Intervista a Denis Lavant
Presso il cinema Lux, elegantemente incastonato nella galleria San Federico a Torino e tra i luoghi clou del Torino Film Festival, abbiamo incontrato Denis Lavant, tra i corpi attoriali più suggestivi e metamorfici del cinema contemporaneo. Un artista polimorfo e seducente, vero e proprio interprete feticcio del selvaggio talento del cinema francese Leos Carax. Lavant, dal vivo, ostenta la sua fisicità da performer sgraziato e peculiare: tutto in lui è fuori posto, dall’abbigliamento studiatamente trasandato ai lineamenti spessi e grossolani passando per i suoi movimenti continui e dinoccolati, eppure l’insieme fornito dalla presenza di questo minuto e inquieto attore francese è quanto di più fascinoso e attraente si possa concentrare su una singola persona. Lavant è energico, accompagna ogni espressione con gesti larghi ed eloquenti, si dondola spesso sul posto quando sta in piedi e quando si parla, in particolare, di Monsieur Merde, maschera che Carax gli ha cucito addosso fino alla loro ultima collaborazione, Holy Motors, Lavant esplode in una risata rauca che sembra trattenere tra sé e sé. Uno dei tanti sintomi di una simpatia piuttosto marcata.
Mr. Lavant, che rapporto c’è con Leos Carax, il regista che più di ogni altro ha condizionato la sua carriera e la sua arte?
Denis Lavant: C’è una relazione curiosa, che spesso va al di là dei film che abbiamo fatto insieme. Di fatto ormai il nostro sodalizio va fatto risalire a trent’anni fa e col passare del tempo non possiamo non renderci conto di quanto importante sia la connessone che si è instaurata tra di noi, al di là di quante volte ci parliamo in un anno o degli scambi che possiamo avere l’uno con l’altro. È un’amicizia che va al di là del lavoro, nel quale comunque Leos mi costringe ad approfondire le cose in maniera incredibile, forzandomi verso un coinvolgimento umano elevatissimo. Per me è davvero un fratello, che mi ha aperto una porta molto importante nel cinema portandomi anche alla ricerca dello sforzo fisico, a fare cose mai fatte come lanciarmi da un paracadute, andare in moto o ballare sulle note di David Bowie. Mi ha spinto estremamente lontano a livello artistico, per cercare la verità a tutti i livelli.
Cosa porta con sé di Holy Motors, la vostra ultima collaborazione?
Denis Lavant: Mi sono reso conto della fortuna che ho avuto nell’incontrarlo tanti anni fa, l’ultima volta che mi è capitato di lavorarci insieme. Come sempre con lui avevo un po’ paura, perché pensavo: come si accanirà su di me, questa volta? Si tratta di un timore positivo dovuto al fatto che ogni volta lui provvede davvero a scolpirmi oltre il limite, a tenere l’asticella molto alta rispetto a quello che un regista può chiedere a un attore.
Lavorare con Carax ha influito in qualche modo sulle scelte del suo percorso d’attore?
Denis Lavant: Sai com’è, dopo aver lavorato con lui si poneva il problema di chi altro avrebbe potuto dirigermi. Non potevo scegliere chiunque, con quel tipo di background, e infatti mi hanno cercato fin da subito degli autori di un certo tipo, che condividono con Carax il senso della ricerca, come Claire Denis e Harmony Korine.
Lei lavora con assiduità e costanza a teatro e ha una formazione ben precisa e legata al palcoscenico, ma ha mai accarezzato l’idea di passare dietro la macchina da presa per dirigere qualcosa?
Denis Lavant: Non l’ho mai fatto e non credo che lo farò mai. Semplicemente non fa per me, non penso che sia quella la mia funzione nello stare al mondo come artista. Conosco i miei limiti, so di conoscere e padroneggiare il teatro, per la cui consapevolezza mi è toccato comunque fare molti sforzi, ma l’idea di scrivere con la macchina da presa è qualcosa per cui non sento di essere portato né di possedere le facoltà intellettuali e organizzate necessarie. Si tratta di una fatica enorme, il mio posto invece è la recitazione, un contesto creativo nel quale mi muovo con una storia che mi viene proposta e un ruolo all’interno di essa da interpretare e da far mio.
Una delle sequenze in assoluto più iconiche del cinema contemporaneo è il finale di Beau Travail di Claire Denis, con lei che balla sulle note di The Rhythm of The Night. Che ricordo ha di quella scena, del modo in cui nacque e fu girata?
Denis Lavant: Era la seconda volta che mi trovavo a ballare in una scena così emblematica, dopo quella celeberrima di Mauvais Sang sulle note di David Bowie e della sua Modern Love. In questo caso avevo a che fare con un personaggio in nero, che ho impiegato molto tempo a trovare, e il film lavorava molto sul linguaggio della fantasia visionaria. Si trattò di una performance molto coreografata, dovevo ascoltare la musica e lasciare andare il corpo. L’idea era quella di passare da una condizione di immobilità a una fase di decollo usando il mio corpo come veicolo intermedio. In origine la scena era presente a metà della sceneggiatura, ma Claire in fase di montaggio decise di spostarla alla fine probabilmente perché la sequenza risultò essere uno sbocco per il personaggio, una fuoriuscita, una sorta di catarsi impossibile. Per cui non poteva che stare lì.
Parliamo di Kazarken, film presente nella sezione TFFDoc del Torino Film Festival nel quale recita anche lei in un ruolo particolarissimo, quello del centauro Chirone. Una figura mitologica importantissima e un personaggio assai versato nella scienza nonché precursore degli studi medici, calato qui in un contesto contemporaneo.
Denis Lavant: Si tratta di un progetto realizzato al fianco di una mia cara amica, Güldem Durmaz, che è andata a scavare nella storia turca evidenziando una serie di cose con degli strumenti prettamente cinematografici e ripercorrendo contemporaneamente la storia della sua famiglia. Il risultato è un film che, rivolgendosi al suo albero genealogico, parla però di tante cose dalla valenza universale, per tanti esseri umani, proprio perché connesse alle domande chiave che riguardano l’oggi.
Com’è stato recitare a quattro zampe?
Denis Lavant: Decisamente delicato, non tanto perché avevo gli arti posteriori di un cavallo quanto piuttosto a causa della vicinanza con un vero cavallo accanto a me. Temevo si arrabbiasse e mi prendesse come un diretto concorrente, come un simile, adirandosi per per via della mia presenza.
Come ha reagito alla proposta di interpretare un centauro?
Denis Lavant: Quando mi è stato proposto non mi sono neanche chiesto cosa fosse questo personaggio o cosa rappresentasse. Semplicemente mi ha commosso il progetto quando Güldem me l’ha spiegato, mi ha toccato questa sua idea estremamente personale e intima per il film. Il nostro rapporto nasce molto tempo prima, in una compagnia teatrale per la quale abbiamo lavorato insieme realizzando fianco a fianco Riccardo III e un Nerone davvero intriso di grandguignol. Per me è difficile spiegare a parole il rapporto che ho con qualcun altro quando è così intenso, è qualcosa che si tesse piano piano e che va al di là dell’amicizia, quando si realizza e prende vita. In generale mi piace interpretare guide spirituali, l’ho già fatto altre volte, anche di recente.
Le è mai capitato che un regista le chiedesse di sostituire dei dialoghi semplicemente con la sua mimica facciale, così particolare e preminente?
Denis Lavant: No, non mi è capitato! Io nasco come mimo e come danzatore e ho dovuto studiare non poco per imparare ad esprimermi con un testo e attraverso la recitazione verbale. Di sicuro quando lo faccio si tratta di un esercizio diverso rispetto a un linguaggio extraverbale, ma devo dire che mi dà altrettanto piacere.
In chiusura, salutandola e ringraziandola: quali sono stati i suoi modelli e punti di riferimento per lavorare sul suo corpo al cinema, nella maniera unica in cui lei lo ha fatto? La sua formazione è stata imperniata senz’altro su Marcel Marceau, ad esempio.
Denis Lavant: Marceau, che giustamente citi, è una figura per me imprescindibile. Ma anche Chaplin naturalmente, quello dei primi film, Harpo Marx, Buster Keaton. Tutte figure che hanno usato il loro corpo in maniera mi verrebbe da dire perfino scandalosa. E poi Michel Simon, che era un grande personaggio anche a livello umano. Trovo che gli attori debbano avere un lato sociale e umano estremamente pronunciato. Per quanto mi riguarda non può essere altrimenti. E, infine, i cavalli (ride)!