Degli innominabili figli. A dieci anni dalla morte di Alberto Grifi
A dieci anni dalla scomparsa di Alberto Grifi, padre di tutti i diseredati del cinema italiano (e non solo), pubblichiamo un contributo di Raffaele Meale apparso all’interno del volume collettaneo “Alberto Grifi. Oltre le regole del cinema”, curato nel 2007 da Manuela Tempesta per Quaderni del Cinema Sud. Un modo per tornare a ragionare su Grifi, sul suo lascito artistico e politico, sulle discrasie del sistema e le sistematizzazioni semplicistiche. Per vivere una volta di più quella libertà urlata, proclamata, eternamente rivendicata.
Quanti verranno dopo di me
cantando bene come io canto, nessuno meglio;
Dicendo il cuore della propria verità
come io insegnai loro a dire;
Frutto del mio seme,
miei innominabili figli.
Sappiate dunque che vi ho amato da prima del tempo,
Voi che chiaro parlate, nudi al sole, senza pastoie.
Ezra Pound
Nell’apporre, come incipit di questo traghettamento post-mortem dell’arte e dell’ingegno di Alberto Grifi, il passo di Ezra Pound che potete leggere qui sopra, crediamo di fare cosa gradita in primo luogo proprio ad Alberto; quanti sono gli “innominabili figli” che il suo cinema ha prodotto, nel corso dei decenni?
Molti più di quanto sia probabilmente possibile immaginare. Nell’annus horribilis del cinema italiano che ha visto aggiungersi lutto al lutto, dalla scomparsa di Gillo Pontecorvo a quella di Michelangelo Antonioni, passando per Luigi Comencini, Gianni Toti e Danièle Huillet (ci permettiamo di considerare il suo lavoro e quello di Jean-Marie Straub come italiano, certi che sia possibile comprendere con semplicità le motivazioni di tale scelta), la morte di Alberto Grifi rappresenta, a suo modo, la perdita di un’ulteriore, piccolo e splendente tassello di libertà.
Potrebbe risultare a dir poco irritante soffermarsi a ragionare su quanto poco clamore mediatico abbiano smosso le dipartite di Grifi, Toti e Huillet, ma sarebbe anche ingenuo, per non dire sciocco, mostrarsi stupiti di ciò: il carrozzone dello spettacolo li aveva persi di vista decenni fa, senza rimpiangerli.
Ma se abbiamo accettato di gettarci in un folle – e speriamo non inutile – riassunto dell’esperienza cinematografica di Grifi, è stato (almeno in gran parte) per andare contro uno sgradevole vezzo critico che pretende di far assurgere Alberto al ruolo di emblematica figura “vittima dei tempi”: l’idea che i grandi sperimentatori di una volta siano stati sconfitti, loro malgrado, dall’incedere tonitruante del contemporaneo nasconde al suo interno un vago sentore di disfattismo, e di accettazione della sconfitta che riteniamo l’arma più impropria da usare per scardinare il cinema di Alberto Grifi. Ci verrà obiettato, ne siamo certi, che a far pendere l’ago della bilancia dalla parte del punto di vista accennato poc’anzi non è altro che la stessa carriera del regista, nelle cui pieghe è possibile evidenziare un netto distacco tra la prolificità degli anni ’60 e ’70 e la solitudine patita dalle opere partorite nei venti anni successivi; tutto vero, nessuno ha intenzione di negare un dato di fatto così lampante. Ma equivarrebbe a commettere un gravissimo errore pensare di poter interpretare la poetica di Grifi solo affidandosi alle opere “finite”, “definitive”, senza accorgersi così di lasciare volutamente da parte un intero universo sommerso di idee, istanze, ipotesi, pensieri.
Prima ancora di essere un regista, Alberto Grifi (come moti altri autori della sua generazione) era un uomo che pensava il cinema, lo ragionava, lo eleggeva a oggetto di infinita speculazione, in un amplesso fra teoria e pratica che è, questo sì, una perfetta immagine “del suo tempo”.
Ci rifiutiamo dunque, di considerare gli ultimi anni di vita di Alberto come la classica china discendente di un regista che ha già raggiunto lo zenith della sua carriera e non può far altro che arrancare dietro la memoria del proprio passato; per questo il nostro sarà un percorso volutamente sbrindellato, in cui la cronologia verrà sovvertita di continuo. Perché, a scorrere in rassegna le sue opere, ci appare sempre più chiaro di non trovarci di fronte a un percorso lineare, ma ne avvertiamo altresì il fremito schizoide, sottilmente anarchico, fieramente oltranzista, il lampo d’ingegno che non vuole (e non può) assoggettarsi completamente al panorama che lo circonda.
Non vogliamo apparire come pedissequi esegeti della sua arte, ruolo che non ci compete e a dirla tutta non ci attrae minimamente, ma desidereremmo riuscire a rendere sulla carta, sic et simpliciter, il viaggio cinematografico compiuto da Alberto. L’interpretazione di questo viaggio, con tutte le possibili contraddizioni che gli possono essere riconosciute, è, ora che le parole spese nei suoi confronti non possono che evidenziarsi nel loro ruolo retrospettivo, l’unico sforzo che vi chiediamo. Uno sforzo, a nostro modo di vedere, dovuto.
Tralasceremo in questa sede resoconti più o meno accorati sulle disgrazie mediche che hanno accompagnato Grifi negli ultimi anni, così come le traversie generali con le quali è stato costretto a scontrarsi, dato che mal si sposerebbero con un resoconto critico e che, soprattutto, non fotograferebbero con precisione la vitalità di un uomo che continuava a interpretare le sue opere come oggetti vivi, perennemente adatti a una riscrittura, preposti a modifiche continue, splendidamente imperfetti e, a causa di tale incompiutezza, destinati a rapportarsi in maniera stretta alla contemporaneità, ai mutamenti in atto. Nel dicembre del 2004 ci ritrovammo in prima persona impegnati sul set di quello che doveva diventare, nei progetti di Alberto, il braccio estendibile di Dinni e la Normalina, ovvero la videopolizia psichiatrica contro i sedicenti nuclei di follìa militante, creatura eccessiva, schizofrenica, genialoide e al contempo esagerata, dove l’anima più puramente ludica di Grifi fa capolino pur non dimenticando l’intento provocatorio alle spalle; nel 1978 che altrove è ricordato soprattutto per la sfuriata punk nata da appena due anni – ambiente, quello di creste e borchie, frequentato con una certa assiduità da Grifi, anche in anni di pieno riflusso – e che da noi si appresta a diventare punto di non ritorno del movimento politico sorto poco meno di un decennio prima, è la polizia a sfruttare le possibilità del video, l’arma che più di tutte fece di Grifi il cantore di una rivolta utopica quanto priva di mediazioni. Questo paradosso dal forte sapore autoironico non si sposa però alla perfezione con il resto del tessuto narrativo, facendo di Dinni e la Normalina un’opera straordinariamente “altra” rispetto al panorama nel quale si inserì. Alieno alla prassi sarebbe stato anche il contenuto delle nuove riprese, se fossero state portate a termine: file di persone costrette a rendere pubbliche le loro feci per dimostrare di essere state “normalizzate”, barboni post-atomici a frugare nell’immondizia proprio sotto lo sguardo della cupola della Basilica di San Pietro. La folle satira politica di Dinni, trasportata nel 2004, assume le forme di un ghigno, e il cinema di Alberto continua a mostrarsi al di fuori da qualsiasi allineamento.
Se c’è un’opera che troviamo impossibile da ritoccare, da rimodernare, da aggiornare è invece Michele alla ricerca della felicità, insieme a Dinni e la Normalina sovvenzionata dalla RAI e poi lasciata ignominiosamente lasciata marcire negli archivi della televisione di Stato perché inaccettabile, oggetto da censurare, da tenere nascosto agli occhi dei profani: troviamo in Michele, forse più che in molte delle altre opere di Alberto, una perfezione assoluta, un equilibrio cosciente e profondo. Forse perché l’autobiografismo che è parte comunque costante della sua opera trova qui la sua sublimazione definitiva, o forse perché la scelta di una spoliazione totale dell’opera, scarnificazione ultima, assunzione dell’essenziale come unico elemento estetico possibile (e in questo, come potete arguire da soli, in netto contrasto con la debordante affabulazione in odore di mockumentary di Dinni e la Normalina), rende più difficile immaginarne una riscrittura, pur parziale. Quello stesso senso di ultimazione che rilasciano anche i due film maggiormente celebrati del cineasta romano: La verifica incerta e Anna (titolo che nasconde una doppia versione; esiste un’altra Anna, rimasta in disparte, nascosta agli sguardi dei più, un’Anna di cui nessuno parla, che nessuno può vedere – come il perduto Cristo ’63, che segnava l’esordio di Alberto; ora che la sua prima creatura non c’è più, e che alcune rimarranno per sempre in fase di lavorazione, riusciamo finalmente a immaginare la carriera di Grifi come una lunga retta senza inizio né fine) sono veri e propri monoliti del cinema sotterraneo italiano, oggetti talmente “fuori misura” da obbligare anche la critica meno attenta alle derive del microcosmo underground ad approcciarvisi, nel tentativo di trovare il bandolo della matassa di un perché cinematografico di cui non saranno probabilmente mai in grado di perceprire il reale senso.
Non ci soffermeremo particolarmente su questi due film, perché in gran parte saranno sviscerati da altri occhi, e da altre penne: ci permettiamo però di sottolineare come proprio nel lucido scherzo dada de La verifica incerta e nel fluviale fermo immagine sull’esistenza nei primi anni Settanta di Anna sia possibile rintracciare i germi di un cinema che esploderà di lì ad alcuni decenni; i famosi figli e figliocci di Grifi cui facevamo cenno al principio della disanima vengono in gran parte dalla visione sconvolgente (nel senso di alterazione nell’ordine prestabilito) dei due film cofirmati con Gianfranco Baruchello e Massimo Sarchielli. Ma non solo, si tratta di opere capitali anche e soprattutto per quello che rappresentano: il flusso di immagini de La verifica incerta (barbarico ed euforico smembramento della stessa industria cinematografica, mandata letteralmente al macello attraverso l’atto del montaggio: non a caso Alberto stesso affermava “Mentre voi avevate il settimo cavalleggeri, il napalm, e le bombe di Hiroshima e Nagasaki, noi avevamo appena una vecchia moviola in un sottoscala per farvi a pezzi…”) preconizza, al di là di ogni possibile dubbio, l’approccio visivo degli ultimi venti anni – in primis il furioso atto di teppismo mediatico che è Blob, il programma di RaiTre ideato tra gli altri da Enrico Ghezzi –, così come Anna, opera unica e fondamentale da un punto di vista strettamente produttivo (primo lungometraggio in video girato in Italia), estetico (quattro ore impossibili da identificare in un genere specifico, lontane da qualsiasi recinzione), mediatico (fu l’unica opera della stagione controculturale del nostro cinema a ottenere una visibilità notevole, sia grazie alle proiezioni ininterrotte al Filmstudio di Roma, sia grazie alla partecipazione ai festival di Berlino e Venezia del 1975 e a quello di Cannes del 1976).
È pertanto comprensibile che la statura autoriale di Grifi sia tuttora letta, da buona parte della critica, a partire da Anna: peccato, perché in realtà siamo convinti che sia proprio il resoconto della sedicenne e della troupe che sta girando su/con lei a rappresentare un’anomalia rispetto alla prassi cinematografica del suo creatore.
Per comprendere in pieno il senso di quanto stiamo affermando è necessario spostare l’attenzione su un altro nucleo fondante della teorizzazione cinematografica di Alberto Grifi: il rapporto con la realtà. Già, la realtà: ciò che sorprende con forza avvicinandosi la prima volta al cinema di Grifi è la sua anomala e originale interpretazione del reale. Anche quando ciò che si palesa davanti agli occhi degli spettatori sembra aver raggiunto il grado zero del cinéma verité, come nel caso della scena dei pidocchi in Anna, è sempre presente l’impressione di avere a che fare con uno studio delle infinite possibilità del reale piuttosto che con una “semplice” messa in scena del vero. Questo ci esorta ad avvicinarci con più attenzione a un’altra delle opere mai finite, perennemente in fieri, creatura su cui Alberto amava esercitare il suo potere demiurgico.
Auschwitz/L’occhio è per così dire l’evoluzione biologica di una lagrima è, e sarebbe il caso di convincersene, con ogni probabilità l’opera di Grifi in cui vengono a scontrarsi con più forza e consapevolezza l’elemento tecnico (Alberto era, come anche Piero Bargellini dopotutto, uno sperimentatore della tecnica; aveva una conoscenza sbalorditiva dei mezzi tecnici che facevano parte del mondo cinematografico, e spesso e volentieri si costruiva da solo ciò di cui necessitava per le riprese) e quello puramente teorico; vi sono altri esempi possibili sotto questo punto di vista – lo stupefacente Riuscirà Giordano Falzoni nel ruolo di principe azzurro munito di giochi ottici rotanti a restituire la voglia di vivere alla bella addormentata? (conosciuto anche con i titoli Il grande freddo e Le avventure di Giordano Falzoni), tanto per fare un nome, straordinario gioco visivo nel quale il pittore Giordano Falzoni è l’esca usata per fare uscire allo scoperto la dittatura della fabula e la videocamera l’arma per combattere tale dittatura, l’unica forse possibile da contrastare con la mera tecnica cinematografica, ma anche l’esaltante e pressoché invisibile Orgonauti, evviva! – ma nessuno riesce a centrare il bersaglio quanto Auschwitz: è nel titolo stesso che è insito il senso del percorso scelto in questa occasione da Grifi per raggiungere il suo obbiettivo.
Qui il discorso sulla tecnica cinematografica (elemento fondante, come abbiamo avuto modo di vedere, della sua poetica, e sul quale si struttureranno negli anni anche altri film, compreso il recente A proposito degli effetti speciali) non rappresenta più il centro del quadro, ma svolge in particolar modo la funzione del McGuffin hitchcockiano, escamotage ideato per analizzare nel concreto il cinema nella sua funzione bivalente di testamento della realtà e imitazione della realtà.
La prima è rappresentata da Auschwitz, e quale cosa più alta e imponente del campo di concentramento per antonomasia potrebbe ergersi a testimone del vero? L’imitazione della realtà è invece nascosta nei tentativi reiterati di scoppiare in lacrime che fa Monica Vitti sul set di Deserto rosso di Michelangelo Antonioni, nuovo irridente palesamento della macchina/cinema e dell’angosciante meccanizzazione che nasconde come segreto supremo.
Quel segreto che Grifi ha passato l’intera carriera a rendere pubblico, a sbugiardare, pur affrancandosi dalla mera ripresa del vero (certo, anche in questo caso ci sono le dovute eccezioni fatte apposta per smentire quanto elucubrato finora: Lia, Festival del proletariato giovanile al Parco Lambro, e via discorrendo), perché il cinema doveva diventare l’arma da utilizzare per soverchiare l’ordine costituito, in un’azione rivoluzionaria consapevole ma sempre pronta a perdersi nel flusso, nell’azione fine a sé stessa, nel delirio – l’immancabile incontro con Aldo Braibanti e il suo teatro sperimentale, immortalato in Transfer per camera verso Virulentia, ma anche l’amicizia e la frequentazione con Alvin Curran e gli altri membri del M.E.V., Musica Elettronica Viva. È qui che si deve cogliere il passo che lo portò, forse unico tra i membri storici dell’avanguardia cinematografica italiana, a seguire le orme lasciate dai movimenti del sessantotto per approdare al settantasette e poi continuare a frequentare l’ambiente dei centri sociali, di chi, strictu sensu, agiva sempre e cocciutamente dal basso.
Forse proprio per questo sarebbe interessante, con ogni probabilità, studiare da vicino i documentari industriali che occuparono buona parte della sua esistenza nel corso degli anni ’80: il periodo del riflusso, il crollo del sogno, la morte del movimento, possono questi elementi essere in qualche modo racchiusi nei lavori portati avanti, per pura necessità primaria, da Grifi? O ne rappresentano, anche solo con la loro esistenza, il senso più intimo?
Ciò che è certo è l’impossibilità di interpretare il cinema di Grifi senza cercare di comprendere il modo in cui lui partecipava alla vita sociale; c’è sempre una sorta di sguardo superiore, per quanto emotivamente partecipe, nei resoconti storici che ci ha lasciato. Come se la cinepresa e poi, sempre più spesso, la videocamera fossero gli unici punti di contatto possibili tra lui e il mondo esterno, e li sfruttasse per la bisogna senza alcuna preoccupazione. I videoteppisti di tutta Italia, spesso provenienti proprio dai centri sociali, possono essere quasi considerati una protuberanza di Alberto, un’estensione del suo stesso corpo; non perché agissero, e agiscano, esattamente come avrebbe agito lui, ma proprio per l’esatto contrario. Se c’è un insegnamento che Alberto Grifi ha lasciato alle nuove generazioni e a tutti coloro che hanno avuto il privilegio di conoscerlo e frequentarlo con una certa assiduità (e ci sentiamo onorati nel poterci inserire in questa lista di persone), è proprio quello di agire senza seguire i dettami che sono stati loro impartiti.
In questa lezione di libertà c’è, forte, il sentimento cinematografico di Grifi, la sua unicità rispetto al panorama che lo circondava. Non c’è infatti alcuna intenzione sensazionalistica nel descrivere l’opera di Grifi come la più importante testimonianza della controcultura cinematografica nostrana: nessuno, all’interno della ristretta cerchia dell’underground italiano dell’epoca, ha saputo scalfire con così tanta forza la corazza del cinema istituzionale, sporgendosi ripetutamente al di là del senso comune e osando bombardare un apparato granitico – all’epoca, soprattutto – con una serie di provocazioni atte a destabilizzare, spaventare quasi il possibile uditorio di riferimento. In quest’ottica la sua esperienza autoriale fotografa un’urgenza estetica e narrativa – con l’estetica che è, deve essere, narrativa di per sé – che manca anche alle migliori menti a lui coeve: Piero Bargellini, per esempio, ragionava più da vicino sulla macchina/cinema in quanto tale, sulla sua peculiarità tecnica, lasciando da parte la componente sociale e politica. Per non parlare di Tonino De Bernardi, interessato principalmente a una messa in scena del privato di fronte agli occhi stupratori del pubblico. Tutti elementi, questi, che Grifi ha sfiorato a più riprese nel corso della sua carriera, senza mai farli proprio, probabilmente incapace di riconoscervisi al 100%.
E nella succitata lezione di libertà lasciata ai posteri acquista definitivamente senso l’idea che la sua opera debba restare, per forza di cose, incompiuta; perché la finitezza è il dono regalato a chi trova la sua dimora definitiva, la sua pace, chi si normalizza. E al raggiungimento di questo privilegio Alberto Grifi non ha mai ambito; ben vengano dunque gli arti mancanti di Dinni e la Normalina, In viaggio con Patrizia (su Patrizia Vincinelli, che fu sua compagna di vita per un periodo), Auschwitz/L’occhio è per così dire l’evoluzione biologica di una lagrima, così come devono essere accettate con gioia le idee mai portate a termine, quelle rimaste esclusivamente sulla carta, per non parlare degli esperimenti tecnici – al di là dell’invenzione del Vidigrafo, come non citare lo studio per la Macchina “Lavanastri” che stava portando avanti da anni? –, perché è in “ciò che non può avere fine” che forse potrete trovare veramente il volto di Alberto Grifi, e in null’altro.
Sempre consci, fortunatamente, di essere stati da lui amati “da prima del tempo”.