Twin Peaks – Ep. 9

Twin Peaks – Ep. 9

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Twin Peaks torna dopo la pausa per i festeggiamenti del 4 luglio e dopo l’episodio numero otto, che ha sconvolto la prassi seriale proponendo una discesa negli abissi della visione, fino all’origine dello sguardo, e del male. Il nono episodio rientra nei ranghi narrativi, ramificando la struttura ma iniziando a mettere in fila gli elementi. Lynch e Frost si divertono a giocare con lo spettatore, e con il mezzo espressivo che stanno utilizzando…

“What happens in season two?”

Qualcosa di più viene alla luce riguardo Dougie Jones dopo l’attentato alla sua vita. Nel frattempo Gordon Cole scopre le connessioni che legano Cooper al caso ‘Blue Rose’ e al maggiore Garland Briggs. [sinossi]

La bomba è esplosa, ed è rimasta a irradiare materiale cancerogeno nell’aria per due settimane, durante le quali i cittadini statunitensi hanno avuto modo di festeggiare in maniera adeguata il 4 luglio, senza che Twin Peaks disturbasse in alcun modo la loro attenzione. Il pulviscolo atomico si muove ancora in piccoli turbini, e non si poserà almeno fino al diciottesimo episodio – ma anche oltre, se si considera come l’episodio ottavo non abbia fatto altro che sistematizzare un concetto visivo e filosofico che Lynch sussume fin dagli albori della sua esperienza autoriale. Come ogni overture che si rispetti, all’ottava parte andata in onda sul finire di giugno ha fatto seguito una nona che, muovendosi in direzione contraria, ha provveduto a tessere l’ordito della trama; era già stato dopotutto così dopo la deflagrazione concentrata nella prima parte del terzo episodio. Dopo aver avvisato il pubblico che è necessario “drink full and descend”, Lynch e Frost provvedono a ricordargli che esiste un percorso narrativo, tutt’altro che rabberciato o secondario, e che da lì è in ogni caso necessario passare per raggiungere il finale, con tutto ciò che questo potrà comportare.
Mai come in questa nona ora, con la serie che scavalca ufficialmente la metà e inizia a far intravvedere il traguardo, per quanto ancora lontano esso possa apparire all’orizzonte, si è avvertita con forza l’urgenza narrativa che si agita sotto la coperta di straordinaria potenza espressiva ed estetica che per prima, in maniera logica e inevitabile, raggiunge gli occhi – e i cuori – del pubblico televisivo. Se ci si è lanciati in meritati peana per il coraggio e la sfrontatezza mostrati dai due autori nei confronti di una materia a suo modo fortemente standardizzata come quella del piccolo schermo, l’impressione è che si tenda a lasciare in secondo piano il comparto dedicato alla scrittura, con troppa velocità minimizzato o relegato in un cantuccio.

Proprio il nono episodio – o parte, se lo si considera un insieme inattaccabile e granitico, punto che sarebbe da approfondire con maggiore attenzione – permette di cogliere con nettezza l’azione di continuo e pervicace depistaggio condotta da Mark Frost e David Lynch. Così come esistono più livelli di realtà sui quali è necessario ragionare per poterli intessere l’uno nell’altro (la realtà tangibile, quella in cui il maggiore Garland Briggs è un cadavere privato della testa rinchiuso nella cella dell’obitorio di Buckhorn; la realtà che si esclude volontariamente dal materico, quella in cui la testa del maggiore fluttua nell’aere, vista da Dale Cooper, e pronuncia “blue rose”; la realtà che pretende di entrare nel mondo materico e di dominarlo, e che ha martorizzato il corpo di Briggs per colpa della sventatezza di Ruth Davenport e William Hastings), esistono e coesistono allo stesso modo livelli differenti di scrittura, e di narrazione. C’è una trama principale, riducibile in fin dei conti alla lotta tra i due Cooper, l’uno effetto della Loggia Nera, l’altro della Loggia Bianca. C’è poi un primo livello di sotto-trama, o anche forse di über-trama, nella quale ci si muove tra codici lasciati per i posteri nascosti nello schienale di una poltrona, esseri che vivono il limbo che distanzia gli universi paralleli, doppelganger e piedi che si ribellano ai propri padroni naturali. Infine c’è il terzo livello, che alcuni in maniera un po’ improvvida scambiano per nonsense, e che è per Lynch il racconto del banale, del quotidiano, di quell’ovvio che è stolida accettazione di un normale che è invece solo apparente, e sempre destinato a essere sconvolto. In questo terzo livello di scrittura coabitano chiacchiere sul lavoro troppo costoso dal carrozziere, o sulla nuova poltrona da acquistare in casa Brennan/Moran. Sono proprio questi dettagli, per alcuni superflui per altri addirittura faticosi da sostenere – gli aspetti comici o surreali di Twin Peaks hanno fatto spesso torcere il naso a una determinata tipologia di spettatori, amanti dell’intreccio mystery più che delle rifrazioni lynchiane –, a spodestare il concetto di norma, e a ridefinire i campi della narrazione.
I fili che dovrebbero mettere insieme le varie parti di Twin Peaks, spingendo Gordon Cole a “scoprire” l’esistenza di Cooper in Dougie Jones (tanto per fare un esempio) sono volutamente troppo corti, o non coincidenti. Ogni singolo frammento di questa lunga opera che si dipana all’incirca intorno alle diciotto ore vive in realtà di vita propria, e si raccorda con il resto per osmotica necessità alla coesione, più che per forzata necessità narrativa.

Perché il vero discorso ruota sempre al concetto più radicato nel cuore di Lynch: la propensione dell’umano a essere desiderante, e la sua necessità agli affetti, al senso di protezione, unico argine allo sprofondare in sé, bradisismo ineluttabile che trascina fino alla morte. Quella morte che non esiste per il doppelganger di Cooper, ma che arriva per esempio per Johnny Horne, in una sequenza brevissima e devastante, scaturigine del passato che arriva a una conclusione sanguinosa nella propria casa. Si muovono i pezzi su una scacchiera desueta, antica come l’umanità e come essa debole. È il desiderio ad aver mosso Hastings, ad averlo portato ad accedere a livelli che non dovrebbero appartenergli, e che l’hanno distrutto: ora in carcere per un omicidio che ovviamente non ha mai commesso potrà solo piangere la perdita dell’amata Ruth, e quel viaggio alle Bahamas che non arriverà mai.
La cupa coltre di orrori che sovrasta il mondo da Buenos Aires a Las Vegas, dal South Dakota a Twin Peaks aveva un freno, venticinque anni fa, nella postura posata e saggia di Garland Briggs, maggiore dell’aeronautica con un figlio scapestrato, Bobby. Ora Bobby ha i capelli imbiancati, non è più scapestrato e lavora per lo sceriffo, formando una sorta di triade con lui e con Hawk: gli occhi gli brillavano mentre osservava la foto di una Laura Palmer mai invecchiata perché morta, scarnificata da BOB, e gli brillano di nuovo mentre sua madre gli racconta come Garland Briggs fosse orgoglioso del figlio, e sapesse che avrebbe raggiunto risultati positivi nel corso della sua vita. C’è ancora speranza nel mondo e in Twin Peaks? C’è speranza ora che si sa che Diane è in stretto contatto telefonico con il Cooper malvagio? O è forse tutto finito, oramai, e si ricicla in un gioco al massacro al quale si può solo chiedere di sopravvivere, una volta di più? Garland Briggs ha lasciato un messaggio in codice, per Bobby, per lo sceriffo Truman e per Hawk: 253 passi da compiere a partire dal “Jack Rabbit Palace”. 2 5 3, come l’orario in cui il buon Dale ha lasciato la Loggia Nera nel terzo episodio, passando per una presa elettrica; la stessa presa che Dougie Jones fissa sul muro davanti a sé, nell’ufficio di polizia in cui aspetta di poter spiegare – sempre che ne sia capace – come ha fatto a sventare l’attentato a se stesso e alla sua consorte.

Giochi? Forse. David Lynch sa benissimo come maneggiare con cura l’immaginario e la curiosità degli spettatori (chi ancora non è edotto, si rechi a questo indirizzo e guardi). Sa come lanciare l’amo, e sa come attendere sulla riva, le stesse qualità che il maggiore Briggs, sul finire della seconda stagione di Twin Peaks spiegava a Cooper andando a pesca, un attimo prima di svanire nel nulla, nel buio, tra i gufi che non sono mai, ed è il caso di rammentarlo, quello che sembrano. “What happens in season two?”, chiede uno spazientito Albert ai poliziotti di Buckhorn che stanno cercando, con grande fatica, di tirare le fila del caso di bizzarro omicidio che si sono ritrovati loro malgrado tra le mani. Cosa succede nella seconda stagione?, è la domanda che in qualche modo si rilanciano gli uni con gli altri gli appassionati di questa come di tutte le serie televisive del mondo. E poi, cosa succederà? Cosa c’è oltre? Perché stiamo assistendo a questo? Qual è, in fondo a tutto, il senso?
Nonostante sia stato spesso accusato del contrario, da chi non ha mai avuto voglia (o forse capacità) di capire il suo cinema e la sua arte nel complesso, Lynch è un regista dominato da un’onestà specchiata. Totale. Non ha filtri nei confronti dello spettatore, condivide con lui tutto quel che sente affettivamente di dover condividere. Come si scriveva dianzi, i suoi personaggi hanno bisogno di essere amati, e forse lui con loro. Ma ha poca importanza. Resta il bisogno di essere amato di Bobby Briggs, la necessità fisica di conoscere l’affetto del padre, e la sua stima. Il mondo intorno però, nonostante questo – e nonostante la dolcezza nel gioco matrimoniale tra Lucy e Andy – è orribile, pieno di sangue e di sozzura. Chissà se quelle due ragazze tossicodipendenti al Roadhouse hanno a casa un genitore come il maggiore Briggs, o come Andy e Lucy; un genitore che sappia come lenire la terribile eruzione cutanea che sta rovinando una delle due, costretta a grattarsi in continuazione e con violenza. Il mondo è orribile, e la speranza non ha più testa. Solo un corpo freddo e flaccido in un obitorio di provincia. A Twin Peaks forse si intravvede la fine. Ma per ora è una lunga lunga notte nera. Senza stelle.

Info
La sigla della nuova serie di Twin Peaks.
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