Passeri

Dalla lontana Islanda e grazie alla Lab80 arriva nelle nostre sale Passeri di Rùnar Rùnarsson, un convenzionale bildungsroman dotato di uno sguardo tenero e delicato ma anche troppo prigioniero di luoghi comuni narrativi.

Canta che ti passa

Ari, 16 anni, è figlio di genitori separati e vive a Reykjavik con la madre, che però è in procinto di partire per una missione in Uganda. Viene quindi parcheggiato a casa del padre, dove Ari ha passato l’infanzia, in un villaggio sperduto nel nord del paese. Qui si scontra con una realtà più dura di quella cittadina e con una figura paterna che, sprofondata nella depressione in seguito al divorzio, non conosce quasi per niente. Aspettando l’inizio della scuola lungo tutta un’estate, Ari si mette a lavorare, ritrova un’amica d’infanzia segretamente amata, fa amicizie, coltiva di nascosto la passione per il canto… Cresce. O forse no. [sinossi]

Alcuni temi sono universali più di altri, non foss’altro perché da certe fasi di vita ci passiamo tutti. L’adolescenza e la linea d’ombra hanno alle spalle una tradizione narrativa pressoché infinita, con tutte le sue asperità, l’attraversamento del senso d’inadeguatezza, la scoperta di se stessi, il reinquadramento dei rapporti che fino a quel momento sono stati essenzialmente di dipendenza familiare. Ovunque, su tutto il pianeta, prima o poi tutti quanti diventiamo adulti. Ovviamente per drammatizzare il tema sono spesso chiamati in causa tòpoi narrativi che più classici non si può: genitori separati e/o assenti, trasferimenti forzosi, solitudine marcata da eventi esterni alla volontà dell’individuo (come se diventare adulti non fosse un dramma anche per chi ha vissuto nelle migliori delle famiglie possibili).
Giunto alla sua opera seconda in lungometraggio, l’islandese Rùnar Rùnarsson si è preso il gravoso incarico di raccontare ancora una volta tale tormentoso passaggio esistenziale, narrando in Passeri la tenue vicenda di un tipico ragazzino opaco, appartenente alla schiera dei timidi e degli insicuri. L’unico elemento vistosamente originale di tale nuovo prodotto islandese è che, per l’appunto, è islandese, proveniente da un paese vagheggiato e avvolto nel mistero per la sua lontananza geografica.

Dalla remota Islanda stanno arrivando negli ultimi anni prodotti cinematografici decisamente interessanti (basti pensare all’ottimo Storie di cavalli e di uomini, 2013, Benedikt Erlingsson), e vi è comunque da registrare il coraggio di realtà distributive italiane che si stanno impegnando nella scoperta di una cinematografia rimossa. Dopo la P.F.A. Films, responsabile della circolazione del film di Erlingsson nel nostro paese, adesso è il turno della Lab80 che si è prodigata per la visibilità di Passeri. Ben venga insomma la scoperta di altre visioni, di altri modi di vedere, mettere in quadro e narrare. Ma Passeri manca sostanzialmente di questo, ovvero di uno sguardo cinematografico tale che superi il mero dato di prodotto venuto da un “altro mondo”.

In tal senso è pure da registrare che buona parte del fascino del film di Rùnarsson discende proprio dalla sua collocazione geografica, dall’uso espressivo di paesaggi in relazione ai personaggi, spesso dispersi in campi lunghi disegnati secondo un gusto specificamente geometrico a macchina fissa: piccole figure umane che si dibattono sullo sfondo di scenari di maestose montagne. Se però da un lato tale gusto figurativo per il paesaggio corrobora la fascinazione visiva quasi a un livello di “cinema primitivo” mirato allo stupore, dall’altro più volte si finisce per sospettare il gusto cartolinesco, spesso evitato grazie al rifiuto di Rùnarsson per qualsiasi abbellimento fotografico e grazie all’adozione della pellicola in luogo del digitale.
A lasciare però ancor più perplessi interviene la sostanza narrativa del film. Passeri ripercorre infatti tutti i luoghi più tipici del bildungsroman non risparmiandosi alcun luogo comune: dalla capitale Reykjavik il protagonista Ari viene catapultato infatti nel suo villaggio originario, nel nord del paese, dopo che la madre ha deciso di partire per una missione in Uganda. Figlio di genitori separati, Ari si ritrova così a dividere la casa e la vita col padre che conosce a malapena e che versa in uno stato decisamente depressivo, incapace di elaborare la perdita della moglie. A sostenere Ari vi è il ritrovato rapporto con la nonna e con un’amica d’infanzia, primo sogno d’amore.
Nel percorso di formazione di Ari non manca niente, dal duro scontro con una realtà non cittadina alla retorica virile di un contesto sociale in cui le titubanze adolescenziali non sono contemplate, alla passione tenuta pressoché segreta per il canto che tanto stride in un paesaggio di cotante certezze maschili. E poi il lavoro fisico, la piscina, lo scontro coi bulli, la nascita di una prima amicizia importante, l’incontro con l’alcool, le droghe sintetiche, l’orribile nave-scuola sessuale incarnata da una cinquantenne sovrappeso, la scoperta del lutto e del dolore, il conflitto con una figura paterna assente e la verginità da perdere.

Non si può certo negare che Rùnarsson abbia una mano delicata nel trattare tali temi: spesso il film si muove tramite infinitesime registrazioni di realtà, come quella prima doccia condivisa con l’amico in cui sguardi, curiosità e titubanze reciproche si alternano in una brevissima inquadratura. Non convince però la scarsa volontà di ragionare più a fondo sugli eventi, né l’eccessiva convenzionalità di rassicuranti e notissimi luoghi narrativi, chiamati a convegno tutti insieme come un diligente compitino da svolgere. Anche il gustoso senso dell’umorismo nordeuropeo stavolta è confinato in rarissime occasioni, e resta prevalente l’approccio tenero e acritico a un racconto vecchio come il mondo. Così come è abbastanza prevedibile che il finale si chiuda su una nota di disincanto, dovuto alla scoperta dell’amarezza della vita adulta (o forse anche, nell’ultima inquadratura, sul desiderio di fuggire dalla durezza della vita come in un estremo atto regressivo). Resta però a favore del film, questo sì, l’escamotage narrativo tramite il quale si giunge a tale nota desolata, un cinico schiaffo in pieno viso alle illusioni romantiche dell’adolescenza.

Passeri rimane comunque un film da vedere, interessante soprattutto come testimonianza di un cinema lontano che negli ultimi anni sta cercando di farsi conoscere. Se però siamo in cerca anche di novità stilistiche e narrative, allora dobbiamo cercare altrove. O magari rivedersi Ovosodo (1997) di Paolo Virzì, che su una materia narrativa decisamente simile riusciva ben vent’anni fa a costruire un gioiello del nostro cinema più recente, percorrendo proprie strade linguistiche.

Info
Il trailer di Passeri su Youtube.
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