Blue Jeans

Blue Jeans

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A ulteriore prova del talento cristallino dello sfortunato John H. Collins, alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone arriva anche Blue Jeans, turgido melodramma femminista già capace, nel 1917, di mettere alla berlina le arretratezze puritane con radicali cambi di registro fra il comico, il tragico e l’avventuroso.

Happiness must be earned

Giunto nel villaggio di Rising Sun per dirigere la segheria di famiglia, Perry Bascom (alias Jim Nelson) incontra June, ragazza abbandonata e vagabonda, e tra i due nasce immediatamente una forte amicizia. Perry è costretto a difendere June dalle turpi attrazioni di Ben Boone, bravaccio locale nonché politico senza scrupoli che, in seguito alla rissa che ne consegue, diventerà la sua nemesi. June trova alloggio presso un’anziana coppia, Cindy e Jacob Tutwiler, la cui figlia fuggita di casa diciott’anni prima si scoprirà essere la defunta madre di June. Ma a turbare l’amore fra gli sposini Perry e June giungerà l’avventuriera Sue Eudaly, che mentirà affermando di essere la moglie di Perry… [sinossi]

Ciò che riesce più difficile quando ci si trova davanti all’opera di John H. Collins, rivoluzionario cineasta americano degli anni Dieci ucciso a nemmeno ventinove anni dalla pandemia di influenza del 1918, è proprio capacitarsi di come un cinema di tale modernità possa già avere un secolo. Perché in Blue Jeans, ulteriore tappa compiuta dalle trentacinquesime Giornate del Cinema Muto nella fondamentale riscoperta del genio dello sfortunato e ingiustamente dimenticato regista, si può per molti versi già vedere nel 1917 tutto il cinema americano che verrà.
C’è un linguaggio narrativo e visivo già perfettamente codificato prima che la contemporanea lezione di Griffith venisse assimilata ponendo quelle che saranno le regole del cinema classico (non solo) muto, c’è la moglie e musa del regista Viola Dana affamata nei suoi furtarelli da orfanella quattro anni prima che Chaplin girasse Il monello, c’è la politica vile e corrotta che dalle prime comiche slapstick giungerà fino a Le idi di marzo, così come ci sono già la tenuta narrativa inattaccabile e l’afflato sociale nella creazione di un epico affresco americano che, passando per John Ford, proseguiranno poi fino a Paul Thomas Anderson.
C’è poi una modernissima struttura a flashback, cifra stilistica tipica di Collins, già capace di sostituire la parola nella narrazione e di canalizzare le emozioni dello spettatore, ci sono le sue asimmetrie nelle inquadrature che rifiutano sistematicamente la messa in scena frontale e totale del cinema narrativo degli albori studiando invece primi piani, profili, dettagli, posizioni della macchina da presa e degli attori nello spazio scenico del campo, c’è il suo montaggio chirurgico – con tanto di azzardo di un campo-controcampo oggettivo che diventa una doppia soggettiva di sguardi truci e disperati direttamente nell’obiettivo –, e c’è la necessaria alternanza ritmica fra i raccordi sullo stesso asse con quelli di posizione e con quelli di sguardo.
Blue Jeans, insomma, è già un moderno e pienamente autoriale film di scrittura, messa in scena e montaggio, in grado di tenere in maniera sorprendentemente salda le redini dell’intreccio innestandolo su diverse deviazioni narrative che seguono e caratterizzano i sei personaggi principali, e muovendosi a proprio agio nei generi che spaziano dalla commedia al melodramma fino all’azione pura, con tanto di salvataggio all’ultimo respiro da una sega circolare che quasi anticipa, incollando il pubblico alla poltrona, le mille vite di James Bond.

Tratto dall’omonima pièce teatrale di Joseph Arthur rappresentata per la prima volta nel 1890, modificandola però radicalmente per, oltre a limare le parti comiche di contorno, rendere l’originario ‘supporting role’ di June la vera e propria indiscussa protagonista, Blue Jeans è la ricerca della felicità lungo un percorso tortuoso, funestato dalla sfortuna e da una malvagità umana fatta di prepotenze, gelosie e sotterfugi. Dalle cadute, fra tenerezza e spasso, dalla gigantesca ruota anteriore del velocipede che porta Perry Bascom verso la segheria di famiglia, le mani allungate da June verso il suo pranzo al sacco e i racconti di solitudine e orfanotrofio di lei, il film passa alla messa in scena della società locale, con il bravaccio e politicante liberal Ben Boone che abusa del suo potere facendo il bello e il cattivo tempo sul paese mentre Bascom è costretto a cambiare nome in Jim Nelson per tentare di ricrearsi una verginità dopo le malefatte di un suo zio: le colpe passate di una persona ricadono, nella mentalità popolare, su tutta la sua stirpe, e nessun Bascom sarebbe mai più stato il benvenuto nella Rising Sun del tempo. Nemmeno per gli anziani coniugi Tutwiler, che accolgono amorevolmente June nella loro casa, ma nel frattempo conservano il ritratto della loro figlia, “portata via” dai Bascom insieme all’onore di famiglia diciotto anni prima, girato verso la parete, come un peccato da espiare, come un’onta da lavare, come un trauma dal quale può nascere, apparentemente, solo altro odio.
Quando June, novella sposa di Perry Bascom/Jim Nelson, troverà per caso la fotografia della sua defunta madre, capirà di essere realmente la loro nipote, ma nel frattempo si presenterà in paese, pronta ad allearsi con Boone distruggendo la carriera politica di Bascom e il suo idillio familiare, l’avventuriera Sue Eudaly che già in passato, per quanto già sposata, aveva ingannato e incastrato il protagonista in un matrimonio ovviamente non valido, ma che ora – a differenza dell’esistenza del suo precedente marito, e quindi della totale buona fede di Perry Bascom – è comprovato dalle carte. Una colpa senza colpa, pronta però a scatenare un dubbio morale che, fra i conservatori del tempo, diventa immediatamente accusa, reazione, voltafaccia, senza neanche porsi il dubbio che possa essere una montatura, una rivalsa, un bieco ricatto.

Mirabile in questo senso, per messa in scena, la sequenza del faccia a faccia elettorale, con cittadini che dal palchetto di Boone si spostano entusiasti verso quello di Perry Bascom/Jim Nelson, per poi tornare, dopo le rivelazioni shock di Sue Eudaly, a quello del perfido politicante antagonista. Compresi i Tutwiler, che vieteranno alla nipote di vedere ancora suo marito, fino alla dura reazione di lei che, come già sua madre, andrà via di casa per stare accanto allo sposo, predicendo al rigido nonno che sarebbe ben presto tornato a chiederle scusa e ricevendo in cambio uno schiaffo.
Nel frattempo, Bascom partirà per un lungo viaggio alla ricerca del vero marito di Sue Eudaly e, con lui, della prova della propria rispettabilità, mentre June, durante la sua assenza, darà alla luce il primo figlio: è la perfetta tragedia americana, ancora una volta, pronta a cristallizzarsi nella sequenza della chiesa. June arriva con il frugoletto in braccio a chiedere di battezzarlo, ma verrà scacciata dal prete a causa della natura ritenuta non valida e quindi peccaminosa del suo matrimonio. È un’umiliazione pubblica in piena regola, con le rigidità puritane nella morale che, ben al di là del torto nel merito della vicenda messa in scena, scalzano quella carità cristiana di cui la chiesa si sarebbe dovuta fare portatrice.
Una carità e un cuore che invece esplodono nei Tutwiler, testimoni di un simile sopruso da parte del pastore, che prima gli ricorderanno di “porgere l’altra guancia”, e poi torneranno dalla propria infelice nipote a fare i bisnonni, portando quelle scuse che mai e poi mai avrebbero pensato di dover pronunciare. Nel loro ammorbidimento, c’è tutto quel respiro popolare e progressista del film, c’è tutta la capacità di ammettere i propri errori e di porre rimedio che farà grande l’America moderna. Fino al ritorno di Bascom, mai messo minimamente in dubbio dalla sposa, con in dote le prove della propria ragione e buona fede, che apriranno al finale d’azione e avventura, ultimo fra i registri affrontati dal film dopo l’agio nel passaggio da quello comico a quello (melo)drammatico.

Perché la straordinarietà di Blue Jeans, all’apice delle sue istanze femministe e progressiste (anche se nemmeno i liberal sono visti propriamente benissimo, anzi…), è proprio nella creazione di una perfetta eroina ante litteram, capace di fare emergere con la propria umanità e con il proprio cieco amore per un marito, in passato ingannato e ora ingiustamente accusato di bigamia, tutte quelle contraddizioni puritane di una religione che cerca così ostinatamente la virtù da dimenticare l’esistenza e l’essenza dell’amore.
June è un’eroina inconsapevole: è semplicemente una donna che segue il cuore e la ragione, che cerca una normalità dopo le angherie che la vita da orfana le aveva riservato, che cerca di vivere la propria commovente dignità. Nel suo percorso agrodolce dall’orfanotrofio alla normalità di moglie e mamma, è costretta a prendere iniziative, esporsi, lottare in prima persona contro una famiglia accecata dall’ossessione per l’onore, contro una società inaridita dagli eccessi conservatori, e poi contro la morte ormai quasi certa dell’amato, con l’atto di eroismo, al tempo a quasi esclusivo appannaggio maschile, di rompere il vetro della segheria per spostare il marito svenuto dal tavolo da lavoro in movimento proprio quando la sega stava per tagliarlo in due.
È un film sulla fiducia, è un film sulla famiglia, è un film su una società che stava cambiando, dalla rustica tradizione ottocentesca di patriarcato, reputazione e onore familiare al lento e faticoso ingresso nell’era moderna, fatta di orizzonti che si allargano e di uomini che costruiscono con il duro lavoro la propria fortuna e la propria rispettabilità.

Successivo solo di poche settimane a The Girl Without a Soul, del quale già qualche giorno fa abbiamo tessuto le lodi su queste pagine, Blue Jeans è probabilmente ancora superiore per ambizione, ritmo, capacità nei cambio di registro e lucidità politica e sociale nel mettere alla berlina gli eccessi puritani di una società americana ancora a cavallo fra la tradizionale arretratezza rurale e le aperture progressiste che saranno dell’era industriale – quella della segheria del protagonista e ancor più quella dei Blue Jeans, prodotti nel villaggio di Rising Sun già da una ventina d’anni ai tempi del film e ancora oggi nota e apprezzata marca di tessuto denim –, in un gap generazionale che si stava ponendo come paradigma del cambio di secolo.
La filmografia di Collins, con i suoi innocenti ingiustamente accusati, con la sua fiducia cieca e disperatissima fra marito e moglie e con il suo sguardo amorevole verso una grande America, terra promessa destinata sempre alla vittoria dei giusti, crea un immaginario popolare, l’andare cristallizzandosi del Sogno Americano: è un affresco continuo che, un film dopo l’altro, definisce quell’America Rurale di inizio Novecento ancora legata a doppio filo con il secolo precedente, ma pronta a vincere gradualmente le sue piccole e grandi arretratezze sociali e culturali per lanciarsi, fra giustizia e self-made men, nell’era moderna.
Che poi è quella del cinema, di cui John H. Collins, prima di essere drammaticamente rimosso dalle memorie cinefile a causa della sua prematura morte e probabilmente del suo troppo anticipo sui tempi, aveva già saputo agli albori della narrazione anticipare buona parte delle regole e delle istanze.

Info
Il sito delle Giornate del Cinema Muto.
La pagina Wikipedia inglese di Blue Jeans.
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  • blue-jeans-1917-john-h-collins-002.jpg

 

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