Intervista a Rutger Hauer
Rimane nell’immaginario collettivo il suo monologo cult di Blade Runner: «Ho visto cose che voi umani…», ma la carriera di Rutger Hauer è assai più variegata, andando ben oltre i bastioni di Orione. Cominciata nella nativa Olanda nel 1969, ma valicando ben presto anche le porte di Tannhäuser per arrivare a Hollywwod nel 1981 e diventare uno degli attori più richiesti negli anni Ottanta. Lo abbiamo incontrato al Trieste Science+Fiction Festival, dove ha ricevuto il premio Urania d’Argento alla Carriera.
[Foto di ©Be360images]
Tra i tanti grandi registi che hai incrociato nella tua lunga carriera c’è stato anche Sam Peckinpah, per il quale hai recitato nel suo ultimo lungometraggio, Osterman Weekend. Cosa ricordi di quell’esperienza?
Rutger Hauer: Lui era un uomo con un grande sense of humor. Credo che gli abbia fatto piacere lavorare con me proprio come a me con lui. È stato come uno scambio di esperienza dal quale ho potuto imparare, ed era uno dei primi ruoli di protagonista che ho potuto interpretare in un film americano. È stato un grande passo per me. Ricordo che abbiamo parlato per settimane della sceneggiatura e della storia del film. Il senso che voleva dare a questo film era quello secondo cui le pubblicità stavano iniziando a divorare la realtà. Tutte le cose interessanti che le persone intendevano dire tra una pubblicità e l’altra, non importa in quale show, servivano solo a far sì che la gente potesse guardare le pubblicità. Non credo comunque che il messaggio sia arrivato molto bene. Ricordo che la fine della lavorazione fu molto difficoltosa, forse lui ebbe dei problemi con i produttori, ma non lo so esattamente. Amavo lavorare con Peckinpah, era molto silenzioso. Aveva qualche problema di salute e ogni tanto doveva fare delle pause. Tra una ripresa e l’altra andava a coricarsi a letto per poi tornare sul set in forma perfetta. Trovavo molto divertente il fatto che dirigesse con le sopracciglia. Faceva una ripresa, poi diceva: “Cut”. Ma a me sembrava di poter riuscire a fare un po’ meglio e allora gli chiedevo se potevo farne un’altra e [muove le sopracciglia, n.d.r.]: “Ok”, con questo fottuto movimento del suo occhio. Non si capiva mai se stesse scherzando o meno, ma adoravo quel suo modo di fare. So che non molte persone riuscivano a sopportarlo perché è come quando qualcuno ti prende in giro, ma io riuscivo a gestirlo ed era molto divertente. Aveva un’attrice fantastica, dai bellissimi occhi, Meg Foster. Non era grande con le donne; per quello che ho visto, lo facevano subito arrabbiare.
All’inizio della tua carriera hai lavorato più volte con Paul Verhoeven, ancora nella fase europea del vostro percorso. Cosa ha significato crescere artisticamente con lui?
Rutger Hauer: Sai, ero completamente inesperto, non ero pronto a credere che il cinema sarebbe diventato il mio vero lavoro, e quindi ero molto riluttante. Eravamo entrambi molto insicuri di noi stessi io e Paul. Ci dicevamo: “Sì, questa cosa possiamo farla, ma come?”, e il come era la parte divertente. Ci trovavamo ad affrontare problemi elementari come, non so, in che modo fotografare una certa sequenza oppure io dicevo: “Non capisco questa scena”, e ogni volta ci sedevamo e ne parlavamo assieme. A volte si arrivava a tagliarla ed è da allora che ho imparato che spesso delle cose è meglio tagliarle. Quello che mi ha insegnato è di non dedicare tempo a qualsiasi cosa di cui non hai effettivamente bisogno. Bisogna lasciar andare, anche se può essere complicato, perché a volte hai bisogno di più tempo per ‘respirare’ in un film. Ma allora mi trovavo a dire: «Aspetta, qui stai andando troppo veloce, c’è bisogno di un ritmo diverso”. Mi ha insegnato tante cose, ho imparato a lavorare con una macchina da presa e ho imparato quello che fa una macchina da presa, a partire dal primo lavoro che abbiamo fatto insieme. E ho imparato anche un po’ di recitazione, perché non credo che sapessi bene cosa stessi facendo. All’inizio mi limitavo a ripetere solo quello che mi dicevano di fare. Insieme siamo cresciuti fino a raggiungere un modo più maturo di lavorare. Il film che ha davvero creato la complicità tra di noi è stato, per me, Soldato d’Orange, anche se inizialmente lui non mi voleva per quel film finché non gliel’ho chiesto e ho fatto un provino. Lui l’ha visto e ha detto: “Sì, va bene, sempre meglio di tutti gli altri”. Poi in quel periodo avevo un amico malato di cui mi stavo occupato – aveva il linfoma di Hodgkin – e non sapevo se sarei stato in grado di recitare la parte in Soldato d’Orange. Mi ci volle un anno per prendere una decisione. Decisi per il sì grazie proprio al mio amico che mi disse che dovevo riprendere a lavorare.
Però alla fine non recitasti in Robocop anche se Verhoeven ti aveva inizialmente preso in considerazione per quella parte che poi fu assegnata a Peter Weller. Come mai?
Rutger Hauer: Paul mi voleva per Robocop, me ne aveva parlato ma io non mi sentivo a mio agio con quella storia. Peter Weller fece un ottimo lavoro e non credo che avrei potuto farlo io. La parte più importante della tua carriera si cela nelle cose che non hai fatto. Non ho fatto nemmeno U-Boot 96. Anche per quello è venuto da me il regista Wolfgang Petersen e mi ha chiesto se mi interessasse. Mi sembrava la storia di un boy scout che stava passando un periodo difficile, sentivo un senso di claustrofobia rispetto a quel ruolo e non credevo che fosse così interessante. Finirono per girarlo in 14 mesi, perché ne fecero anche una serie tv, e in quel periodo iniziai a girare Blade Runner. Quindi, se avessi accettato U-Boot 96, non avrei potuto prendervi parte. E quello è il film che mi ha trasportato per 30 anni. È un po’ come se quello che non fai sia in realtà la chiave per quello che farai. Ma non si leggono mai questi retroscena perché molti ritengono che non sia così interessante parlare delle cose che non hai fatto.
Hai lavorato anche due volte con Ermanno Olmi, con La leggenda del santo bevitore e poi con Il villaggio di cartone. Com’è stata la vostra collaborazione?
Rutger Hauer: La cosa bella di quel ruolo, in La leggenda del santo bevitore, è stata l’assoluta casualità perché non ci conoscevamo per niente. Ermanno Olmi cercava ancora il protagonista per quel film e io non sapevo neanche chi fosse. Lui vide per caso in tv un’intervista in cui io promuovevo il film The Hitcher e disse: “Però, potrebbe essere lui”. Quindi attraverso una serie di intermediari, altri attori e produttori, è arrivato a offrirmi il ruolo. Ci siamo incontrati a Parigi ed è nata questa collaborazione. Devo dire che è stato un film fantastico perché ha toccato veramente la mia anima. Lavorare con Ermanno Olmi all’inizio non è stato così semplice perché, lui per dirigermi e io per dire la mia, avevamo sempre bisogno di un interprete, cosa che non rende il lavoro immediato. Però poi lui mi ha detto questa cosa fondamentale: “Rutger, considera questo ruolo come un film d’azione, però un film d’azione in cui avviene tutto a livello mentale”. Questa cosa mi ha colpito e ho capito che, anche se in principio ero un po’ intimidito da questo ruolo, quella era la chiave, perciò mi sono detto: “Lo devo fare e sono sicuro che verrà benissimo”. Quindi da un lato c’era un po’ di improvvisazione, con Ermanno che dirigeva a modo suo e io che interpretavo quello che voleva Ermanno, ma dall’altro c’era la sceneggiatura e ogni volta che eravamo in difficoltà, tornavamo a quella, e quindi al romanzo che era il faro, mentre la sceneggiatura era la nostra barchetta e l’improvvisazione il nostro salvagente. La cosa più memorabile è venuta in un momento in cui giravamo delle sequenze poco importanti o semplicemente di passaggio. Mi ricordo che facevamo diverse riprese di queste scene tutt’altro che vitali per il film. A un certo punto io facevo le mie cose, dicevo le mie battute ed Ermanno sembrava quasi completamente assente, ma in realtà sapeva perfettamente quale fosse la direzione giusta. E allora io gli dissi: “Ermanno, con tutto il rispetto, ma a vederti così sembra che non te ne freghi niente, come fai a capire qual è la ripresa giusta?”. E lui: “Lo riesco a capire dalla sinfonia che viene dai rumori, dalle battute, dal movimento che sento”. Quindi a quel punto ho capito che lui dirigeva i suoi film come se fossero un concerto. E, anche se poteva sembrare assente, non gli sfuggiva nulla, non un dettaglio, non un particolare. Poi con Ermanno ci siamo ritrovati più o meno vent’anni dopo a lavorare per Il villaggio di cartone, per me straordinario perché completamente improvvisato. Un film visionario, importantissimo e vitale sulla migrazione. Lì ho avuto ancora la conferma che Ermanno è un grande regista che, anche improvvisando, riesce sempre a creare qualcosa di fondamentale.
Ma alla fine ti senti sempre legato a Blade Runner e a quel monologo che è diventato ormai un tormentone?
Rutger Hauer: Blade Runner è stato il mio film più bello, ma anche il più difficile. Perché facile è una parola fatta per i morti. Quello di Roy Batty è un ruolo complicato, più umano degli umani stessi, perché per Ridley Scott i replicanti sono migliori degli uomini. La verità è che se un attore pensa di poter interpretare più del 50% di un personaggio è un idiota. L’altro 50% lo costruisce il pubblico, il regista, i montatori. Io mi ispiro all’architetto Frank Gehry: lui modella i suoi edifici usando dei fogli accartocciati e strappandone dei pezzi. Poi butta via tutto, e il giorno dopo ricomincia. Io costruisco i ruoli allo stesso modo.
Quindi anche Roy Batty è un foglio accartocciato?
Rutger Hauer: Certo. Un personaggio non è che un’insalata di caratteristiche. Cosa sapevo io di Roy? Che amava la poesia, aveva il senso dell’umorismo, era sexy ma non gli serviva a niente, perché i replicanti non si riproducono. Con pochi elementi io abbozzavo uno schizzo, ogni giorno diverso. La sua morte l’abbiamo decisa così, lui che si spegne e si arrende lentamente. Dopo le morti teatrali dei suoi compagni, dopo la tensione narrativa degli inseguimenti, lo spettatore si aspetta una finale d’azione, invece si scioglie davanti a una morte dolce e disarmante. E poi quella colomba, che fu un’idea mia. Era infreddolita dalla pioggia e quando l’ho lasciata andare si è messa a razzolare per terra, mandando al diavolo la scena più importante della mia vita. Abbiamo risolto col montaggio. Gli imprevisti rendono tutto più eccitante, ad esempio quando i tuoi problemi personali sono insostenibili e si fondono con la recitazione. Accadono cose interessanti quando la tua vita privata straripa nel lavoro.