Intervista a Emre Yeksan
Abbiamo intervistato l’esordiente regista turco Emre Yeksan, che a Venezia 74 – alla Settimana Internazionale della Critica – ha portato The Gulf, un film che sembra discendere direttamente dal cinema moderno – tra Antonioni e Cinque pezzi facili di Bob Rafelson – e dai suoi antieroi in perenne crisi di coscienza.
Intanto vorremmo chiederti della scelta di ambientare The Gulf a Smirne. Come mai?
Emre Yeksan: Sono nato lì, è la mia città natale. Ho vissuto a Smirne i primi diciott’anni della mia vita, poi sono andato a Istanbul, quindi a Parigi e infine di nuovo a Istanbul. La ragione principale di questa ambientazione è che Smirne ‘ritorna’ a me molto spesso, anche quando non mi trovo lì. È un posto che allo stesso tempo conosco e che ho dimenticato. Quindi in qualche modo io sono Selim, il protagonista di The Gulf.
In che modo l’ambiente, la città, influisce sullo sviluppo narrativo ed emotivo di Selim?
Emre Yeksan: C’è stato un momento nella mia vita, tra il 2008 e il 2009, che sono tornato a Smirne per stare dai miei genitori. Ci sono rimasto tre mesi. La prima idea della sceneggiatura viene da lì, da quel periodo. E quando ero bambino c’era questo odore nel golfo di Smirne che era molto sgradevole, e soprattutto era una cosa molto dura da sopportare durante l’estate. Poi sono riusciti a bonificare l’area e, a partire dagli anni Duemila, questa puzza è sparita. E, quando verso il 2008 mi trovai a tornare lì dai miei, era una fase particolare della mia vita, non avevo voglia di fare niente e allora spesso mi trovavo a passeggiare per la città senza meta. E ad un certo punto ho pensato: che succederebbe se quella puzza tornasse di nuovo a Smirne? Quello è stato il primo passo, è così che la storia è arrivata. A livello personale, ma anche a livello sociale, è stata questa coincidenza, questa giustapposizione, che mi ha portato a sviluppare The Gulf, dove per l’appunto il cattivo odore ha un ruolo così centrale.
Nel tuo film è centrale l’idea della crisi dell’io, che è un tema tipicamente novecentesco, sia in ambito letterario che in ambito cinematografico. Per quel che riguarda quest’ultimo basta pensare al cinema di Antonioni. È a questi riferimenti alti che hai guardato per The Gulf?
Emre Yeksan: Sono molto onorato di questa connessione, perché Antonioni è uno dei registi che amo. E quindi, certo, la sua idea, il suo approccio verso la natura umana, ma anche il suo sguardo verso la società mi ha molto influenzato. Mi manca molto questo approccio, perché penso che a poco a poco sia stato dimenticato, una maniera particolare di guardare all’individuo e alla società e al modo in cui l’individuo si relaziona con la società. Questo sguardo merita di essere ricordato e merita di essere aggiornato. Quando si fanno dei nuovi film, comunque, è sempre necessario guardare a quello che già c’è, a quel che è già accaduto. E in un certo senso si può dire che The Gulf poteva essere ambientato in qualsiasi città di mare del mondo, Genova o Rimini, per dire.
Visto che il tuo film non è prettamente realistico, ma usa piuttosto un linguaggio simbolico, in che modo hai lavorato sulla regia, sulla messa in scena?
Emre Yeksan: Ho deciso di lavorare su questo doppio binario: sul piano della storia sono partito da una dimensione del racconto molto realistica per poi muovermi progressivamente verso una prospettiva più irrealistica, surrealistica. Dall’altro lato, invece, vale a dire quello della messa in scena, volevo fare esattamente il contrario: partire da un approccio molto teatrale, in qualche modo alienante, per farlo poi diventare pian piano più realista, liberando lo sguardo e anche la camera che infatti nel finale è a mano.
A proposito di linguaggio simbolico, ci sono dei momenti nel tuo film che ci sono apparsi molto significativi. Si tratta di quei momenti in cui la camera abbandona Selim e la sua famiglia per seguire dei personaggi secondari, lasciando però nella colonna audio le voci della situazione precedente. Ci pare che si possa considerare una resa visiva del discorso sulla perdita dell’io, ma allo stesso tempo non è forse un’allusione anche a un discorso di classe, visto che i personaggi che si seguono sono di estrazione proletaria, mentre Selim proviene da una famiglia borghese?
Emre Yeksan: Sì, è proprio così. Si tratta sia di un riferimento alla differenza di classe, sia un’anticipazione del finale, dove in qualche modo Selim si “fonde” con la folla. Lui pian piano inizia a conoscere gli altri e a riconoscersi in loro, arrivando a capire che in fin dei conti non sono così lontani da lui. Alla fine capisce che anche loro fanno parte della sua famiglia. Quindi, stando dentro alla storia, è un’anticipazione della sequenza finale; mentre – fuori dalla storia – è un riferimento a come noi percepiamo le differenze di classe.
Come hai trovato l’idea di rendere visivamente questo concetto attraverso una soluzione visiva così inusuale? Insomma, non è da tutti abbandonare bruscamente il proprio protagonista.
Emre Yeksan: Non ricordo come mi sia venuta esattamente l’idea. Ricordo solo che ad un certo punto ho avuto la sensazione che dovesse essere così. Per esempio, quando Selim entra in casa di sua sorella e trova la domestica che dorme sul letto, beh questa scena c’era già all’inizio. Quella però era una situazione e non ancora una precisa scelta di mise en scène, che in effetti è venuta dopo. Sentivo di aver bisogno di una soluzione aperta, chiara, per far sì che il pubblico guardasse in una certa maniera a questi personaggi secondari. Tutto era già suggerito nella sceneggiatura sin dall’inizio, ma non c’era ancora la sua trasposizione visiva. Poi, è successo qualcosa e ho pensato a questo, e la cosa ha dunque cominciato ad avere senso.
Una curiosità sulla scena in cui il protagonista si ritrova prigioniero delle sabbie mobili. Come l’avete realizzata? Esiste questo posto o è una invenzione?
Emre Yeksan: Quel posto esiste veramente, si trova proprio al centro della città di Smirne, più o meno alla fine del golfo. Un tempo lì c’era il mare, almeno fino a quindici, venti anni fa, e poi si è prosciugato. Anche se non è così assurdo come succede nel film, cioè le persone non vi sprofondano dentro. E comunque è molto strano che, proprio nel centro di una città, tu abbia uno spazio vuoto, senza niente, che sta diventando sempre più grande. A livello di produzione è stata la scena più complicata perché abbiamo dovuto fare un buco, mettere del liquido, piazzare una scala nascosta in basso dove l’attore doveva scendere.
In The Gulf ci sembra che siano evidenti dei riferimenti alla situazione politica turca. Era centrale per te questo discorso? E come pensi che possa essere percepito dai tuoi connazionali?
Emre Yeksan: Sì, assolutamente, per me è un discorso centrale, tanto la parte politica che quella sociale. E volevo renderla attraverso il sentire dei personaggi. Quella che descrivo in realtà è una situazione di ‘allucinazione’ che oggi non è tipica solo della Turchia, ma – credo – di tanti altri paesi, dove lo Stato fa delle cose e noi a volte non sappiamo come reagire. Certo, il mio però è soprattutto un riferimento preciso alla Turchia, visto che sono turco. E mi chiedo anch’io come reagirà il pubblico nazionale. Comunque sono sicuro che chi in questi ultimi anni scendeva in piazza per protestare contro quello che succedeva troverà una certa consonanza con il mio film. E spero che queste persone, vedendo il mio film, si ricordino anche di quel sentimento di speranza. Volevo fare un discorso che non fosse sottolineato in maniera troppo eccessiva, ma sì insomma volevo farlo, volevo che arrivasse al pubblico.
Un’ultima domanda a proposito di una curiosa similitudine che abbiamo notato e che forse è pertinente, visto che ami Antonioni. L’inizio di Zabriskie Point con quei volti ripresi un po’ fuori fuoco e senza audio ci ha ricordato la fine del tuo film. È un riferimento voluto o casuale?
Emre Yeksan: Ah, no. In realtà non mi ricordavo più questa cosa. L’unica volta che ho visto Zabriskie Point credo sia stata nel 1999, ero ancora uno studente di cinema. Ricordo che mi colpì molto, ma poi non l’ho più rivisto. Forse in qualche modo questa cosa si è alimentata inconsciamente. Tra l’altro, ho cominciato a pensare al finale molto tardi, proprio un attimo prima di girare, prendendo ispirazione da Il sapore della ciliegia di Kiarostami. Ma forse, da quello che mi dite, avete ragione voi e Zabriskie Point è in realtà un riferimento più accurato e più preciso.