Mine

Al loro esordio nel lungometraggio, forti di una co-produzione internazionale, Fabio Guaglione e Fabio Resinaro confezionano con Mine un insolito esempio di thriller contaminato con l’estetica del war movie.

Mine bloccanti

Di ritorno da una missione nel deserto afghano, Mike Stevens assiste alla morte del suo commilitone Tommy Madison, finito accidentalmente su una mina antiuomo. Ai confini del deserto, col villaggio più vicino oltre l’ultima duna, Mike realizza di essere impossibilitato a muoversi, perché ha calpestato anche lui una mina che esploderà al suo prossimo passo… [sinossi]

Esordire nel lungometraggio, in un contesto come quello dell’italico cinema di genere, dopo essersi costruiti una discreta fama nell’universo underground dei corti, è questione tutt’altro che facile. Farlo con alle spalle una co-produzione internazionale, in un’opera che guardi chiaramente ai modelli d’oltreoceano, rappresenta insieme un vantaggio e un ulteriore rischio. Per Mine, opera d’esordio di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro (Fabio & Fabio nei credits) vale in parte lo stesso discorso che facemmo per Lo chiamavano Jeeg Robot (e, in altro contesto, per il successivo Veloce come il vento): l’ipotizzata, e ancora tutta da verificare, “rinascita” del cinema di genere italiano, può e deve passare anche per filoni poco praticati negli anni d’oro. Utilizzare il war movie declinato in chiave thriller, che si apre qui a suggestioni che trascendono e rompono gli angusti confini del genere, può senz’altro rappresentare uno dei percorsi per costruire una via originale, e non meramente nostalgica, al nostrano cinema d’intrattenimento. Cinema che non rinunci a uno sguardo personale, e a suo modo autoriale, alle storie che racconta.

Rispetto ai due esempi appena citati, emblematici di un fermento che (a volte) riesce ad emergere dell’undeground e ad acquisire visibilità, il film di Guaglione e Resinaro ha dalla sua l’appeal e la confezione internazionali, un cast tutto anglosassone (capitanato da un Armie Hammer che prende su di sé gran parte del peso del film), uno sguardo capace di parlare, con le peculiarità del soggetto e della messa in scena, a platee il più possibile globali. Registi dall’anima cinefila (ma non solo), forti di un background costruito attraverso le varie espressioni della cultura di massa anni ‘80 e ‘90, Guaglione e Resinaro mescolano le modalità narrative (e gli stereotipi) del cinema bellico al gusto figurativo della graphic novel, l’essenzialità di uno spunto autoevidente (un uomo impossibilitato a muoversi, pena la perdita della vita) a una complessità psicologica che unisce frammenti di memorie, flashback e squarci onirici, il gusto ludico della tensione di genere a un montaggio che accosta, in modo disinvolto, diversi piani temporali e di realtà. La claustrofobia di Buried – Sepolto (titolo con cui il film condivide la produzione di Peter Safran) si apre qui a un’agorafobia dell’anima, in cui l’impossibilità per il protagonista di muoversi diviene metafora (scoperta) di un’esistenza bloccata.

Si prende i suoi rischi, Mine, in un approccio estetico fatto di motivi forti e ricorrenti (la posizione inginocchiata del protagonista, dalle diverse valenze fisiche ed emotive, il suono ripetuto dell’innesco della mina), di simbologie trasparenti, di una regia che non ha paura a mettersi in mostra, facendo sfoggio, nella composizione dell’inquadratura e nel montaggio, di un tocco fortemente personale. I rischi di un’interpretazione così peculiare e marcata del materiale narrativo di partenza, di un’autorialità che già all’esordio emerge con tanta nettezza, vengono quasi sempre superati da una sicurezza che è quella di due cineasti dalla lunga ed elaborata gavetta, che ha permesso loro di sviluppare un approccio al racconto di genere sempre filtrato attraverso un’ottica personale. La lettura del genere attraverso lo scandaglio psicologico, la capacità di tradurre in immagini un intero mondo interiore (facendo collidere la complessità del coté visivo con l’essenzialità della trama) sono caratteristiche non facili da trovare nell’attuale cinema di genere italiano; averle, poi, portate fuori dalle secche del panorama indipendente, fino ad una visibilità mainstream, rappresenta in sé un piccolo miracolo.

Non è un film perfetto, Mine, e probabilmente non poteva esserlo vista la dichiarata voglia dei registi di giocare con gli stereotipi, in parte smontandoli ma in altra parte, inevitabilmente, facendoli propri. Così, la comunque efficace figura del berbero interpretato dall’inglese Clint Dyer (comic relief della storia, ma anche moderno caronte e sciamano, guida del protagonista nei territori del rimosso) si nutre di una biografia personale che presenta qualche schematismo di troppo, e qualche dettaglio che rende ardua la sospensione dell’incredulità; così, i dialoghi tra il protagonista e il suo sfortunato commilitone, figura accessoria e funzionale unicamente all’innesco della storia, si nutrono di quei luoghi comuni da war movie di cui il film non riesce fino in fondo, e forse neanche vuole, liberarsi. Resta comunque, quello di Guaglione e Resinaro, un esordio di buona fattura, che se produttivamente segue una strada (quella della co-produzione internazionale) di cui il nostro cinema di genere sente il bisogno da troppo tempo, artisticamente mostra un’ulteriore sfaccettatura, e un’altra possibile declinazione, di una via italiana alla narrazione di genere che sta tentando (senza ancora riuscirci compiutamente) di trasformarsi in panorama compiuto e riconoscibile.

Info
Il trailer italiano di Mine.
Una clip tratta da Mine.
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