Jukai: la foresta dei suicidi

Jukai: la foresta dei suicidi

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Con circa due anni di ritardo arriva nelle sale italiane Jukai: la foresta dei suicidi di Jason Zada. Consueto horror senza particolari meriti, quieto e prevedibile, che torna a raccogliere suggestioni dalla foresta giapponese di Aokigahara.

Vieni, c’è una strada nel bosco…

Jess, americana che vive in Giappone, sparisce nella foresta di Aokigahara, ai piedi del monte Fuji, durante una gita scolastica. Tristemente famosa, la foresta è da decenni teatro di numerosi suicidi, e per questo la scomparsa della ragazza allarma immediatamente Sara, sua gemella che vive in America e che tuttavia non crede alla morte di Jess. Decisa a ritrovare la sorella, Sara parte per il Giappone e, contro ogni consiglio, si addentra nella foresta, accompagnata da una guida locale e da Aiden, un giornalista che forse sul destino di Jess sa più di quanto vuol far credere… [sinossi]

Niente, la foresta di Aokigahara non porta bene al cinema. Luogo tristemente suggestivo per possibilità cinematografiche, per la seconda volta in pochi anni la foresta ai piedi del monte Fuji che in Giappone ospita il più alto numero di suicidi ritorna sul grande schermo, e anche stavolta manda deluse tutte le aspettative. Ci aveva già provato Gus Van Sant con l’indigeribile La foresta dei sogni (2015), passato pure in concorso al Festival di Cannes. Prima c’era stato pure un tv-horror, Grave Halloween, diretto nel 2013 da Steven R. Monroe. A seguire Van Sant di un’incollatura ci ha riprovato l’esordiente Jason Zada (Jukai: la foresta dei suicidi arriva adesso nelle nostre sale, ma il film è stato distribuito negli Stati Uniti quasi 2 anni fa), armandosi di minori ambizioni e optando per una semplice rivisitazione delle suggestioni del luogo in chiave horror, forse la più ovvia per una tale materia narrativa, in cui viene piegata a sfruttamento l’idea dell’inevitabile popolarsi della foresta con i numerosi spiriti dei trapassati che lì hanno scelto di togliersi la vita.
Al centro del racconto vi è una coppia di gemelle americane. Jess vive in Giappone e sparisce durante una gita scolastica nella foresta. In America, sua sorella Sara s’incarica di andare a ricercarla, convinta dalle tipiche (?) suggestioni extrasensoriali tra gemelli che in realtà Jess è ancora viva.

Curiosamente, ad avvicinare i film di Van Sant e Zada interviene anche il tema dello sguardo “altro”: in entrambi i casi sono sguardi americani ad apporsi sulle leggende della foresta, e a questo in Jukai: la foresta dei suicidi si conferisce particolare enfasi, quasi a voler raddoppiare lo straniamento della protagonista Sara, spaventata dal luogo tetro e inospitale e dall’inaccessibilità di lugubri leggende locali.
Esordendo quasi in medias res (gli antefatti necessari alla comprensione dell’innesco narrativo sono sbrigativamente riassunti in un rapido incipit tra presente narrativo e flashback), Jason Zada esprime fin da subito, con tale passo sintetico che bada al sodo, un comparto di mediocri ambizioni, ossia confezionare un “quieto” horror di basso profilo, preciso e industriale pure nella durata, quei paciosi 92 minuti offerti al pubblico per riempire un pomeriggio nel weekend con coca-cola e popcorn.
Certo vi è qualche merito, a partire dall’ampia ambientazione del film in pieno giorno, cosa piuttosto inusuale per il genere horror (tra gli esempi migliori, viene in mente il dimenticato, e per certi versi affine, L’albero del male, 1990, di William Friedkin), raccogliendo la sfida a tratti riuscita di provocare qualche brivido senza bisogno di affidarsi alle collaudate risorse del buio.
Ma Jason Zada non riesce a sfruttare fino in fondo le potenzialità della suggestiva ambientazione naturale, né è capace di evocare uno scenario di orrore panico che un tale setting avrebbe potuto indicare. Più in generale Jukai: la foresta dei suicidi corre via placido e prevedibile, senza nemmeno eccessive peripezie (o sarà forse che la gestione delle peripezie è così consueta e meccanica da neutralizzare qualsiasi effetto di suspense).

Zada mostra le sue cose migliori a tre quarti del racconto, quando l’horror cede il passo al racconto della diffidenza, in cui la realtà e la surrealtà diventano sempre meno distinguibili e subentra il sospetto tra Sara e il suo ambiguo aiutante Aiden, che sul destino di Jess potrebbe sapere più di quanto dice. Tuttavia anche in tale brano narrativo le debolezze di sceneggiatura si accumulano. Perché fidarsi di nuovo di Aiden, senza fare ulteriori domande sulle foto di Jess che l’uomo conserva sul suo cellulare? Le foto sono allucinazioni/artifici indotti dagli spiriti del bosco? Possibile che Sara non chieda più nulla al riguardo? Nella gestione della sceneggiatura Jason Zada mostra uno dei più banali e scolastici espedienti narrativi, ossia lasciar cadere un funzionale silenzio laddove il racconto potrebbe cadere in contraddizione o anticipare prematuramente una soluzione.
L’attrezzatura dello spavento è quella di sempre nella retorica dell’horror occidentale; volti mostruosi che irrompono in scena, ampio uso della colonna audio con tutti gli effetti del caso, e una fiducia pressoché incondizionata per il commento musicale, spesso così invadente da annullare per paradosso qualsiasi suspense o salto sulla sedia.
In Jukai: la foresta dei suicidi non si ha praticamente mai vera paura, non si crede mai al racconto, e gli attori non risultano particolarmente funzionali. Venuta da “Il trono di spade”, Natalie Dormer non sembra avere spiccate doti per l’horror, mentre Taylor Kinney occupa un usuale spazio di belloccio senza qualità. L’horrorino domenicale è servito, i 92 minuti corrono via più o meno nell’indifferenza. Per un horror, genere concepito per scatenare veementi reazioni emotive, è doppiamente un difetto. E Aokigahara, che per la sua lugubre storia si presterebbe pure a interessanti sguardi autoriali, resta in attesa di qualche altro cimento che sappia maneggiare efficacemente il suo strano destino di luogo naturalmente cinematografico.

Info
Il trailer di Jukai: la foresta dei suicidi su Youtube.
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