Intervista a Bertrand Mandico
Tra le scoperte della Mostra di Venezia un ruolo di primo piano lo merita senza dubbio l’opera d’esordio di Bertrand Mandico, Les garçons sauvages, presentata alla Settimana Internazionale della Critica. Un’opera che mescola intuizioni letterarie e cinematografiche tra loro a volte in aperta antitesi, trovandovi all’interno una logica e una coesione inaspettata ed esaltante. Abbiamo incontrato il regista francese, per parlare del film e della sua visionaria idea di cinema.
La prima domanda è relativa alle tue fonti di ispirazione, sia letterarie che cinematografiche. Si può affermare che tu ti sia ispirato ai libri d’avventura di Jules Verne ma anche all’opera di William Burroughs, mentre dal punto di vista cinematografico si vedono “gocce” di Jean Vigo, di Jean Genet, ma anche le sperimentazioni di Kenneth Anger, e il cinema classico statunitense… Come si è articolato il tuo lavoro?
Bertrand Mandico: Sono molto felice di questa domanda. Ho sempre letto molto, e ho sempre visto molti film. Tutto quello che mi ha sedotto, tutto quello che mi ha nutrito, mi ha ispirato nel corso di questo lavoro, che è stata una vera e propria sfida. Non doveva essere il mio primo film, Les garçons sauvages, e c’erano altri progetti su cui stavo lavorando, ma poi ho iniziato a elaborare l’idea di un film d’avventura che rendesse omaggio ai libri di Jules Verne, come anche a I ragazzi selvaggi di William Burroughs, in un incrocio improbabile; Stevenson e Dottor Jekyll e Mr. Hyde per l’idea della metamorfosi. Una moltitudine di costellazioni e di ispirazioni letterarie, dalla cui creazione ho iniziato a elaborare una sceneggiatura. Per quanto riguarda il film non ho pensato troppo a ciò che amo, ma a quello che mi ispirava la storia, il luogo, il momento. Ho deciso di girare tutti gli effetti speciali “in diretta”, e di filmare in pellicola. Poi, mentre giravo il film, i miei grandi amori sono venuti fuori: Genet, Jean Cocteau, von Sternberg, Fog di John Carpenter. I nomi sarebbero molti, e non saprei neanche farli tutti. È vero, c’è un cinema che mi ha marchiato profondamente, ma volevo comunque fare un film che fosse in tutto e per tutto mio, quindi con il mio sguardo, le mie ossessioni. Anche se c’è ovviamente un cinema che mi ha cresciuto.
E com’è nata l’idea del film?
Bertrand Mandico: È nata come una sfida. Volevo provare a fare un film marittimo, con scene di tempesta, scene ambientate in una giungla con dei ragazzi. Scene difficili da filmare nell’ambito di un cinema d’autore che non è troppo fortunato, perché a basso budget. È il tipo di riprese che si può trovare nella grande produzione americana. Ma mi piaceva molto l’idea di riuscire a farcela. Quindi la sfida è stata di riuscire a portare sullo schermo il film che avevo in mente, che prevedeva anche di donare alle attrici dei ruoli insoliti, come quelli di un gruppo di ragazzi violenti e via discorrendo. Un grande ruolo in questo senso ha avuto il cinema giapponese, in particolar modo quello più sperimentale degli anni Sessanta…
Teshigahara…
Bertrand Mandico: Sì, Teshigahara, Wakamatsu, Onibaba di Kaneto Shindō, che è uno dei miei film preferiti, La donna di sabbia ma anche Elegia della lotta per via dei ragazzi in uniforme. E poi all’interno del cinema sperimentale giapponese c’è Terayama, che è sempre stato molto importante per me.
Il lavoro sul colore in effetti ricorda molto i film di Terayama
Bertrand Mandico: Sì, assolutamente. Ho fin da subito guardato al cinema giapponese, e ai suoi registi: le spiagge nere, i ragazzi in uniforme…
Hai avuto difficoltà a lavorare con le attrici, visto quanto erano complicati i loro ruoli?
Bertrand Mandico: No, ma è stato lungo e duro il percorso per trovarle. Per selezionare il gruppo abbiamo fatto molti provini, e complessi. Per prima cosa mostravo i miei precedenti lavori, per testare la reazione, perché solo chi si sentiva vicino a questo universo poteva continuare. Poi ho avuto conversazioni con le attrici sul tema del maschile e del femminile, e di come vivono il loro rapporto con l’uno e con l’altro. Infine, dopo questi colloqui, ho rivisto tutto insieme alla mia direttrice di casting, Kris Portier de Bellair, che è una delle migliori in Francia, ha lavorato con Michael Haneke e per esempio si è occupata della piccola Ponette nel film di Doillon. Dopo tutto questo processo abbiamo cominciato a fare delle scelte, e a lavorare con le attrici su dei testi che non sono presenti nel film; quindi è stata Elina Löwenson [storica collaboratrice del regista, e tra gli interpreti del film, n.d.r.] a parlare con loro di come si dovevano interpretare i personaggi, e a partire da lì abbiamo scremato e abbiamo costituito una banda che ci sembrava coerente, con delle proprie dinamiche. Non volevo però che la banda si formasse attorno a delle evidenze fisiche, come si fa spesso in questi casi: il magro, il grasso, l’alto ecc. Le attrici hanno quasi tutte lo stesso volto, ma hanno caratteri specifici e differenti tra loro. Una volta fatte tutte le scelte ho pensato che fossero perfette, e in effetti le adoro.
Cosa ci puoi dire invece della scelta di organizzare le riprese nell’isola di Réunion?
Bertrand Mandico: Si tratta di un’isola che conosco molto bene, ci sono stato più di una volta. Ho anche collaborato alla scrittura con una regista per un film che non si è mai girato ma che si svolgeva a La Réunion, sempre un film di ambientazione fantastica. Ho passato del tempo sull’isola per fare delle ricerche, e quindi quando ho pensato a un luogo dove ambientare Les garçons sauvages mi è subito venuta in mente l’isola, e gran parte delle riprese sono state effettuate lì. L’ultima parte invece l’abbiamo girata in uno studio di posa.
Hai scelto di girare in pellicola, in Super-16, un formato caratteristico degli anni Sessanta e Settanta…
Bertrand Mandico: Giro sempre su pellicola, anche se poi magari devo riversare su un altro supporto. Ma giro sempre in pellicola, perché è un supporto che mi si addice perfettamente, ed è anche una scelta di economia per le riprese, perché io detesto la post-produzione dell’immagine. Mi piace controllare tutto dal set, e con la pellicola posso vivere le riprese quasi come fosse una performance, come una trance. Sotto il lato tecnico poi è un supporto sensibile, erotico, e per me dunque è ovvio che debba girare in pellicola. Il Super-16 è economicamente più gestibile del 35 millimetri, e mi consentiva un’immagine meno netta, più granuloso.
In effetti il bianco e nero è molto granuloso, mentre i colori appaiono saturi…
Bertrand Mandico: Volevo che le parti a colori rompessero con quelle in bianco e nero, così ho girato l’intero film a colori, poi ho trasformato le immagini a colori in bianco e nero e infine ho conservato delle sequenze a colori, come delle diapositive a colori, alla maniera di Wakamatsu (che lo faceva per contenere i costi di produzione); a me invece servivano per inserire dei momenti a colori del tutto improvvisi, che arrivano così a contaminare la retina dopo che questa si è abituata alle immagini in bianco e nero. Ho davvero immaginato il film come un albero nero con dei frutti colorati, un albero velenoso.
Pensi di fare un ritorno in pellicola per il film?
Bertrand Mandico: Certo, mi piacerebbe molto. Non sono molti i film francesi girati in pellicola, anche se normalmente il CNC dà questa possibilità di ritorno in pellicola per il deposito delle produzioni nazionali. E dunque mi piacerebbe molto riportare il film anche in pellicola. Sono comunque felice della mia scelta, e non ho il minimo pentimento. Amo molto l’ibridazione tra le tecniche, quindi va bene aver girato in pellicola e avere ora il film in dcp. Ma ovviamente mi piacerebbe.
Ma per gli effetti speciali ti sei mai affidato al digitale?
Bertrand Mandico: No, ho utilizzato la retro-proiezione, che mi permetteva di proiettare in diretta durante le riprese. Ho un’amica, Seto Momoko, che è venuta con me anche qui, che è una regista di cinema sperimentale, formidabile, e mi ha dato una mano sotto questo aspetto. Quindi ho fatto gli effetti speciali “in diretta”, per poi utilizzare la sovrimpressione della pellicola, utilizzata dunque due o tre volte.
Come nel cinema muto…
Bertrand Mandico: Sì, come nel cinema muto o in molto cinema fantastico e sperimentale. Si crea un’atmosfera perturbante, sospesa, che io trovo magica.
Il sesso come elemento dominante è centrale nella narrazione. Qual è il tuo modo di mettere in scena questo aspetto della sessualità, questi personaggi alla ricerca di una propria forma?
Bertrand Mandico: Mi interessano le frontiere. Passare le frontiere verso le quali gli uomini fuggono. Un passo in più a destra, uno in più a sinistra. Cos’è l’uomo, cos’è la donna… Si tratta di una cosa che mi interessa molto. Volevo posizionare la mia camera sulla frontiera e farla attraversare ai miei personaggi, vederli giocare con questi ‘problemi’.
Cosa puoi dirci a proposito delle scelte musicali? È presente anche Nora Orlandi…
Bertrand Mandico: Amo moltissimo la musica dei film italiani, sono un vero e proprio fanatico dei b-movie italiani. La Orlandi è l’unica donna che conosco che componesse colonne sonore in quegli anni. Questo me l’ha fatta amare ancora di più. E il pezzo che ho inserito viene da Lo strano vizio della signora Wardh. Avrei voluto inserire molti pezzi di compositori italiani, ma non è stato possibile per via dei costi dei diritti d’autore, e ne ho potuto mettere solo uno. Quindi alla fine la colonna sonora è stata molto diversa da quella prevista all’inizio. Ma sono stato davvero contento di aver potuto inserire almeno un brano di Nora Orlandi.
A proposito dei riferimenti letterari, non abbiamo ancora avuto l’occasione di parlare del Macbeth, di cui si parla fin dall’inizio e poi nel finale c’è anche un monologo…
Bertrand Mandico: Il fantasma di Shakespeare è molto presente; nel film i personaggi interpretano un passaggio del Macbeth per questo personaggio, una strega dal sapere un po’ velenoso. È una strega anche Severine. Molti dei suoi monologhi e delle sue frasi sono citazioni di Shakespeare, non solo dal Macbeth. Ci sono passaggi che ho preso da molte piéce di Shakespeare. Anche molti aspetti del film possono avere come ispirazione i suoi testi, a partire dal discorso sul maschile e il femminile e sulla recita, sul recitare l’altro sesso, che come si sa era una caratteristica del codice teatrale dell’epoca. Per non parlare del lato esoterico, ovviamente.
Possiedi un immaginario molto molto forte. Sei un visionario. Come ti trovi nel panorama del cinema contemporaneo?
Bertrand Mandico: È complicato, perché posso essere nutrito e posso amare delle cose molto differenti rispetto a quelle che faccio. Non cerco necessariamente dei fratelli e delle sorelle cinematografici. Quando vedo un film cerco delle emozioni, di restare sorpreso, di vedere anche delle cose che io non sarei capace di fare. Ad esempio non mi sento in grado di fare delle cose estremamente realistiche. Il realismo è qualcosa che mi opprime, perché noi siamo sempre, costantemente, circondati dalla realtà. Ma comunque ci sono dei registi con cui mi sento molto vicino, che sono delle persone formidabili e che fanno dei film formidabili, come ad esempio Yann Gonzalez. O la stessa Seto Momoko che mi farà recitare nel suo prossimo film, che quindi segnerà il mio debutto d’attore. E poi Quentin Dupieux, che adoro anche se di persona non lo conosco. Ci sono molti giovani cineasti della nuova generazione che mi piacciono. E poi, più in generale, Leos Carax, ovviamente, che per me è uno dei più grandi cineasti francesi.