Twin Peaks – Ep. 6

Twin Peaks – Ep. 6

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Il sesto episodio di Twin Peaks marca il confine ‘affettivo’ del cinema di David Lynch, con l’apparizione di alcuni attori-feticcio del regista, da Laura Dern a Harry Dean Stanton, fino a Balthazar Getty. Prosegue intanto il viaggio umano nel corpo-non-corpo di Dougie Jones/Dale Cooper, e nell’umanità-non-umana che lo circonda.

Don’t Die!

La polizia riporta Dougie a casa dopo averlo trovato a fissare una statua davanti al posto di lavoro. Sua moglie riceve una foto che ritrae Dougie con la prostituta Jade e, dopo aver accusato l’uomo di tradimento, prende accordi con i ricattatori per risolvere la questione economica. Cooper/Dougie ha un’altra visione di Mike nella Loggia Nera che gli dice di svegliarsi, e lo esorta a “non morire!”. [sinossi]

Una questione privata. Albert Rosenfield entra in un locale in una serata piovosa e, dopo essersi aggirato per la sala, vede la nuca di una donna. “Diane”, dice. La donna si gira e risponde al saluto: “Hello, Albert”. È Diane, la fantomatica e fantasmatica figura femminile per cui registrava tutte le sue impressioni su Twin Peaks il giovane Dale Cooper; nel donarle carne e sangue David Lynch la affida alle cure di Laura Dern. L’ennesimo “ritorno a casa” della nuova stagione di Twin Peaks, l’ennesimo ritorno a sé di Lynch; una riappropriazione di spazio che è rivendicazione non solo di una sintassi stilistica – ed etica, e poetica – ma anche di un’area protetta, una famiglia di attori e collaboratori tecnici che rappresentano bene, forse meglio di tutto il resto, l’indole di Lynch. Pezzo dopo pezzo viene demolita l’immagine fallace che si è voluta costruire nel corso del tempo, quella di un artista fuori dagli schemi, imprigionato nel suo mondo e nelle sue visioni e distante dunque non solo dal reale, ma anche dall’umano. Basta il volto dolente di Diane/Laura Dern, quello sguardo dimesso che lancia all’amico di un tempo, per scardinare questa idea preconcetta e restituire la verità, o ciò che più di tutto si avvicina alla verità: Lynch è un regista romantico, sentimentale, un uomo che ama le atmosfere soffuse del dream-pop, non resiste al fascino impetuoso e fragilissimo degli amori adolescenziali, non sa fare a meno di trovare il punto empatico che lo leghi anche ai suoi personaggi più distrutti(vi). In un mondo dell’immagine che persegue spesso vie astratte, alla ricerca del senso, Lynch preferisce rispondere immergendosi fino al collo nel magma dell’umano, negli anfratti più nascosti e nei segreti più incresciosi. Per rintracciare purezze dimenticate, o forse solo difficili da scorgere.
Il volto di Laura Dern è certo quello di Diane, anche se lo spettatore lo scopre solo ora, più di venticinque anni dopo il primo “incontro”; ma è anche il volto della Sandy Williams di Velluto blu, di Lula in Cuore selvaggio, di Nikki Grace/Sue Blue in INLAND EMPIRE, perfino della “donna dal cuore spezzato” in Industrial Symphony No. 1: The Dream of the Brokenhearted, l’esperimento tra teatro canzone e video che Lynch diresse nel 1989.

Il sesto episodio di Twin Peaks, che trova il punto di connessione tra la prassi del visionario e la descrizione emotiva e psicologica dei personaggi in scena, ribadisce una volta di più l’idea di ritorno che fino a questo momento ha dominato la serie: oltre alla Dern, appare infatti il novantenne Harry Dean Stanton, che si riappropria delle vesti di Carl Rodd, il proprietario del Fat Trout, il posteggio per roulotte già visto in Fuoco cammina con me e nel quale trovò la morte Theresa Banks per mano di Leland Palmer/BOB [1]. Ma c’è anche spazio per Balthazar Getty, qui alle prese con il criminale prestigiatore Red, che fu il doppelganger di Bill Pullman in Strade perdute
Raggiunto il primo terzo della serie, che si snoderà come è risaputo lungo 18 episodi, Twin Peaks appare sempre più dominato da una tensione continua, (auto)distruttiva, tra la nostalgia del tempo-che-fu, l’insorgere di forze ataviche ma eternamente accese nel cuore di giovani e meno giovani, tra la conservazione e la distruzione. Una distruzione che prevede sempre una rinascita uguale a sé. Circolo chiuso, vizioso e viziato, Nastro di Moebius che non ha fine, avvolto su sé. Anche le vite dei personaggi di Twin Peaks sembrano destinate all’eterna reiterazione del proprio schema, anche quando quello schema viene eliminato, o comunque ridefinito. Nella sua dimensione extra-reale, Dale Cooper è ancora intrappolato in un corpo che non è il suo pur essendo suo per diritto e per forma; barlumi di coscienze chissà dove recuperati gli consentono di tracciare segni e simboli in grado di comunicare con un esterno che non intravvede in lui eccessivi cambiamenti, e in un segmento della puntata che alcuni con brillante intuizione hanno definito “à la Spielberg” Dougie Jones riesce a trovare un dialogo impossibile con suo figlio [2], nella sua cameretta.
La reiterazione infinita di un medesimo schema può però essere sconvolta da eventi traumatici. Così la passeggiata quotidiana in città di Carl Rodd viene prima addolcita dal gioco tra una madre e il suo figlioletto, che le scappa avanti di qualche metro per farsi poi docilmente raggiungere e acciuffare, e quindi squarciata dalla morte del bimbo, travolto sulle strisce pedonali dalla corsa impazzita e furibonda di Richard Horne, il villain per eccellenza degli ultimi due episodi.

In un mondo dominato dagli squilibri e da esplosioni di violenza illogiche ancorché strutturate all’interno di un sistema che pretende di leggervi una logica, l’unica necessità è quella di restare vivi. “Don’t Die!”, implora l’uomo senza un braccio dal palco della Loggia Nera – sempre più simile a quel proscenio in cui la Lady in the Radiator cantava la sua canzone, novella Marilyn Monroe dal volto tumorale, in Eraserhead [3] – rivolgendosi a Dougie; perché la morte arriva senza lasciare vie di fuga, come dimostra la già citata sequenza dell’investimento del bambino e ancor più la strepitosa irruzione di un nano armato di punteruolo negli uffici in cui lavora Lorraine, destinata a una fine brutale quasi quanto un’inquadratura del tutto decentrata, che costringe lo spettatore a spostare lo sguardo verso sinistra (là dove si trova Lorraine) per poi scoprire l’orrore che entra da destra.
La morte è l’ovvia dominante di Twin Peaks (il sesto episodio è uno dei pochi, finora, a non essere dedicato a nessun attore o tecnico scomparso), e ha ancora il furore belluino di BOB. Il furore del male. Ma si deve restare vivi, al di là di tutto. Si deve resistere al di là di tutto. E il maschile, altra dominante ferale della serie, può forse trovare requie solo attraverso il femminile, come dimostrano la moglie di Dougie Janey-E, la gentile insegnante di Twin Peaks Miriam Sullivan – che lascia mance che non può permettersi – e, ovviamente, Diane. Una questione privata.

NOTE
1. Con Lynch, oltre che in Fuoco cammina con me, Harry Dean Stanton ha lavorato sui set di Cuore selvaggio, Una storia vera, e INLAND EMPIRE.
2. Il rapporto tra Dougie/Dale e Sonny Jim appare uno dei punti cruciali di questa serie; esiste un feeling inespresso a parole – dopotutto la catatonia di Dougie non permette grandi sforzi dialettici – che si rinnova di episodio in episodio, a partire dal pollice alzato in segno di approvazione dal figlio verso il padre, fino alla sequenza sopracitata, e alle lacrime dell’uomo nel vedere il pargolo seduto in macchina.
3. Più la serie si inoltra nella sua narrazione, più appaiono evidenti i punti di contatto con il primo lungometraggio diretto da Lynch oltre quaranta anni fa. Anche la figura di Dougie Jones, abbarbicato ai suoi faldoni nell’ascensore, riporta alla mente quella di Henry Spencer, il protagonista di Eraserhead interpretato da Jack Nance, altro fedele sodale di Lynch (anche in Twin Peaks nel ruolo di Pete Martell) fino alla morte, avvenuta nel 1996 in circostanze mai completamente chiarite dalle indagini.
Info
La sigla della nuova serie di Twin Peaks.
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