Bande à part

Bande à part

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Movies Inspired, seguendo la linea già tracciata da Cinema Ritrovato e Lab 80, riporta in sala in versione restaurata Bande à part di Jean-Luc Godard, uno dei titoli più iconoclasti e celebri tra i primi lavori del cineasta svizzero trapiantato in Francia. Un omaggio ai noir low budget d’oltreoceano, ma non solo… Con Anna Karina, Sami Frey e Claude Brasseur.

L’atto superfluo

Odile rivela ai suoi compagni di classe, Frantz e Arthur, che il pensionante di sua zia Victoria possiede una grossa somma di denaro nascosta in soffitta. I due progettano di compiere una rapina e, per convincere Odile a lasciarli entrare dalla zia, la corteggiano a turno, passandole bigliettini d’amore e portandola a ballare… Finalmente Odile cede e porta gli amici a casa, ma il bottino non si trova… [sinossi]

Bande à part ritorna in sala in Italia a distanza di 54 anni dalla sua realizzazione mentre il mondo cinefilo si getta nell’agone che vorrebbe distinguere in fazioni nette posizioni pro e contro l’ultimo Eastwood, o disquisisce con toni sempre più barricaderi – e faticosamente noiosi – su ogni film, da Chiamami col tuo nome a La forma dell’acqua, da The Post a A casa tutti bene. Il dibattito culturale langue, e quando non langue dimostra tutta la propria intrinseca mediocrità. Mancano strutture, si smarriscono sguardi sistemici, l’ozio mentale del singolo si erge a speculazione filosofica. La critica, già rischiosamente vicina allo svolazzo dell’idea (ma non dell’ideale), veste gli abiti del quotidiano velleitario, scavando una trincea in grado di separarla sempre di più dal mondo reale, dalle concretezze dell’esistenza. Rinchiuso in un iperuranio di cartapesta, il mondo del cinema assolve se stesso da qualsiasi iniquità. In uno scenario simile rivedere o scoprire per la prima volta Bande à part è un atto rivoluzionario. Il gesto superfluo godardiano che denuda la passività organica spettatoriale ieri come oggi. Come domani. Basta quel titolo che compare sul montaggio frenetico dei volti dei tre protagonisti, Anna Karina, al quarto dei sette film con l’allora marito (e all’ultimo come sua sposa [1]), Sami Frey e Claude Brasseur, per rendere evidente la vita che corre per 24 fotogrammi al secondo sullo schermo: mentre si compone “bande à part” si triangolano gli sguardi. Un triangolo scaleno. Un triangolo impossibile per una storia impossibile, per un furto impossibile. Per un cinema solo allora – e solo per poco – davvero possibile. È un noir, Bande à part, ma nessuno sembra interessato davvero a condurlo fino alla fine; certo, il morto non può mancare, ma è un tassello, la pedina di un domino interminabile. Non si muore sullo schermo, se non per finta. Finge Jean-Luc Godard, e così agendo elimina qualsiasi filtro palese o meno in grado di separarlo dagli spettatori. Finge la morte anche Claude Brasseur nell’incipit del film, rotolandosi a terra come Billy the Kid, freddato a Tombstone nel 1891. Anche il celeberrimo omonimo del personaggio che interpreta, Arthur Rimbaud, morì nel 1891 nel letto di un ospedale di Marsiglia, costretto al ritorno in patria da un tumore. Quella patria da cui era fuggito per cercare aria d’avventura nell’Harar. Fuggiranno anche Franz e Odile nel finale di Bande à part, su una nave in rotta verso i mari del sud…

Bande à part torna in sala e a colpire l’immaginario arriva dirompente la naturale semplicità con cui Godard affronta una narrazione, una storia. Un canovaccio, e nulla più. Perché non c’è mai bisogno di nulla più di un canovaccio, forse, per descrivere i rapporti basilari – o meglio, basici – tra gli esseri umani. Lei, e due lui che giocano a sedurla e giocano ancora più a fingersi criminali, sognando quel colpo nella casa della zia di Odile, alla ricerca di un tesoro che chissà se esiste, e chissà perché esiste. Ma Godard è già consapevole che il cinema è solo una distrazione, un passatempo ozioso, il modo migliore per riempire due ore di vuoto in una vita che si finge di aver piena fino all’orlo. Così, dopo neanche dieci minuti dall’inizio del film, ecco la sua voce narrante irrompere sulla scena – mentre Odile se ne va in giro in bicicletta e i due amici a bordo della SIMCA che ha diritto di essere considerata una delle protagoniste della storia – per affermare “Per lo spettatore che entra in sala solo adesso tutto ciò che si può dire sono poche parole a caso: tre settimane fa, parecchi soldi, un corso di inglese, una casa vicino al fiume, una ragazza romantica”. Il riassunto delle puntate precedenti arriva subito, perché i ritardatari o i disattenti possano avere la possibilità di riprendere da zero, di ricominciare, di non sentirsi persi. Godard gioca, in quella tensione alla decostruzione del letterario che è parte consistente della sua prima fase autoriale, quella che grossomodo va da Fino all’ultimo respiro a Due o tre cose che so di lei; è il Godard pre-marxista, già propenso alla scarnificazione dell’iconografia della società consumista del Capitale ma ancora proiettato in una dimensione in cui è il reale a dover trovare conferme nel cinema, e non l’inverso.

Ecco dunque che Godard prende spunto da un romanzo della scrittrice texana Dolores Hitchens, Fool’s Gold, pubblicato nel 1958 e tradotto in Francia da Gallimard con il titolo Pigeon vole; ma nel metterlo in scena lo svuota di qualsiasi psicologia. I personaggi sono ridotti a tipi, costretti a muoversi, coatti all’azione dalla quale non possono svicolare, se vogliono dimostrare di essere vivi. E in effetti quella che dovrebbe essere la storia di un crimine si trasforma nel racconto di una “oisive jeunesse”, per rubare le parole ancora a Rimbaud – quello vero, non il personaggio di Brasseur –, una gioventù che non ha strumenti dialettici per esprimersi. Una gioventù che preferisce il silenzio alla parola. Che preferisce la corsa a perdifiato per battere il record di attraversamento del Louvre (record che, di film in film, sarà migliorato nel 2003 dai protagonisti – anche loro tre – di The Dreamers di Bernardo Bertolucci). Che preferisce una Madison Dance in un caffè parigino.
Una gioventù che di lì a pochi anni arrosserà le strade francesi nel maggio ma che ignara ancora si accontenta del gesto superfluo, privo di conseguenze, atto eccedente e inessenziale, forse anche ridondante, ma in grado di smuovere la prassi. Samuel Fuller ammirato ricordava la sequenza in cui Franz e Arthur, con le calze infilate sulla testa per non farsi riconoscere, si aggirano per la casa chi aggiustandosi la cravatta chi infilandosi libri nelle tasche: anche nel più rigoroso rispetto dei b-movie che fecero (ancor più) grande Hollywood non c’è modo di evitare uno scarto netto, scorbutico, improvviso, infantile e teorico allo stesso tempo. Infantile perché teorico, e teorico in quanto davvero infantile.

La disarticolazione della trama non è per Godard una parodia della stessa, né una sonora smentita del suo senso. È semplicemente l’unico modo per non mentire – mentendo – di fronte agli spettatori. Si sta avverando quel passaggio a un cinema che si immerge nel reale che sarà il passo determinante della carriera del regista, e i primi vagiti sono già evidenti in Bande à part, e probabilmente in gran parte inconsapevoli. La scelta di una Parigi periferica, distante dal rutilare che era già il centro nevralgico per esempio dei film precedenti di Godard (Fino all’ultimo respiro respira l’aria di Montparnasse e Notre Dame…), da un lato rispecchia il mood suburbano dei b-movie di riferimento, e dall’altro acquista un valore quasi politico: nel gesto di superare a bordo della SIMCA la Marna, per ritrovarsi dalle parti di Quai Fernand Saguet, c’è una rivendicazione di senso, di posizionamento sistemico, di (non) accettazione dell’esistente e dell’ovvio.
A distanza di cinquantaquattro anni dalla sua realizzazione – il set si sviluppò tra il 17 febbraio e il 17 marzo del 1964 – Bande à part rivela un’anima in eterno divenire, una freschezza di sguardo che non ha tempo, e non si ferma di fronte a nessun tempo. Una rivoluzione nel senso più puro, poetico ed espressivo del termine. Ed è curioso, in conclusione, notare come quella che è forse la sequenza più libertaria del film, la fuga tra le aule austere e immobili del Louvre, fu resa possibile solo dall’intercessione del ministro della cultura, quell’André Malraux che aveva conosciuto Trotzky, aveva sposato la causa repubblicana spagnola e quella anticoloniale laotiana, per poi finire come gaullista duro e puro. Il suo La condition humaine rimane uno spettro che si aggira per l’Europa – e anche a lui è dedicato il sublime Calamari Union di Aki Kaurismäki – ma Malraux rimarrà inevitabilmente legato alla contestazione sessantottina, che non potè mai perdonargli (tra le tante cose) la scelta di rimuovere dall’incarico di conservatore della Cinémathèque Henri Langlois. Contro di lui nel 1968 manifesterà in prima linea proprio Jean-Luc Godard. Una nuova fase era aperta.

NOTE
1. In ordine cronologico: Le Petit soldat, La donna è donna, Questa è la mia vita, Bande à part, Agente Lemmy Caution: missione Alphaville, Pierrot le fou, Una storia americana. Karina e Godard furono sposati dal 1961 al 1964.
Info
Il trailer di Bande à part.
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