Il diritto di contare

Il diritto di contare

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Tra period drama e biopic, incentrato sul sempiterno tema della discriminazione razziale negli USA, Il diritto di contare evita le trappole della retorica, ma resta registicamente anonimo e poco incisivo nella resa dei personaggi di contorno.

Biografie nascoste

Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson, scienziate impiegate alla NASA nei primi anni ‘60, vivono sulla propria pelle il risultato della discriminazione razziale in uno stato americano (la Virginia) in cui è ancora in vigore la segregazione. Le necessità della “corsa allo spazio” faranno tuttavia sì che i vertici dell’agenzia scelgano di puntare sulle loro competenze… [sinossi]

Non fanno ben sperare, i primi minuti de Il diritto di contare, nuovo dramma-biopic che riflette sul sempiterno tema della discriminazione razziale nella storia (recente) degli Stati Uniti. Non fanno ben sperare perché, se da un lato il prologo (dalla fotografia virata al seppia, come da manuale) sembra tracciare, per il personaggio della futura matematica Katherine Johnson, un trattamento narrativo in perfetto stile A Beautiful Mind, dall’altro il successivo dialogo delle tre protagoniste con l’agente di polizia, ambientato nel “presente” (che qui è l’inizio degli anni ‘60) si presta a tutti i rischi di una retorica declamatoria e posticcia. Ciò risulta vero, tuttavia, solo nelle previsioni. Bisogna infatti riconoscere che a volte lo sguardo critico su un’opera che nasce, in qualche modo, con limiti intrinseci (difficile immaginare, invero, un trattamento diverso da quello offerto dal film, per un soggetto con questi connotati) si presta a un buon numero di pregiudizi. Pregiudizi che, laddove non riconosciuti, rischiano di offuscare lo sguardo stesso e la lucidità della valutazione.

Con questo preambolo, non si vuole certo affermare che Hidden Figures (titolo originale teso a indicare, oltre alle tre “oscure” protagoniste, le formule matematiche necessarie a pianificare i lanci spaziali) sia un’opera che lascerà una qualche traccia nella storia del cinema. Il film di Theodore Melfi, invero, starà probabilmente solo a testimoniare di un’altra stagione in cui l’Academy accorda una corsia preferenziale (almeno nelle nomination) a quei lavori che si confrontano con la storia, intrinsecamente contraddittoria, di una nazione ancora giovane; esponendone sullo schermo, nei più variegati modi, la cattiva coscienza. Il discutibile trionfo di Moonlight, ma anche la nomination al ben superiore Barriere di Denzel Washington, confermano questa perdurante tendenza. Tuttavia, sarebbe intellettualmente scorretto identificare Il diritto di contare con un pamphlet dal gusto meramente trombone e declamatorio: il regista di St. Vincent si rivela al contrario estremamente attento (ed è questo probabilmente il maggiore merito suo, e del film) a mantenere la storia delle tre protagoniste saldamente ancorata a una dimensione minuta, quotidiana e volutamente poco propensa a farsi emblema di manifesti (di qualunque natura) di più ampio respiro.

Certo, la programmatica timidezza registica del film, la scelta di Melfi di farsi da parte per il mero gusto di raccontare una storia (pratica troppo spesso sottovalutata nel cinema odierno, non solo in quello mainstream) si traduce anche nel suo principale limite. Ciò principalmente perché la sceneggiatura, basata sul libro biografico di Margot Lee Shetterly, si rivela non priva di schematismi e passaggi a vuoto, riuscendo solo a intermittenza a rendere il complesso contesto sociale in cui i personaggi interpretati da Taraji P. Henson, Octavia Spencer e Janelle Monaé si muovono. Lo script risulta invero efficace soprattutto nell’illuminare la dimensione macrosociale, il clima di paranoia strisciante verso il “pericolo rosso” (visto letteralmente come minaccia in agguato ovunque, nel proprio posto di lavoro come sopra la propria testa), la sbornia della corsa allo spazio e le difficoltà che precise scelte politiche fanno ricadere sul quotidiano degli individui di colore. Più problematica si rivela invece l’illuminazione diretta di detto quotidiano, specie nell’introduzione di personaggi di contorno tutt’altro che memorabili: il funzionario col volto di Kevin Costner, e la superiore interpretata da una poco convinta Kirsten Dunst, emblematici di un approccio alla materia che assegna ad ogni figura la sua casella preconfezionata, con poche o nessuna possibilità di scarto.

L’assenza di guizzi registici (scelta in parte, lo ripetiamo, obbligata dai tratti del soggetto) non si accompagna qui ad un parallelo equilibrio nella gestione del racconto, che si segnala più per ciò che intelligentemente evita di fare (urlare tesi preconfezionate, e farsi posticcio emblema di un movimento ben più complesso) che per i suoi effettivi conseguimenti. Il film finisce così per reggersi più sull’abilità delle sue tre interpreti principali, efficaci nel rendere tanto la dimensione progettuale dei rispettivi personaggi (inevitabilmente tesa ad allargare il proprio sguardo su una società in rapida mutazione) quanto la loro quotidianità minuta. Il tono, pur nei limiti della resa del contesto, si rivela intelligentemente all’insegna dell’understatement, andando spesso a flirtare persino con la commedia, e alzando la temperatura emotiva della vicenda solo in pochi e selezionati frangenti. Restano così, di questo Il diritto di contare, il mero valore divulgativo di un’opera tesa a gettare i riflettori su una vicenda poco nota, quanto la capacità di sottrarre ad essa il suo potenziale retorico, esaltandone in qualche modo il valore “popolare”. Poco, o molto, a seconda probabilmente della sensibilità del singolo spettatore.

Info
Il trailer di Il diritto di contare su Youtube.
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