Non è un paese per giovani

Non è un paese per giovani

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Giovanni Veronesi in Non è un paese per giovani racconta la Generazione X del Bel Paese spostando però l’asse portante della narrazione a Cuba, per aderire al proposito di parlare dell’esodo dei giovani italiani all’estero. Se tale volontà era sulla carta interessante e d’impatto, il risultato, anche in virtù dell’ambientazione esotica, è più buonista e di comodo di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi.

Una generazione svanita

Sandro ha poco più di vent’anni, è gentile, a volte insicuro e il suo sogno segreto è diventare uno scrittore. Luciano invece è coraggioso e brillante, ma con un misterioso lato oscuro. S’incontrano tra i tavoli di un ristorante dove lavorano entrambi come camerieri. Come tanti loro coetanei, Sandro e Luciano sentono che la loro vita in Italia non ha alcuna prospettiva. Si scelgono istintivamente e decidono, presi da un’euforica incoscienza, di cercare un futuro per loro a Cuba. [sinossi]

Una generazione svanita. Viene da sintetizzare con questo epigramma l’ultimo film di Giovanni Veronesi, Non è un paese per giovani, tratto dalla trasmissione radiofonica che lo stesso regista toscano conduce su Radio 2 al fianco di Massimo Cervelli e dalla quale è partita l’idea del film, titolo compreso. L’aggettivo svanito ritorna direttamente anche nel film, più precisamente nel finale, quando il Sandro di Filippo Scicchitano, aspirante scrittore, fa leggere alla Nora di Sara Serraiocco un brandello del romanzo che ha scritto alla fine del road movie a tre voci attraverso Cuba che i due hanno condotto insieme a Luciano (Giovanni Anzaldo), persosi nell’abisso senza ritorno delle lotte clandestine una volta arrivato sull’isola e assaporato il brivido folle dell’aggressione fisica, liberatoria e anestetizzante, catartica e furiosamente fine a se stessa.

Le parole lette da Scicchitano sono state scritte da Sandro Veronesi, celebre fratello romanziere del regista, e chiudono il cerchio di un film che tuttavia ha la pretesa di raccontare una generazione mancata e non pervenuta, anche e soprattutto a causa delle colpe dei padri, spostando l’asse del racconto dall’Italia a Cuba. Una scelta piuttosto di comodo, che non si addentra nei meandri e nelle pieghe di un paese drammaticamente senza futuro e preferisce riversarsi nelle spiagge da sogno degli scenari cubani, per ridursi a imbastire, in fin dei conti, un semplice aggiornamento di quel Che ne sarà di noi che lo stesso Veronesi aveva realizzato tredici anni fa. Del film con Silvio Muccino ed Elio Germano Non è un paese per giovani è di fatto un aggiornamento 2.0 oltre che un sequel ideale, con la chimera del wi-fi e l’incertezza per l’avvenire, conclamata da una consapevolezza di sé che fatica ad arrivare, che rimpiazzano gli scombinati e vitali sogni post-adolescenziali. Quelle chimere sproporzionate e colme di tenerezza che la soglia dell’esame di maturità non può certo scrostare tutti d’un colpo.

L’ultima fatica di Veronesi è a conti fatti un film generoso ma scombinato, aggressivo e invadente coi propri personaggi ma anche stonato e sfasato in più di un’occasione. A cominciare dal registro adottato e dal tono complessivo della sceneggiatura, che pur lavorando su un gioco di caratteri stereotipato ma decisamente funzionale e ben oliato (l’artista timido e remissivo, la testa calda dagli impulsi latenti, la matta dal cuore d’oro) si smarrisce progressivamente in una seconda parte sempre più ibrida e indecisa, che oscilla vertiginosamente e senza soluzione di continuità dalla commedia al dramma. Senza un equilibrio, un’identità e una misura. Dal racconto generazionale alla degenerazione il passo è breve e l’equilibrio instabile e corrosivo sul quale poggia Non è un paese per giovani presta il fianco a una messa a fuoco piuttosto approssimativa rispetto all’obiettivo dichiarato del regista, che ben presto si appiattisce sullo sfondo per rendere primari, paradossalmente, i fondali cubani e le beghe di un triangolo affettivo e forse amoroso come tanti.
È manicheo come spesso accade al suo cinema quando prova ad alzare le proprie ambizioni, Giovanni Veronesi: la discesa agli inferi del personaggio di Luciano, resa sullo schermo dalla buona prova di Giovanni Anzaldo, è una svolta di scrittura caricata con fin troppa enfasi, giustificata a tavolino dal passato familiare del ragazzo (due genitori intellettuali, illuminati e radical chic, che non l’hanno mai capito né apprezzato) e fin troppo manipolatoria per il modo selvaggio e dirompente con cui viene riversata sullo spettatore. L’atto d’accusa di Veronesi al mediocre ceto intellettuale italiano e alle sue storture e ipocrisie, sia educative che identitarie, è piuttosto evidente ma anche alquanto velleitario e all’acqua di rose. Un po’ come mettere addosso a Nino Frassica, nella Cuba del 2017, facendoglielo ripetere più e più volte, il mantra “tanto siete tutti comunisti”.

È anche a causa di tale pressappochismo ideologico e narrativo che il film di Veronesi non riesce a incidere a dovere, preferendo alla carne e al sangue di una generazione di svaniti (una contraddizione sulla carta molto interessante) un’evasione incolore e intangibile. Se raccontare l’Italia dal di dentro pare oggi il massimo dei tabù per la commedia nostrana contemporanea, sempre più scollata dall’evidenza del paese e dalle sue urgenze, questa fuga a Cuba non si fa mai paradigmatica né rappresentativa di quell’esercito di giovani che l’Italia ogni anno la lascia davvero per realizzarsi altrove, lontano dalle paludi di una nazione che i loro padri hanno provveduto a prosciugare e spremere fino all’osso, accumulando sicurezze per sottrarle in maniera feroce e immemore ai propri figli.
Non è un paese per giovani non ha insomma la concretezza che pure invoca nel finale, cogliendo di sicuro un nodo centrale del presente (“La gente le cose ha bisogno di toccarle, pensare non basta più a nessuno”), ma si limita a fluttuare tra i vicoli assolati e contrastati di una Cuba ad ogni modo estremamente plausibile, per odori e colori, nella quale perfino le singole comparse sono inserite in maniera azzeccata e la fotografia di Tani Canevari è un buon valore aggiunto. Molto più di Frassica e Rubini, rispettivamente un emigrato arruffone e il padre pugliese emigrato a Roma di Sandro, alle prese con piccoli ruoli da esuli, alimentari, meramente ricalcati sulle rispettivi origini regionali e dialettali e sugli elementi di massima riconoscibilità delle loro personalità pubbliche, che finiscono per fagocitare i personaggi (fatta eccezione, va detto, per il gustosissimo accostamento tra Frassica e Ionesco).

Info
Il trailer di Non è un paese per giovani su Youtube.
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