Joaquim

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Con Joaquim, il cinema brasiliano torna a interrogarsi sui tempi della colonizzazione portoghese mettendo in scena chi, da soldato della corona, finirà giustiziato per aver guidato la rivolta. Tutte le buone intenzioni del film, però, annegano ben presto in un mare di cliché gratuiti, nell’incapacità di approfondire e in una retorica banale e schematica. In concorso alla 67esima Berlinale.

L’oro della Corona

Brasile, XVIII secolo. Nella colonia portoghese c’è una crescente preoccupazione perché l’estrazione dell’oro è in declino. Il paese è governato da ufficiali coloniali corrotti, fra i quali il tenente Joaquim, che si è fatto un nome come cacciatore di contrabbandieri d’oro. Ha atteso invano il premio che intenderebbe utilizzare per acquistare la libertà della sua amante, una schiava nera. Al fine di ottenere i soldi necessari in qualche altro modo, accetta di partecipare a una spedizione pericolosa per trovare nuove vene di oro. È accompagnato da alcuni suoi connazionali e da una truppa di schiavi africani, indios indigeni e meticci. Più va avanti la ricerca, più crescono i suoi dubbi sulla missione. [sinossi]

Sin dall’apertura, Joaquim è il racconto di un decapitato. La sua testa, staccata dal corpo, è ora issata su un palo come orribile monito verso chiunque altro potesse avere in cuore di cospirare ancora contro la Corona portoghese. Siamo verso la fine del XVIII secolo, quando il lungo periodo coloniale del Portogallo sulla nazione sudamericana stava per volgere ai titoli di coda, sicuramente per i focolai di resistenza che iniziavano ad ardere in giro per il paese, ma soprattutto perché le continuate razzie del suolo avevano ormai portato i filoni auriferi verso l’esaurimento, e una colonia senza più oro, impoverita forse per sempre, perde inevitabilmente di fascino per chi ci ha sempre messo le mani gustandone i frutti a distanza. All’epoca in cui è ambientato Joaquim, tuttavia, ai tempi per la definitiva fine della sabbia nella clessidra lusitana sul Brasile mancava ancora qualche anno per maturare, e la testa decapitata del protagonista è ancora quella di chi non è riuscito a vedere il suo sogno di libertà coronato e per questo sogno è stato martirizzato, ma anche di chi con la sua storia sarà destinato a diventare un simbolo, un eroe, un esempio di valore sulla cui memoria si fonderà una nazione.

C’è già tutto, nell’incipit del film: c’è il respiro antibellico ed egualitario, c’è la necessità di trovare un’identità a costo di morire, c’è l’oppressione del calcagno fetente del colonialismo con i suoi metodi medievali nel sedare le rivolte, c’è l’eroismo patriottico e ci sono pure, seppur declinati in un alter ego cinematografico che scarta dal biopic per nomi e per eventi, i riferimenti storici a Tiradentes, ovvero l’eroe nazionale brasiliano José da Silva Xavier alla cui vita è ispirata buona parte della vicenda messa in scena. In pochissimi minuti, con una sola inquadratura elegantemente fotografata e il breve monologo fuori campo di una testa senza più il corpo, il regista pernambucano Marcelo Gomes mette sul piatto tutta l’anima del film, tutta la sua spina dorsale, tutti i suoi messaggi. È un incipit notevole, destinato però a rimanere una pepita fra sassi senza valore, un’illusione linguistica che paradossalmente rende ancor più disastroso ciò che segue.

Già dopo il titolo, appena la piccolissima e affascinante sezione introduttiva lascerà lo spazio alla lunga analessi di cui si compone il corpus del lungometraggio, Joaquim sarà destinato a navigare fra il gratuito e lo schematico, fra lo sterile e il didascalico, perdendo progressivamente per strada quelle che sono le sue buone intenzioni e piombare nella più pura retorica dei colonizzatori “cattivi” e della formazione di un individuo attraverso il suo crollo. Joaquim, “I miei genitori sono portoghesi e quindi sono un po’ portoghese anch’io”, aspira a una promozione all’interno dell’esercito unico coloniale, e quindi lusitano, ma nonostante i suoi indubbi meriti nello stanare i contrabbandieri d’oro si vede costantemente scavalcato in grado da chi è nato in Portogallo e non in Brasile, e magari è razzista verso i “ratti indiani”. Sogna di poter comprare dal marito la sua amante, la schiava nera che tutti chiamano Blackie, ma nel frattempo tutti i portoghesi o quasi usano la donna come carne da macello per sfogare le proprie voglie più lubriche senza che lei possa opporre resistenza. E del resto anche Joaquim, dentista come il Tiradentes alla cui vita il film è ispirato, non è certo estraneo ai rudi metodi coloniali, con tanto di denti estratti al marito di Blackie, come “offerta” per l’acquisto della donna, in una sequenza gratuita ai limiti della pornografia fra urla di dolore e dettagli vorticosamente, e fastidiosamente, cercati dall’inquadratura a mano.

Il primo atto di Joaquim, ambientato nel campo base fra soldati e schiavi, nient’altro fa che accatastare pillole di ingiustizie e di barbarie colonialiste, di corruzione e di razzismo, ricordando a ogni piè sospinto che è sempre la Corona portoghese quella che sarà destinata ad arricchirsi a spese del Brasile e costruendo le sue tesi su una sfilacciatura forzata e didattica che ruota intorno in sostanza a una sola idea, limitandosi a telefonare agli spettatori quanto sia importante la libertà di una nazione e quanto ogni atto dei coloni sia, per la sua stessa natura di atto coloniale, selvaggio e annichilente per chi lo subisce.
E se le svariate co-produzioni lusitane nel film brasiliano fanno in questo senso quasi pensare a un modo per tornare indietro, ammettere le proprie colpe storiche e lavarsi così la coscienza, ciò che emerge da Joaquim è una lettura del colonialismo banale e stereotipata, forzata in esempi che, incapaci di porsi come paradigmi, declinano invece in derive narrative e dita puntate anche quando non necessario, fastidiosa nei ripetuti e non necessari “spiegoni” che costantemente ostacolano il percorso del film. È una caratteristica che influisce negativamente su ogni aspetto dell’opera quinta di Marcelo Gomes in concorso alla Berlinale 2017, dalla scrittura alla messa in scena, destinata se possibile a peggiorare ulteriormente in quelle che saranno le altre due parti in cui Joaquim, nelle sue ellissi temporali e geografiche non sempre efficaci, è così (troppo) decisamente scandito.

Il secondo atto è quello della vana ricerca dell’oro, in cui la terra non donerà ai suoi pionieri il biondo metallo, ma Joaquim troverà altre pietre preziose di cui non dirà nulla ai compagni che lo avevano appena abbandonato, facendo ragionare per la prima volta il protagonista sulla lealtà, sul tradimento e sui danni del colonialismo. Nella ricerca delle pepite e delle polveri auree, tuttavia, non riesce mai a emergere una reale vena di avarizia, e se la speranza di Joaquim muta ben presto in ossessione e in una progressiva perdita del controllo, risulta ancora una volta posticcio e superfluo come, durante il viaggio di ritorno a mani vuote, fra i salti narrativi e il logorarsi dei rapporti umani, debba trovare necessariamente spazio la “saggezza” di un contadino, per il resto avulso dalla narrazione, che appare solo per declamare che “L’oro rovina tutto, prima la terra e poi l’uomo” facendo ancora una volta ristagnare il film nei suoi ampollosi intenti didascalici.
E, del resto, in un continuo alternarsi di frasi-chiave messe in bocca ai protagonisti senza che la narrazione le sappia supportare o giustificare, anche il terzo e ultimo snodo narrativo, quello della reale svolta, finirà per vedere proprio in quello che vorrebbe essere il suo apice il protagonista impegnato in chiesa in una sorta di monologo/comizio/confessione su come tutti gli uomini si debbano trattare con equità, su come si debba rinunciare alle armi, su come si debba scacciare l’oppressore. Come se trovare il proprio ruolo nel mondo e il proprio senso di giustizia non fosse altro che una sorta di bignami di anticolonialismo, pronto ad affogare nella retorica e nell’eccessiva semplificazione tutta quell’illusione di classe e di solidità cinematografica che emergeva dalla sequenza iniziale, quando di Joaquim a parlare era solo la testa e sembrava avere ancora qualcosa da dire.
Quando il protagonista, dopo aver subito l’ennesima ingiustizia gerarchica nell’esercito, verrà catturato dai guerriglieri Quilombo, schiavi africani ribelli capitanati nel frattempo da Blackie – ma “Black è un colore, il mio nome è Zua” – e vedrà in prima persona la loro rivolta, capirà di voler vivere in un mondo diverso e aderirà ben presto all’Inconfidencia Mineira, il movimento patriottico brasiliano con il quale perderà la vita. Ma il film si ferma prima, ancora alla retorica, ancora al “bisogna prendere le armi” tuonato durante il primo pranzo insieme ai nuovi compagni, e a quella testa iniziale, purtroppo, Joaquim non tornerà mai.

Nel passaggio graduale del protagonista dall’esercito portoghese alla resistenza brasiliana, Joaquim avrebbe voluto raccontare una storia di ricerca di identità, spartita fra il convincimento di chi era brasiliano ma ancora pensava di essere portoghese e la lotta sul campo di chi invece in Brasile era stato portato di forza dall’Africa e venduto come schiavo. Avrebbe voluto essere un film libero che parla di libertà, un film sognante che parla di sogni, un film liberatorio che parla di liberazioni, e invece ha finito per forzare in maniera al contempo ingenua e saccente situazioni e dialoghi, per perdersi nelle sue tesi dimenticando di mettere in scena l’umanità del protagonista, per bloccarsi in una messa in scena tanto forzatamente “sporca” da ingabbiare persino la macchina a mano.
È un film profondamente sbagliato, spesso involontariamente ridicolo nell’ossessività delle sue puntualizzazioni, inconsistente e ripetitivo nella narrazione, inchiodato dall’unico punto intorno al quale gira: il colonialismo è brutto, ma questa, se non messa adeguatamente in scena ramificando in profondità le sue ragioni, rimane semplicemente una frase fatta, un’ovvietà, un punto di partenza che non viene elaborato se non per stereotipi ed esagerazioni, e poco conta a questo punto quanto sia condivisibile.
Joaquim è un film che, in un Concorso prestigioso come quello della Berlinale, ha trovato posto solo per il tema, ma non avrebbe mai e poi mai meritato, nemmeno in un’edizione non particolarmente memorabile, di competere per l’Orso d’Oro. A differenza del personaggio storico di José da Silva Xavier, alias Tiradentes, che per liberare il Brasile è morto davvero e che davvero ha visto la sua testa impalata all’ingresso del villaggio come monito per coloro ai quali, prendendosi tutte le colpe della rivolta, aveva salvato la vita. Lui, senza dubbio, avrebbe meritato di essere ricordato con una biografia “vera”, in grado di rendergli almeno un minimo di giustizia, di restituirgli il suo nome e i suoi atti, e non certo con questo patetico tentativo di drammatizzazione.

Info
La scheda di Joaquim sul sito della Berlinale.
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