Alice nel paese delle meraviglie

Alice nel paese delle meraviglie

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Tra i capolavori visionari di Walt Disney Alice nel paese delle meraviglie riveste un ruolo di primaria importanza, anche per l’ossessione del creatore della Casa del Topo verso il testo di Lewis Carroll. Un’opera lisergica e liquida, viaggio anti-sistema nelle voragini della mente infantile. Al Torino Film Festival nella mini-sezione dedicata ai gatti (in questo caso stre-gatti).

One pill makes you larger, and one pill makes you small

In Inghilterra, nella seconda metà dell’Ottocento, una bambina di nome Alice si annoia distesa su un prato mentre la sorella maggiore le legge un libro di storia. Distratta, vede un coniglio bianco che indossa un gilet affrettarsi verso un albero e decide di seguirlo, cadendo in una tana. Entra così in un mondo fantastico in cui fa la conoscenza di personaggi curiosi… [sinossi]

In Attraverso lo specchio, secondo capitolo che racconta di Alice nel paese delle meraviglie, la giovane e saccente protagonista si trova a tu per tu con Humpty Dumpty, con il quale si lancia in un’infuocata discussione. A un certo punto il suo “contendente” afferma «Quando uso una parola essa significa esattamente quello che voglio – né di più né di meno. E quando Alice gli fa notare che «La domanda è se si può fare in modo che le parole abbiano tanti significati diversi, Humpty Dumpty replica chiudendo il discorso: «La domanda è, chi è che comanda – tutto qui.»
Alla Disney, come sanno anche i sassi, a comandare era lo zio Walt… Alice nel paese delle meraviglie era un’ossessione di Disney fin da quando sbarcava il lunario come disegnatore, primo impiego dopo quello gratuito svolto con il fratello per il padre, la diffusione della rivista di ispirazione socialista di cui era editore. I tempi della Casa del Topo, il più grande e fruttifero impero dell’animazione, erano distanti anni, e non è dato sapere in realtà cosa smuovesse il geniale calembour di Lewis Carroll nella mente del creatore di Topolino; forse l’utopia di un mondo sottosopra, in grado di riscrivere anche le più basilari regole della logica e del buon senso, o forse quell’idea vittoriana di progresso gentile e sarcastico che irradierà fascino anche da Mary Poppins, la più faticosa e travagliata battaglia per i diritti che la storia del cinema ricordi (non a caso qualcuno ha pensato bene di costruirvi sopra un intero film). Fatto sta che, dopo aver utilizzato Alice come eroina su cui sperimentare animazioni e live action negli anni pre-Mickey Mouse, Disney dovrà attendere una trentina di anni prima di poter godere sul grande schermo della sua personalissima versione di Alice nel paese delle meraviglie.

Occorre subito sgomberare il campo dalle ipotesi che vorrebbero leggere il film del 1951 come un’opera minore all’interno della produzione “in vita” di Disney. Una vulgata che ha preso piede chissà come e che si fa strada attraverso anni e decenni relega le avventure di Alice nelle retrovie, forse anche come patetica forma di reazione ai deliqui hippie e sessantottini che elessero la bimbetta del romanzo e del film come un punto di riferimento, l’emblema di una messa in crisi del pensiero logico occidentale e della sua innata obsolescenza. Quale che sia il motivo dietro la freddezza che per lungo tempo ha accompagnato la lettura di Alice nel paese delle meraviglie, deve essere disinnescato: lucente squarcio psichedelico nella forma classica della fiaba che è uno dei tratti distintivi disneyani, il film presenta una girandola di situazioni visive che annebbiano la mente, trascinandola in un loop, vortice ossessivo di (auto) castrazione di una rivoluzione inevitabile. La Alice di Disney, non poi così dissimile da quella dei romanzi, è una bambina querula, petulante e saccente, che vorrebbe ricondurre a una logica borghese la fremente e fertile demenza di un mondo altro, dove il dodo non solo non è estinto ma parla come un vecchio lupo di mare, e il gatto del Cheshire può apparire e sparire a suo piacimento.

Per quanto sia l’unico personaggio perennemente in scena, Alice è spettatrice esattamente quanto il pubblico, che finisce ben presto per parteggiare per l’esercito di squinternati che abitano il paese delle meraviglie: un amore che è prima di tutto dello stesso Disney, che non a caso si affida a tre dei suoi più attenti, raffinati e sublimi metteur en scéne, Clyde Geronimi, Hamilton Luske e Wilfred Jackson. I tre, lavorando in gruppo, furono i responsabili anche di Cenerentola, Peter Pan e Lilli e il Vagabondo, ma la loro storia artistica scava fin nelle radici della storia della Disney, se si pensa che Luske fu uno dei registi di Pinocchio, a Jackson si deve La gallinella saggia, prima “interpretazione” di Paolino Paperino sul grande schermo, e l’italiano Cleto Enrico Geronimi, nativo di Chiavenna, detiene il record di classici diretti, ben nove. Su Geronimi, figura fondamentale per comprendere determinate scelte artistiche della Disney di quegli anni, si dovrebbero accendere luci rimaste fino a questo momento spente.
Il terzetto Geronimi/Luske/Jackson, quasi una sorta di Gre-No-Li del cinema, firma con Alice nel paese delle meraviglie il suo capolavoro, perfino superiore forse all’appena precedente Cenerentola. Là dove la fiaba sradicava il reale attraverso l’uso capillare, millimetrico, dell’immagine animata, riallacciandosi a codici in qualche modo predefiniti (sempre per merito di Disney e dell’irraggiungibile Biancaneve e i sette nani: per assistere a una nuova rivoluzione nella “riduzione” animata della fiaba bisognerà attendere La bella addormentata nel bosco, tra i registi l’onnipresente Geronimi insieme a Les Clark, Eric Larson e Wolfgang Reitherman) qui il reale non viene mai annullato, ma sempre sovvertito, messo in continua discussione.

Anche per questo Alice nel paese delle meraviglie è così crudele, sulfureo, depresso, sovraeccitato, quasi ansiogeno. Nessun altro film Disney riesce a restituire lo stesso senso di euforica mestizia, di evasione sistemica dalla dicotomia reale-fantastico. In una visionaria sequela di sequenze tra loro solo apparentemente slegate – e il periodo immediatamente precedente, tra anni belligeranti e primissimo dopoguerra, era stato caratterizzato proprio da film a episodi, strutturalmente più leggeri – le avventure di Alice ribadiscono da un lato la necessità di una fuga nelle possibilità oniriche e dall’altro l’ancor più stringente urgenza di sminare il campo minato dell’ovvio, del sistemico, del didattico, bombardandolo con l’escrescenza più slabbrata del surreale, a pochi centimetri dal demente. Non è un caso che tutto parta dall’inseguimento del Bianconiglio, stressato travet che si rivela grigio e pedissequo ossequiante della Regina di Cuori, bieca rappresentazione del potere più sanguinario. È nei matti, in quello Stregatto incorporeo, che si trova la logica. La si trova e la si accetta, per scoprirne quasi subito la totale illogicità. Si nega il particolare rendendolo universale – il non-compleanno –, in un film farsa, deflagrante e irrefrenabile. La decostruzione dell’occidente attraverso le armi della logica matematica dell’occidente stesso. Forse il più compiuto depistaggio di Walt Disney, maestro ineguagliato e forse, nonostante tutto, ancora incompreso.

Info
Il trailer di Alice nel paese delle meraviglie.
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