A mosca cieca

A mosca cieca

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A mosca cieca è il film ‘maledetto’ di Romano Scavolini, censurato dalle istituzioni e tra i più folgoranti esempi della produzione sotterranea italiana. Con Carlo Cecchi e Laura Troschel.

Qualcuno da odiare

Un uomo trova una rivoltella in una macchina in sosta e decide di utilizzarla per colpire – senza motivo apparente – una vittima scelta fra la folla in uscita dallo stadio. [sinossi]
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A mosca cieca è Ricordati di Haron, come recitano i titoli di testa della versione ancora oggi circolante ed edita in dvd dalla RaroVideo, ma è anche I giochi dei bambini e chissà cos’altro ancora. È il film “maledetto” per eccellenza dell’underground italiano, quel microcosmo che fu maledetto dalle istituzioni, da buona parte del pubblico, dallo stesso ambiente cinematografico. A mosca cieca è il film invisibile, che per i più stolidi “non doveva mai essere fatto”, e che invece (r)esiste ancora a distanza di cinquant’anni, in tutta la sua mortificante destrutturazione, in quel meccanismo che si auto-sabota per disinnescare la miccia di un sistema gonfio, tronfio, obeso. Romano Scavolini ha ventisei anni quando presenta A mosca cieca a Enzo Nasso, produttore di documentari, con il quale il regista aveva già collaborato per lavori sulla breve distanza: ovviamente in questo caso non si tratta di una ripresa dal vero, ma c’è più realtà in quelle immagini che nella stragrande maggioranza dei documentari prodotti all’epoca dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Nasso si trova davanti un fiume in piena di immagini, per oltre sei ore di durata, che diventano poi due ore e un quarto. Di questa versione si innamora a prima vista Giuseppe Ungaretti. Ma più della poesia può la burocrazia, e in censura mal vedono un seno scoperto di Laura Troschel, all’epoca ventiduenne: probabilmente i problemi non riguardano solo le nudità dell’attrice, ma questo dettaglio basta alla commissione apposita, che vieta il film (sullo scranno ministeriale del terzo governo Moro siede il socialista Achille Corona, già tra i fondatori di Unità Proletaria, ma il suo sottosegretario era il democristiano Adolfo Sarti, tre lustri più tardi coinvolto nell’inchiesta sulla loggia massonica Propaganda Due) nonostante le ripetute proteste di Scavolini e i ricorsi a tutti gli organismi dello Stato. A mosca cieca non s’ha da vedere, e viene rinchiuso nei sotterranei del Ministero, dove dovrebbe trovarsi tutt’ora, neanche si trattasse di un pericoloso nemico pubblico.
Ovviamente il film circolò comunque, in modo più o meno clandestino, sia in Italia che all’estero, ma nella versione poi edita anche in home video, che supera di poco l’ora di durata. Non che questo rappresenti un problema particolare, perché A mosca cieca può essere considerato quasi un film estendibile e riducibile, arto che sfrutta le potenzialità del cinema per opporvi un fiero diniego. Scavolini filma un anti-film in piena regola, come altri grandi eversori prima e dopo di lui (da Anna di Grifi/Sarchielli a Delitto sul Po di Rezza/Mastrella), e ribadisce un valore fondamentale della sperimentazione: essa non risiede nella tecnica utilizzata, ma nel senso che si assegna a quella tecnica.

A mosca cieca sviluppa la propria poetica riscrivendo le regole di un cinema borghese che riesce (quasi) sempre a normalizzare tutto; anche la scia scaturita dalla rottura con la prassi prodotta dal neorealismo si è fatta più labile. Scavolini prende spunto dalle ellissi, dai borborigmi e dalla ridefinizione dell’immagine operata dai registi della nouvelle vague e spinge l’asticella ancora più in alto: se il vagare di Carlo Cecchi (all’epoca delle riprese pressoché sconosciuto, e consigliato a Scavolini da Valentino Zeichen, fiumano come il regista e a sua volta ancora inedito nel 1966) per le strade di Roma possiede la stessa naiveté che sembra guidare Jean-Paul Belmondo in mano a Jean-Luc Godard, il già esile sviluppo narrativo dei film del regista francese diventa qui ancor più un orpello. Cecchi trova una pistola in un automobile parcheggiata a piazza Venezia, e una volta scelta una vittima a caso decide di pedinarla in attesa del momento in cui dovrà ucciderla. Tutto qui? Ovviamente no.
Se la trama di A mosca cieca è ridotta al minimo non è solo per un puro ghiribizzo autoriale: nell’eliminare in maniera scientifica qualsiasi lettura psicologica nella messa in scena dei personaggi, Scavolini rigetta in blocco l’idea stessa di drammatizzazione. Se esiste artificio, in A mosca cieca è tutto nel muoversi attraverso lo spazio del suo protagonista. Il tempo, invece, a volte viene frazionato – i molteplici punti di vista dai quali lo spettatore può assistere alla scoperta della pistola, per esempio – altre seguito pedissequamente senza interventi esterni. Cecchi è dunque in un istante infinito e infinitesimale allo stesso tempo, immortalato per l’eterno eppure fragile in ogni inquadratura, omicida per scherzo più che per ribellione ideologica (e infatti lo sparo della pistola viene introdotto da un fumetto). Quando il colpo parte dalla rivoltella e il cadavere è riverso a terra, anche il portiere – l’omicidio è nei pressi dello stadio Olimpico – si getta al suolo, ma per abbrancare un pallone che vaga in area. La rappresentazione della morte può generare letture metaforiche pressoché infinite. Si muore al cinema, ma si può chiamare morte? Anche la fuga di Cecchi sul Lungotevere, è davvero fuga?

Pur fugando fin dalle prime inquadrature – che sembrano quasi uno scherzo del cinema sottoproletario del periodo, o comunque una sua disumanizzazione umanista – qualsiasi dubbio di facile lirismo, è la struttura poetica quella più accomunabile a A mosca cieca: se lo stesso Scavolini paragona Cecchi a Leopold Bloom è perché lo stream of consciousness è la stella polare del film, ne certifica in modo chiaro l’appartenenza a un sotto-genere, non a caso letterario e non cinematografico. Joyce ma anche Beckett, in quell’attesa vacua di un avvenire che non potrà mai essere, perché già è, e molto esistenzialismo, mai riprodotto con cieco asservimento a regole che Scavolini non seguirà mai nel corso della sua carriera (neanche, o forse soprattutto, nelle sue incursioni nel “genere”, come Un bianco vestito per Marialé del 1972, o Nightmare del 1981). Per sopravvivere nel mondo del Capitale è necessario imparare a odiare. Solo il nemico dona statura di personaggio all’uomo qualunque. Solo qualcuno da uccidere, un atto definitivo, può creare ancora senso nella società dello spettacolo.
Questa giostra dell’istante, che è assurda proprio perché strettamente legata a un reale che non vive di sovrastrutture ma solo del suo stricto sensu, termina nel modo più plateale e sovversivo possibile, con il super-8 del matrimonio di Laura Troschel con Pippo Franco. Il vero entra nel ricreato e ne contorna la fine. Ma cos’è la fine?

Info
Romano Scavolini, regista di A mosca cieca, intervistato da Bruno Di Marino.
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