Daphne

Inquietudini e frammentazioni esistenziali, commedia ricca di humour e di intelligenza introspettiva. Daphne di Peter Mackie Burns è una bella opera prima finemente scritta, che parla (anche) del nostro tempo senza enfasi o didascalismi. In concorso al Torino Film Festival.

L’arte della fuga

A trentun anni Daphne conduce una vita frenetica, divisa tra il lavoro in un ristorante di una zona alla moda di Londra, le uscite notturne e gli uomini che, fatalmente e a dispetto di ogni suo segnale, si innamorano di lei. Il cinico distacco che ha elaborato rispetto alla vita sembra funzionare per tutto, ma la felicità è un’altra cosa. A sbloccare tale impasse sarà il tentato omicidio del gestore di un negozio, cui la ragazza assiste e che la costringe a lottare contro l’inevitabilità di un cambiamento ormai necessario… [sinossi]

In tempi di crisi economica, pure le personalità si sfrangiano, rasentano l’instabilità, vivono così intensamente nella frammentarietà da affezionarsi a un modello-non modello di vita in cui tutto è fra parentesi, rinviabile, rivalutabile, soggetto ad accettazione e successiva, rapida fuga. In Daphne, bella opera prima di Peter Mackie Burns in concorso al TFF, in realtà non vi è alcuna insistenza su una sorta di determinismo sociale che dalle incertezze contemporanee si riverberi rigidamente sull’individuo. La situazione economica occidentale irrompe in modo chiaro solo una volta, tramite una voce di cronista che dà conto della forbice sempre più ampia (e oligarchica) tra benessere per pochi e miseria per molti. Per il resto in Daphne la realtà è indagata nell’individuo, in modo libero e divagante, affidandosi alle risorse del ritratto a tutto tondo, incentrato su una brillante figura principale frutto di una preziosa intelligenza di scrittura. La figura di Daphne, trentunenne londinese, assomma vari tratti della contemporaneità (non ha un lavoro particolarmente stimolante, flirta con la solitudine e vive seguendo un generale mood di interscambiabilità di idee, persone e decisioni) ma raccontati come dati incidentali, tratti della sua esistenza che non prevalgono mai uno sull’altro in senso didascalico. Connettere il profilo di Daphne all’aria dei tempi è un’inferenza che si può operare o meno, giustificata dal film ma non marcata con meccanica enfasi.

Su un piano più strettamente individuale, il film di Burns ritaglia piuttosto una tranche de vie che testimonia innanzitutto un enorme lavoro di sceneggiatura, caratterizzata da una rara brillantezza di dialoghi spesso improntati a uno humour nient’affatto scontato. Nell’inquieto fluire dell’esistenza di Daphne, sempre pronta a improvvisare la giornata che le si para davanti in totale autonomia rispetto alla precedente, irrompe una cesura violenta: un’aggressione in uno store durante una rapina, di cui la ragazza è testimone. Per Daphne è un piccolo terremoto; la ragazza soccorre il commesso, ma per il resto la sua vita non sembra comunque incontrare alcuna scossa decisiva. È in tale anestesia, primo passo (o conseguenza ultima) della separazione dal mondo, che forse è da rintracciarsi un discorso di doppio livello, individuale e sociale, imboccato però sulla strada del racconto fenomenico, fuori da esplicite declamazioni, e solo vagamente morale. A seguito di tale evento teoricamente traumatico le incrinature in Daphne si palesano ogni tanto e impercettibilmente, in peggio e in meglio: in almeno un’occasione emerge in lei un’inedita diffidenza verso l’altro, mentre in altri momenti si manifestano dubbi riguardo alla propria anestesia esistenziale (perché nei confronti della vittima dell’aggressione, Daphne sente di non provare niente?, si domanda la ragazza in uno dei momenti più pregnanti, durante una seduta di sostegno psicoterapeutico). Burns segue con passo brillante e delicato gli impercettibili “spostamenti progressivi” dell’anima, negando innanzitutto la classica struttura del racconto che vede il protagonista cambiare tramite l’esperienza. Daphne sembra voler dire, al contrario, che il personaggio può sì cambiare, ma per mezzo di un percorso più difficile e contraddittorio, fatto di scatti in avanti e retromarce, dove mai è garantita la mistificante svolta narrativa della redenzione. E, forse, il cambiamento è possibile ma mai in via definitiva. Lo testimonia pure quell’incontro conclusivo con la vittima dell’aggressione, che Daphne si decide finalmente a rivedere. La ragazza compie un’azione che lascia supporre in lei un cambio di passo, ma magari, coerentemente alle scelte espressive di Burns per tutto il film, si tratta nient’altro che di un momento, di un frammento nel fluire della vita, che in quanto frammento non può costituire morale. Ai confini tra la patologia sociale e quella individuale (nei comportamenti della protagonista si potrebbero riscontrare tratti bipolari), Daphne evoca una generale disintegrazione di profili umani e sentimenti, dove la risorsa più immediata resta quella della fuga. Dalle responsabilità, dal lavoro, dalla coppia che annulla il sesso occasionale. In cerca, probabilmente, di un orizzonte più ampio, perché la vita così com’è sembra davvero poca cosa, e come dice la madre di Daphne si avverte la necessità di cercare altro.

Ben supportata da uno script ricco di cinico umorismo, Emily Beecham primeggia nel ruolo principale, simpatica senza forzature, tormentata senza compiacimenti. A poco a poco ce ne innamoriamo, ma tanto lei non ci si fila. Allergica agli impegni e alle responsabilità, ci guarda per novanta minuti, e poi domani si reinventa tutta daccapo.

Info
Il trailer originale di Daphne.
La scheda di Daphne sul sito del TFF 2017.
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