Intervista ad Albert Serra

Intervista ad Albert Serra

La prossima volta faremo meglio, dicono i medici al capezzale del Re Sole in La mort de Louis XIV, film tra i più apprezzati all’ultimo Festival di Cannes, con un immenso Jean-Pierre Léaud, dove è stato presentato fuori concorso. Sarà difficile fare di meglio o anche uguagliarsi per il regista, il catalano Albert Serra, che nella sua relativamente breve carriera, ha già fatto incetta di premi e riconoscimenti. Honor de cavalleria, il suo, definitivo, film su Don Chisciotte, fu selezionato dai Cahiers du Cinéma tra i dieci migliori film del 2007; Història de la meva mort, il film dove incrocia le figure di Casanova e Dracula, ha trionfato al Festival di Locarno 2013; La mort de Louis XIV ha ricevuto il Prix Jean Vigo nel 2016. Su Serra sono state realizzate retrospettive al Centre Pompidou nel 2013 e al Milano Film Festival nel 2016. Lo abbiamo incontrato all’International Film Festival Rotterdam dove ha presentato La mort de Louis XIV.

Nelle tue due ultime opere sembri interessato alle transizioni storiche. Quella tra Ottocento e Novecento, Illuminismo e Romanticismo in Història de la meva mort, e quella tra Assolutismo e Illuminismo in La mort de Louis XIV. Come mai?

Albert Serra: Non mi piace scrivere script molto complessi o drammatici, quindi devo trovare una drammaturgia naturale per i miei film. La transizione porta a una drammaturgia naturale. Non c’è bisogno di cambiare o aggiungere cose strane solo per mettere qualche contenuto nel film. Qui c’è questa idea semplice, che non è di transizione, ma forse un po’ sì: il potere assoluto, molto assoluto, che deve affrontare la totale impotenza. È una cosa intima e personale nel corpo del re, ma allo stesso tempo è vero che questo potere assoluto non può più essere sopportato, perché iniziava a essere troppo e all’epoca in Europa c’erano troppe guerre, bancarotte e bla bla bla. Anche questo folle potere assoluto stava arrivando alla fine. Naturalmente è finito un po’ più tardi con la Rivoluzione francese e qualche altra cosa, ma si è iniziato ad aver la percezione che quello non fosse il modo migliore di gestire uno stato. Questo ha messo una drammaturgia naturale nel mio film: qualcosa sta cambiando, qualcosa sta arrivando al termine, non devi spiegare altre cose. Inoltre l’idea di questo re, di questo potere assoluto incarnato da Jean-Pierre Léaud, da un uomo, è anche un potere così grosso che è anche una presenza nel mio film. I miei film non si basano sulla drammaturgia dell’azione ma su una drammaturgia della presenza e in questo film è ancora più chiaro perché hai una presenza, quella del re, e non importa cosa fa, come si muove, se si muove o no. Ma se lui dice qualcosa tutto nella stanza si muove. È come il catalizzatore di tutto il movimento, è la sua presenza che da sola crea una drammaturgia naturale nella stanza. Quindi è davvero facile per me creare un film con questi due elementi, questo senso crepuscolare, la fine di un’era, la fine del potere assoluto, e la fine di una vita, la vita privata del re, e quest’idea che è una presenza così importante dentro alla stanza, e crea questa drammaturgia naturale di spostare le cose, di incrociare cose e persone e idee e ogni cosa all’interno della stanza. Per me è davvero noioso girare seguendo meccanicamente uno script, perché io sono molto sensibile e consapevole di quello che sta succedendo davanti alla mdp. Per cui se un attore è molto ispirato, seguo l’ispirazione dell’attore, quel momento magico. Non è possibile comandare l’ispirazione dell’attore perché viene ispirato da cose imprevedibili, non puoi costringerlo a essere ispirato. Devi fare un film che segue l’ispirazione, non il contrario. Dunque la drammaturgia aperta, con queste cose semplici che abbiamo, questi momenti storici e crepuscolari, davvero ti permette di seguire l’ispirazione dell’attore e di muovere tutto il film verso atmosfere dove gli attori in un momento concreto sono più ispirati. E per me questo è importante, non ho idee prima. È come una performance, le cose vengono create nel tempo presente, reagisco in una maniera molto elastica, per preparare tutto e muovere tutto molte volte al giorno, molte volte all’ora, non importa, per seguire quel momento in cui gli attori sono bravi a fare qualcosa e allora tutto si muoverà. E per questo c’è bisogno di una drammaturgia aperta perché altrimenti non potresti approfittare dei momenti in cui gli attori sembrano tristi per esempio. Come potresti ordinare loro queste cose? È meglio approfittare di qualcosa che è già presente ed è già magico.

Nella fotografia di entrambi i film lavori molto sul contrasto tra luce e buio. Qual è il significato di questa contrapposizione?

Albert Serra: Penso che i sensi dal punto di vista plastico siano molto importanti. Non tanto per il contrasto, che era molto importante nel mio film precedente, ma per via del buio. Una ragione pratica, che forse è l’origine di questo amore per le tenebre in un certo senso, è che con questi film d’epoca è molto difficile gestire i costumi e le ambientazioni storiche. Deve essere tutto perfetto, altrimenti con tanta luce e un’alta definizione dell’immagine si vedrebbero i difetti, per esempio se i tessuti non sono perfetti o se c’è qualcosa che non va bene nei materiali, ecc. Dunque, più la scena è buia, meno queste cose saranno visibili. Poi, da questo punto di vista, è ovvio che in questo film per esempio il buio è importante durante gli incubi. Perché è importante il movimento tra affrontare la morte nella rappresentazione, cioè davanti agli altri, e affrontare la morte in intimità. Che poi è affrontare se stessi. Si muove sempre tra queste due possibilità. E quando devi affrontare te stesso di solito è di notte, perché è quando sei da solo e hai tempo e hai una specie di relazione violenta con te stesso. Così era anche nel mio film precedente, perché in quei momenti si è davvero da soli e non c’è via d’uscita. C’è poi anche l’idea della vanità della vita. Tutti i dipinti spagnoli barocchi, che erano sul tema della vanità della vita ed erano molto barocchi, sottolineano questo aspetto. Ci sono momenti bellissimi nella vita, la pomposità e la ricchezza, ma poi c’è la morte che improvvisamente uccide tutta questa bellezza e tutto questo piacere e tutti questi desideri che abbiamo. È molto spagnolo, è la coscienza che tutto nella vita ha una fine. E allora tutto il piacere della vita non è niente. Come i quadri di Goya. Come Caravaggio e Rembrandt. Il dramma che è già nel buio delle nostre vite. È una metafora.

La frase finale di La mort de Louis XIV, quella dei medici che dicono che la prossima volta faranno di meglio, suona come agghiacciante, e può essere letta sia come preannuncio fideistico dello sviluppo della scienza medica, ma anche come lugubre premonizione di un ciclo della morte, del susseguirsi dei passaggi epocali della Storia. Perché chiudi con questa sentenza?

Albert Serra: È terribile, ma è la vita. Pensi che in un ospedale al giorno d’oggi ci siano dottori che piangono quando un vecchio paziente muore? Immagino che succeda spesso che, come i miei attori, i dottori possono essere più o meno ispirati. Non è solo e sempre questione di incompetenza. Quando un dottore è poco ispirato e il suo paziente muore, pensi che si metta a piangere? No. Sta solo cercando di migliorare per la prossima volta. A parte questo, fa parte dell’ironia del film sulla medicina, su quanto poco fosse avanzata la medicina in passato. Ho un amico medico che mi ha detto che il film gli è piaciuto, perché è realistico, perché la medicina è avanzata di più nell’ultimo secolo che in tutti quelli precedenti. A quei tempi era molto arretrata. Dall’Impero romano alla fine del XVIII secolo la medicina è stata praticamente la stessa. C’era anche qualcosa di filosofico. In un certo senso è vero che tutti i dottori sono orribili e idioti perché non sapevano come curare, a parte tagliare tutto, che era l’unica soluzione. Ma nel film non lo fanno. Il film ha quest’aspetto filosofico, che continua tuttora. Ci sono due dottori o due visioni di cosa sia la malattia nel ciclo della natura. Una visione è che la malattia sia parte della vita, per cui per esempio il cancro è parte della vita, non puoi vivere per sempre per cui semplicemente ci sarà un momento in cui le tue cellule muoiono e la tua vita muore. Non c’è niente da fare ed è parte di tutte le vite, delle piante, degli animali. È un ciclo naturale che per alcuni dura di più e per altri di meno. Ma per nessuno durerà per sempre, dunque niente che è vivo durerà per sempre. Wittgenstein per esempio aveva il cancro e considerandolo parte della vita non volle essere curato e semplicemente morì. Molto in silenzio, semplicemente pensando che la fine sia parte della vita esattamente come l’inizio. La nascita è bellissima ed è parte della vita e poi c’è anche la vita. Ma c’è anche un’altra visione, cioè l’approccio scientifico secondo il quale possiamo interferire in questo ciclo e abbiamo il diritto e forse il dovere di farlo perché siamo o vogliamo essere padroni del nostro destino e la scienza medica ci aiuterà in questo senso. Quindi possiamo cercare di rompere questo ciclo, di intervenire con violenza, con la medicina che entra nel corpo. C’è una bellissima discussione che fanno i dottori con il ciarlatano. È un po’ una caricatura ma mostra che ci sono due visioni, un approccio new age e uno puramente scientifico e materialistico. Uno più spirituale, dove la morte viene vista come qualcosa di spirituale. C’è una bellissima frase in questa discussione quando un dottore della facoltà di medicina di Parigi, quello con approccio scientifico, dice: “Ma per te la malattia è una sublimazione del corpo?” come se la malattia fosse invece qualcosa di buono, qualcosa che aggiunge qualcosa di nuovo e interessante al corpo. Come se la malattia fosse davvero parte della natura. Nel film si mostrano tre corporativismi che sono ancora vivi oggi. I medici e i chirurghi che toccano la gente, la operano, poi ci sono gli accademici della facoltà di Parigi, persone che insegnano negli anfiteatri dell’università, che non si occupano di persone vere. Poi c’è quell’altro approccio, del ciarlatano, come esistono tuttora. È bellissimo perché c’è la battaglia corporativista tra questi tre diversi tipi di conoscenza, ognuno vuole proteggere la sua conoscenza.

Anche nel tuo precedente film Història de la meva mort

Albert Serra: Considero Història de la meva mort un vero capolavoro, questo è molto buono ma non so fino a che punto. Quello precedente è davvero folle, qualcosa di davvero avanzato e di avanguardia.

… c’era un discorso sulla storia della scienza, sulle pseudoscienze e sulle credenze e superstizioni dell’epoca, nel mostrare l’alchimia, nella ideale possibilità di trasformare gli escrementi in oro.

Albert Serra: Casanova arriva un po’ più tardi, perché il libro si svolge nello stesso secolo ma nella seconda parte del XVIII secolo. Per me la differenza tra i due film è che Història de la meva mort è preso da un soggetto più folle, perché la natura stessa di Casanova è quella di qualcuno di pazzo, molto vivace e con tantissima energia, che fa e pensa sempre cinque cose nello stesso momento. È davvero divorare la vita. Ciò ti permette di fare un film che apre tante porte, di chiuderne alcune ma altre non si chiudono. Quasi un trip psichedelico. La mort de Louis XIV è un po’ diverso: è sempre nella stessa stanza, è un personaggio molto iconico che non ti permette di fare cose folli. Nei miei film mi piace mischiare l’approccio serio con quello ironico, nello stesso film e nella stessa scena in modo che non sai esattamente cosa sta succedendo. Ma qui non puoi concentrarti su Luigi XIV e piangere e ridere contemporaneamente, sarebbe fuori contesto. Allora il film deve essere più sottile, più omogeneo. Per non rompere questa illusione di realtà. Soprattutto in Francia, perché Luigi XIV è un re molto grande e iconico e se ci metti qualcosa di stravagante potresti uccidere la fede globale delle immagini del film. Per questo motivo in qualche senso penso a Història de la meva mort come più folle, che apre davvero tante sensazioni. Le persone vedendolo a volte si arrabbiano perché provano tante cose ma non riescono a capire niente. Ma provano tante cose, stanno facendo esperienza di questi personaggi, di questi momenti bellissimi. Alla fine che cosa è il fottuto significato di tutte queste immagini? Si ritrovano un po’ vuoti, è qualcosa di molto astratto e avventuroso. Con La mort de Louis XIV ho cercato di fare le stesse cose ma in un modo più chiuso, omogeneo, delicato. Ho usato attori professionisti quindi c’è meno materiale grezzo, perché tutto è un po’ più controllato. Ho cercato di spremere fino alla fine gli attori senza dare loro i significati che avevo in mente, perché come ho detto prima, il significato deve essere creato quasi nel tempo presente della performance. Non ho mai detto prima che Luigi XIV doveva essere così o cosà. No, deve essere creato al presente. Comunque non è quello stesso approccio folle del precedente film, ma sono entrambi molto belli. È un mix coerente.

Sempre a proposito della fotografia e del contrasto tra luce e buio, ci sono dei momenti in La mort de Louis XIV, le candele, i volti dei dottori paonazzi dalla luce del fuoco delle lettere che stanno bruciando, che esaltano molto la luce. Le candele settecentesche non ci possono non far pensare a Barry Lyndon. Le hai filmate nella loro luce naturale come Kubrick?

Albert Serra: No, non c’è luce naturale, o meglio, c’è qualcosa di simile ogni tanto. Ci siamo fidati un po’ delle candele ma non sempre. Sì, sono un po’ come le candele di Barry Lyndon. Di solito è un effetto che si ottiene artificiosamente ma per noi era molto difficile perché richiede molto tempo e soldi e per come giro io è addirittura impossibile. All’epoca di Kubrick il fulcro del cineasta era la ripresa, perché preparavano la ripresa, perché la pellicola era in 35mm e le macchine da presa molto grandi, per cui c’era molto da preparare, le luci, il fuoco ecc., e ci si potevano mettere tante candele per la ripresa. Ma noi giriamo scene di 40 minuti/1 ora per cui la luce continuerebbe a cambiare e le candele si consumerebbero. Non è possibile. È stato anche un grosso problema, perché con queste lunghe riprese, era difficile avere tutto il tempo le candele che facevano lo stesso tipo di luce. Non è stato facile con il mio metodo di fare riprese molto lunghe con tre mdp.

Come mai, in La mort de Louis XIV, hai inserito delle citazioni esplicite di Molière, scrittore del secolo precedente che ha ampiamente satireggiato la classe medica con il suo mondo di ciarlatani, medici per forza e malati immaginari?

Albert Serra: È stato una specie di scherzo. I dottori servivano a criticare questo aspetto del corporativismo ed è stato una specie di scherzo fatto da qualcuno che difendeva un altro tipo di corporativismo, quello dei dottori che sono più vicini al re. È pieno di commenti molto ironici e molto belli. Purtroppo a volte le persone non ascoltano i dialoghi e se li perdono, perché sono così abituati a capire i dialoghi senza ascoltare, perché sono abituati a dialoghi che sono sempre con un contenuto pratico, funzionali a spiegare come è il personaggio o a raccontare qualcosa della trama. Quando un dialogo è un po’ più poetico, è a un altro livello di comprensione, e di solito sfugge. Potrebbe essere la poesia o l’assurdo o un approccio astratto. Questo è stato fatto molto bene in Història de la meva mort , dove i dialoghi erano un misto di poesia e astrazione, ma poi c’erano delle cose concrete così non sapevi come interpretare questi dialoghi. In questo film la stessa cosa l’ho fatta in maniera un po’ più omogenea e sottile. Mi dispiace un po’ per il pubblico perché tutti i dialoghi sono bellissimi ma quando sono così poetici le persone pensano di stare ascoltando i dialoghi ma in realtà non lo stanno facendo. È strano, credo che le persone siano diventate meno sensibili alle immagini e più scaltre con le immagini. Ascoltare i dialoghi senza la connessione con le immagini. È come ha detto Godard, tutti gli elementi all’interno del film dovrebbero essere ripresi senza gerarchie, ogni elemento dovrebbe avere uguale importanza. Questa è un’idea che rompe la narrazione classica che prevede che il dialogo serva a sottolineare l’immagine e la musica a aiutare a capirla, ecc. con una coerenza gerarchica verso la comprensione della scena. Ma Godard ci ha detto che non è così ed è così che facciamo i film oggi. Siamo più bravi grazie al montaggio al computer che ci permette di sperimentare in tanti modi, con questa idea che non ci sia un ordine negli elementi. Per esempio possiamo fare dialoghi che siano contro il contenuto dell’immagine, ecc. Il pubblico, però, non è abituato a questo perché le serie tv e i film normali lasciano sempre un compito esplicativo ai dialoghi. È un peccato. È una cosa di cui soffriremo sempre di più in futuro, dell’incapacità degli spettatori di godere della bellezza dei dialoghi solo perché non sono connessi in maniera ovvia all’immagine.

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La pagina dedicata a Albert Serra su Wikipedia.

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