Torino 2017 – Presentazione
Torino 2017: tra gatti, opere prime seconde e terze, documentari, sperimentazioni più o meno ardite e ovviamente Brian De Palma prende corpo il programma della trentacinquesima edizione del Torino Film Festival, sempre sotto l’egida di Emanuela Martini.
Il Torino Film Festival torna, confermando una volta di più la struttura che oramai lo sorregge da un buon decennio a questa parte: un concorso internazionale dedicato alle opere prime, seconde e terze, una terra di mezzo in cui trovano spazio le derive, mainstream e indie, più disparate, uno spazio dedicato al documentario – o cinema del reale che dir si voglia – e un altro interessato a esplorare più da vicino le infinite possibilità della Settima Arte, anche in un’epoca in cui va di moda decretarne la morte per asfissia, il decesso ineluttabile, la fine. Torna il Torino Film Festival, sotto l’egida di Emanuela Martini, e le sensazioni che rilascia la lettura del programma riguardano la certezza di un lavoro che continua nella più totale coerenza con il passato e l’impressione allo stesso tempo di un consolidamento che non ha più tempo o voglia di sperimentare su se stesso, di mettersi in gioco, di rischiare. In questo senso si affida più al puro sberleffo che a una reale intuizione l’idea di creare uno spazio in più, “Non dire gatto…”, dedicato alla presenza degli amati felini sul grande schermo: in che direzione dovrebbe andare questa sotto-sotto-sezione? Diventa difficile comprendere il perché di una simile scelta, al di là del piacere di (ri)vedere sugli schermi della città sabauda titoli come Alice nel paese delle meraviglie, Black Cat di Lucio Fulci o Il gatto milionario di Arthur Rubin. Allo stesso tempo anche la mini-sezione gestita, come guest director, da Asia Argento, sembra guardare al passato del festival e a quell’Americana che era terreno fertile curato da Giulia D’Agnolo Vallan: anche il titolo, Amerikana, sembra giocare forse involontariamente con una simile memoria, collocando uno accanto all’altro oggetti cinematografici spesso anche in contraddizione, o comunque legati solo dal tema o da un apparente mood (Payday e Out of the Blue, per esempio).
Per il resto invece si gioca sul sicuro, su quelle carte che hanno reso Torino un festival vincente nel campo del rapporto con il territorio e con le necessità di trovare uno spazio autonomo all’interno del sistema italiano: uno spazio vivo in cui gli addetti ai lavori potranno scoprire qualche gioiello smarrito nel corso dell’anno e gli spettatori, il pubblico, avrà la possibilità di confrontarsi con una materia che spesso, troppo spesso, non trova poi il modo di raggiungere la sala. Questa duplice valenza fa sì che Torino possa pescare in acque già increspate da altri festival senza che questo rappresenti un punto di reale debolezza, ma rivendicando invece il suo diritto di replica, perché teso alla costruzione di una cittadinanza-pubblico consapevole. A titoli scelti con cura e mai visti prima del quasi-inverno torinese ecco dunque altri già visti e apprezzati da Rotterdam alla Berlinale, da Cannes a Locarno: si pensi all’ottimo A fábrica de nada di Pedro Pinho, visto a Cannes come Un beau soleil intérieur di Claire Denis, La cordillera di Santiago Mitre e Wind River di Taylor Sheridan. Allo stesso modo c’è la certezza di poter contare su due sezioni, TFF.doc e Onde, che anno dopo anno cercano di fare il punto su microcosmi definiti, luoghi a sé stanti in cui muoversi quasi a occhi chiusi, certi di rintracciare le coordinate di un viaggio iniziato tanti anni fa, odissea senza un approdo reale. Perché l’approdo è il viaggio stesso.
In attesa ovviamente di scoprire nuovi culti, di vivificarne di vecchi (l’immortale Sion Sono, per esempio), e di godere della vita-festival tra via Verdi e i portici di via Roma, resta l’ultimo gigante, così grande da oscurare da solo i cieli di Torino. La retrospettiva integrale dedicata a Brian De Palma. Un evento abnorme, che ha riportato alla mente le grandi retrospettive dedicate ad americani viventi durante gli anni di Turigliatto/D’Agnolo Vallan. Sulla carta non c’è nulla da eccepire, si può solo applaudire una scelta simile. Ma resta qualche dubbio, che è giusto elencare per poi riprendere il discorso a festival finito. Ha senso organizzare un evento così corposo – 33 opere – senza avere la certezza della presenza in loco del regista? Non sarebbe stato prioritario accertarsi di questo e poi, nel caso, organizzare una retrospettiva? Ha davvero senso vedere tutti i film di un regista vivente senza poter sentire anche in una sola occasione che valore questi hanno avuto per bocca dello stesso autore? Il secondo dubbio riguarda invece l’annosa questione delle pellicole: solo 12 film saranno presentati in pellicola agli spettatori, una cifra davvero esigua per un cineasta che ha diretto il suo primo film in digitale solo pochissimi anni fa. Non si tratta ovviamente solo di feticismo cinefilo fine a se stesso, ma di un interrogativo che non riguarda tanto il rapporto con il film in sé e per sé, ma piuttosto la capacità del festival di dialogare con gli aventi diritto e con le cineteche sparse in giro per il mondo. Questo non toglie il piacere di godere dell’arte di De Palma sul grande schermo, che sarebbe valido anche se i film fossero proiettati in dvd. Ma è un altro discorso…
In attesa di vivere una kermesse in ogni caso da sempre evento imperdibile e coda ideale dell’anno festivaliero, ovviamente.