Crisi
di Ingmar Bergman
Opera prima su commissione, Crisi di Ingmar Bergman rivela un universo espressivo già fortemente personale, che fin dal primo film scava a fondo nelle ambiguità psicologiche dei suoi personaggi, alla ricerca di una (impossibile) idea d’amore libero e necessario per l’altro. Al Palazzo delle Esposizioni per la retrospettiva Bergman 100, curata da La farfalla sul mirino e Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale.
Il fascino ambiguo di Jack
In una cittadina di provincia l’insegnante di pianoforte Ingeborg ha cresciuto per diciott’anni Nelly, abbandonata dalla vera madre Jenny che si è trasferita in città. Jenny ritorna in paese decisa a riprendersi la figlia, suscitando grande dolore e apprensione in Ingeborg. Jenny è accompagnata dall’attore Jack, che in breve tempo irretisce Nelly sottraendola alle attenzioni dell’assennato Ulf. Nelly segue in città sua madre Jenny e Jack, lasciando Ingeborg in balia di una grande preoccupazione… [sinossi]
Dopo aver già fornito la sceneggiatura per Spasimo (1944) di Alf Sjöberg, a Ingmar Bergman arriva l’occasione di esordire alla regia con l’offerta della Svensk Filmindustri di trasporre al cinema un testo teatrale, forse radiodramma, del danese Leck Fischer, “La bestia madre”, che nella sua versione cinematografica prenderà il titolo di Crisi (1946). Su dichiarazione dello stesso Bergman, in quel momento avrebbe “sicuramente tratto un film anche dalla guida del telefono” pur di ottenere il desiderato esordio. In tal senso si può inquadrare la scelta-non scelta (la fonte originaria, come detto, gli fu proposta dalla produzione) di confrontarsi con un testo che, nella sua rilettura cinematografica, conserva molto del dramma edificante, avvitato com’è in superficie a conflitti in tutto radicati in una dimensione di moralità borghesi. Benché spesso in futuro Bergman trovi terreno fertile per le sue riflessioni esistenziali in tale orizzonte sociale, tuttavia in Crisi si conserva un percepibile sostrato di immediate fratture tra norma e devianza, tra “buona morale” e rischi di perdizione. Restando alla macrostruttura del racconto, vediamo infatti il dispiegarsi di polarizzazioni morali incarnate in figure opposte: si fronteggiano due idee di madre, una assennata e devota, l’altra traviata ed egoista, secondo un consueto meccanismo melodrammatico di rivendicazioni tra chi, madre putativa, ha cresciuto un figlio e chi, madre naturale, se n’è disinteressato. Per il buon peso, la madre putativa è pure malata terminale, a corroborare ulteriormente il suo carattere santo e sacrificale. A tale conflitto principale se ne affianca un altro tra due figure di corteggiatori, ciascuno riconducibile a una delle due madri secondo la medesima partizione (uno assennato, l’altro scapestrato). Al centro, la diciottenne Nelly, anima pura e innocente, oggetto del contendere in tale scenario.
Restando ancora sulla superficie della macrostruttura narrativa, Crisi prevede un percorso formativo in chiave edificante con annessa perdita dell’innocenza, ritorno all’ovile e giusta riconciliazione d’amore, all’insegna di un lieto fine che dopo tante peripezie viene a sancire la ricompensa morale. Perché “è una commedia”, come dice la voce narrante introducendo il racconto alle prime battute e affidando il suo “Signori, in scena!” a una tenda che si solleva a mo’ di sipario su una finestra. Ma su queste linee premarcate Bergman inizia a scompaginare le certezze di un siffatto racconto, operando innanzitutto sul tormentoso sfumarsi dei profili etici. Un’altra polarizzazione da subito introdotta è infatti tra la paciosa realtà di provincia e la città corruttrice, che si rifrangono nelle fisionomie delle due madri: l’autopunitiva Ingeborg, madre putativa irreprensibile, rappresentante di salda moralità, e la vistosa madre naturale Jenny, che fin dal trucco pesante e i plateali abbigliamenti porta su di sé le stimmate della grande città.
Fin dalla mirabile sequenza del ballo, però, Bergman introduce il dubbio; di quella realtà di provincia non vi è molto da apprezzare e incoraggiare, confinata com’è nei suoi paludati rituali perbenistici, fatti di fastose apparenze e convenzione. In tal senso è da leggersi il bel confronto instaurato da Bergman tra la cantante lirica, spettacolo per borghesi, disturbata nella sua esecuzione dal jazz del corteggiatore Jack, a sua volta figura di profonda ambiguità, che nel contesto di una convenzionale festa borghese fa esplodere gli accenti provocatori e libertari di una musica in sé antiborghese. Aggirando quindi la compostezza unilaterale di un conflitto edificante tra due realtà morali ben distinte, Bergman indaga nelle pieghe della contraddizione, tanto da appoggiare in qualche modo il desiderio di fuga da quel panorama sociale non solo di Nelly, ma anche dell’oscuro Jack. L’attore Jack, in fondo, incarna la falsa coscienza di quel mondo provinciale e conservatore, una figura disallineata che, per quanto poco stimabile sotto il profilo etico (cinico, approfittatore, debole, irresoluto, egoista e prigioniero del suo stesso egoismo), costituisce anche la possibilità di messa in discussione di una realtà oppressiva e castrante.
A poco a poco, Crisi (bel titolo, plurisignificante nel suo delineare un quadro in via di sgretolarsi sotto molteplici aspetti) insinua crepe nei suoi personaggi, spalanca solchi d’angoscia, si pone all’indagine di psicologie tormentate dal confronto con l’altro e con se stessi. Non vi è più alcuna certezza per il perseguimento del Bene, nemmeno nelle figure che hanno sacrificato la loro intera vita all’amore di qualcun altro: la madre putativa Ingeborg è anche una punitiva figura fagocitante, che imprigiona Nelly nell’obbligo del proprio amore. È in lei che, per la prima volta nella filmografia di Bergman, si apre per una breve parentesi un tormentoso confronto con il Sacro. Al ritorno dalla visita in città alla figlioccia, in un vagone-letto, in preda all’angoscia Ingeborg interroga Dio sul senso della propria vita, chiedendo perché debba assistere, ormai anziana e malata, alla disfatta di Nelly, proprio del suo esclusivo oggetto d’amore al quale ha dedicato un intero progetto di vita. È nell’idea di “progetto” che risiede la tetra, doppia natura di Ingeborg: identificare in una persona esterna, sia pure una “figlia”, un progetto da perseguire per dare un senso alla propria esistenza. A convalidare tale tesi, basti pensare al lieto fine, che sulla carta chiude nel bene una vicenda di peripezie ma in uno schiacciante gelo emotivo. “Ora non ho più paura” può sentenziare Ingeborg. Una volta ricondotta Nelly a casa e preconizzato un sensato matrimonio col probo Ulf, Ingeborg ha riacquisito le sue certezze tramite un rinnovato dominio sui suoi oggetti in carne e ossa. Non ha più paura, l’ansia è passata, come quella di un’ossessiva che ha compiuto la sua più perfetta compulsione.
Sull’altro fronte, Jenny, madre naturale e degenere, cala la maschera davanti a se stessa nella splendida sequenza allo specchio, in cui confessa finalmente il suo costante sentimento di mancanza d’amore e abbandono da parte degli altri. Sotto altre vesti, si tratta della stessa necessità di tradurre gli altri in strumento e giustificazione della propria vita, secondo una visione prettamente utilitaristica e oggettuale dell’altro. Davanti allo specchio Jenny viene a chiudere una sequenza magistrale per atmosfere e composizione audiovisiva; non alieno a un certo sentimento noir, Bergman allestisce una calata di maschere in uno squallido ambiente adornato di teste per parrucche e a fianco di un teatro, dove a far da eco lontano risuonano le risate, gli applausi e le musiche dello spettacolo in corso. Lì giunge al suo scioglimento un ulteriore filone, altrettanto prettamente bergmaniano, che ha accompagnato e corroborato il film fin dall’inizio: il confronto tra realtà e irrealtà, tra vita e teatro, ulteriore dicotomia spalancata fin da quella tendina che si solleva sulla finestra alle prime battute del film e che delinea l’intero racconto come frammento dell’eterno spettacolo finzionale, ontologico e sociale, della vita. Nella sua forma più esplicita tale riflessione è condotta e incarnata dal velleitario attore Jack, manipolatore e millantatore, disperato e consapevole di sé, spesso tentato dal suicidio tanto da non poter più distinguere se quella minaccia è sincera o a sua volta esibizione di se stesso. Sarà lui, del resto, a definire bergmanianamente “teatro di marionette” lo spettacolo della vita.
Nel fascino ambiguo di Jack s’incarna tutta la tormentosa tensione verso un Altrove che tuttavia rimane sempre fuga insoddisfatta o inattuata, come rimane assai significativo nell’universo bergmaniano il suo profilo di attore/intellettuale che, troppo innamorato di se stesso, ammette la propria incapacità di amare (l’egoismo anaffettivo dell’intellettuale sarà ricorrente nella filmografia di Bergman, con chiaro riferimento autobiografico; tra i tanti, basti pensare al David di Come in uno specchio, 1961).
Figura a tratti dostoevskiana, il Jack raccontato da Crisi è un ulteriore atto di personalizzazione, il più plateale e dichiarato, operato da Bergman sul testo originario, che tuttavia, come si è visto, nella sua versione cinematografica propone uno sconcertante repertorio di pre-allusioni a un universo autoriale in via di farsi ed esprimersi.
Già in questa opera prima, realizzata su commissione (il film oltretutto fu un notevole fiasco), è possibile ritrovare insomma una poetica ben riconoscibile in un autore appena ventottenne. Se di figure femminili tormentate da rapporti familiari sarà piena la carriera di Bergman, spesso avvitate intorno all’irrisolta dicotomia tra (vera/falsa) abnegazione e (vero/falso) egoismo, d’altro canto è impossibile non riandare col pensiero al confronto madre/figlia di Sinfonia d’autunno (1978), quasi a legare circolarmente il film d’esordio con una delle opere più tarde, dove ritorna curiosamente anche il tema della madre pianista. Se alcune scelte sembrano d’altronde più “produttive” e meno personali (vedi l’uso enfatico e invadente del commento musicale), Crisi resta comunque un primo fondamentale tassello di un percorso artistico che fin da subito confessa una rara coerenza e compattezza d’ispirazione.
In Crisi l’interrogativo principale resta in ultima analisi quello intorno alla possibilità dell’amore per l’altro. Se sia possibile e umano, insomma, spogliarsi davvero di sé per darsi all’altro al di fuori dei propri bisogni. Dare senza ricevere vs. ricevere senza dare. Il primo termine è a un passo da Dio.
Info
La scheda di Crisi sul sito del Palazzo delle Esposizioni.
- Genere: drammatico
- Titolo originale: Kris
- Paese/Anno: Svezia | 1946
- Regia: Ingmar Bergman
- Sceneggiatura: Ingmar Bergman
- Fotografia: Gösta Roosling
- Montaggio: Oscar Rosander
- Interpreti: Allan Bohlin, Anna-Lisa Baude, Arne Lindblad, Carin Cederström, Dagmar Olsson, Dagny Lind, Ernst Eklund, Gus Dahlström, Gustaf Molander, Holger Höglund, Inga Landgré, John Melin, Julia Cæsar, Karl Erik Flens, Margit Andelius, Marianne Löfgren, Mona Geijer-Falkner, Signe Wirff, Siv Thulin, Stig Olin, Sture Ericson, Svea Holst, Ulf Johansson, Wiktor Andersson
- Colonna sonora: Erland von Koch
- Produzione: Svensk Filmindustri
- Durata: 93'