’attore franco-tunisino Hichem Yaoubi (protagonista di una delle tre storie) lascia ben poco spazio a velleità interpretative: i diversi aromi di una tazzina di caffè (amaro, aspro e profumato) sono ognuno all’origine di una delle tre storie, didascalicamente illustrate dalla voce dell’uomo.

Sta proprio nel didascalismo di fondo, oltre che in una regia invadente e spesso ridondante (non accompagnata da uno script che ne giustifichi adeguatamente le scelte) uno dei problemi di Caffè. Laddove le tre storie scoprono (troppo) presto le loro carte, puntando a rappresentare altrettanti temi caratterizzanti la contemporaneità (la precarietà lavorativa e le sue ricadute sulla vita affettiva, le tensioni etniche e sociali, le conseguenze di uno sviluppo industriale scriteriato), la sceneggiatura delinea schematicamente i caratteri e le loro relazioni, fa muovere il racconto attraverso snodi di trama pretestuosi, resta in superficie nell’esplorazione delle psicologie e della loro evoluzione. Mantenere un’unità di tono, e un ritmo narrativo coerente, in un film a episodi strutturato in modo non cronologico, è da sempre compito arduo: ne è prova il problematico risultato raggiunto, in tutt’altro campo, da Matteo Garrone nel suo Il racconto dei racconti. La coerenza, l’unità di tono, nonché la capacità di organizzare gli eventi dei tre segmenti in un adeguato crescendo, sono altrettante caratteristiche che difettano al film di Bortone; appesantito inoltre da formalismi nella messa in scena (ne è un esempio la lunga sequenza iniziale) che denunciano presto il loro carattere di vuoto “gioco” estetico.

Procedono a strappi e singulti, i tre episodi di Caffè, non riuscendo mai a comporre il quadro di ampio respiro a cui il film punta, restando incerti nel tono ed indugiando spesso in poco giustificate lungaggini. L’episodio cinese, forse il più debole del terzetto, muove dalla presentazione di un personaggio contraddittorio, assumendo presto toni pacchianamente fiabeschi, ed evolvendo in un melò di grana grossa, tutto incentrato su una dialettica modernità/tradizioni che ha la consistenza di un depliant pubbliciario; d’altro canto, il segmento italiano fa ampia mostra di stereotipi (ne è un esempio il personaggio interpretato da un Ennio Fantastichini sostanzialmente sprecato), sfociando presto in un noir dalle esili premesse e dai poco credibili sviluppi. L’episodio più ambizioso, quello ambientato in Belgio, cerca di fare il verso ai fratelli Dardenne (già co-produttori, insieme a Bortone, del recente biopic Marina) restando tuttavia ben lontano dal rigore estetico dei modelli; il tema delle tensioni etniche, e del conseguente conflitto tra poveri, viene in realtà solo sfiorato, in una sorta di revenge movie che assume anche, a tratti, connotati involontariamente grotteschi. La composizione finale delle tre vicende, piuttosto stirata e pretestuosa, ribadisce una tendenza al didascalismo (e allo stucchevole svolazzo estetizzante) che appesantisce il film lungo tutta la sua durata.

Se da un lato la natura internazionale di Caffè, e le sue scelte narrative, rappresentano quindi un elemento insolito (seppur non completamente nuovo) nell’asfittico panorama mainstream italiano, i conseguimenti del film di Bortone risultano largamente deludenti. Penalizzato una sceneggiatura mancante di coesione e armonia (sia complessiva che interna al singolo racconto), il regista abusa di un malinteso lirismo nelle immagini, flirtando pericolosamente col kitsch e affidandosi in misura eccessiva (tra l’altro) a un invadente commento musicale. Il non disprezzabile spunto, e i temi affrontati, avrebbero meritato una mano più sicura ed equilibrata, e uno script capace di maggior pregnanza e coerenza.

Info
Il trailer di Caffè.
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