Luci d’inverno
di Ingmar Bergman
Secondo e più esplicito capitolo della Trilogia del silenzio di Dio, Luci d’inverno scava con ineguagliabile profondità nelle crisi della Fede e nei tormenti dell’uomo, nei fallimenti e nel vuoto esistenziale, nella solitudine e nell’abbandono di chi insieme all’amore ha perso ogni certezza e ogni missione, delineando la personale parabola di Passione di un pastore/padre non più in grado di offrire conforto nemmeno a se stesso. Fra le tappe più radicali della filmografia di Ingmar Bergman, sarà al Palazzo delle Esposizioni per la rassegna Bergman 100, organizzata da Azienda Speciale Palaexpo, CSC-Cineteca Nazionale e La Farfalla sul Mirino.
Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?
Dopo la morte della moglie, un pastore protestante capisce di aver perso la fede e di essere ormai incapace di aiutare il prossimo. Fedele a una messinscena di grande austerità, Bergman racconta con commozione la crisi emotiva e spirituale di un uomo, con un finale aperto entrato nella storia del cinema… [sinossi]
Il pastore protestante Tomas Ericsson, raffreddato e febbricitante, celebra la funzione del mattino. Fuori dalla chiesa, nel silenzio, un sottile strato di candida neve ricopre i paesaggi della campagna svedese, immergendoli nello stesso gelo in cui si contorce l’anima inquieta che il religioso cerca di dissimulare nei riti e nei sermoni. È il momento della transustanziazione nel pane e nel vino, con i pochi fedeli inginocchiati intorno all’altare che aspettano di ricevere il corpo e il sangue di Cristo. Tomas, interpretato dal fedelissimo sodale bergmaniano Gunnar Björnstrand probabilmente all’apice di una collaborazione durata 36 anni e 22 film, distribuisce l’eucarestia, porge l’ostia, offre la coppa alla quale abbeverarsi di Fede, recita le preghiere e innalza inni al Signore, ma dal fondo del suo sguardo già emerge il suo smarrimento, la sua solitudine, quella che sarà la sua personale Via Crucis nei tormenti esistenziali di chi non è più certo della sua Fede. Inizia così Luci d’inverno, secondo e centrale capitolo della trilogia di Ingmar Bergman sul silenzio di Dio, il capitolo più esplicito, il più chiaro e verbalizzato sul tema, e forse il più sentito e personale, con il pastore Tomas plasmato dal regista sulla detestata figura del padre. Un padre che però non è ancora il mostro spettrale, specchio di una riconciliazione impossibile e mai avvenuta, che apparirà in Fanny e Alexander, ma al contrario è semplicemente l’uomo, o meglio il rigido pastore protestante afflitto dagli umani tormenti, al quale forse provare ad aprire, interrogandosi sulle sue difficoltà, sulle sue crisi, sulla sua spiritualità.
La messa in scena di Ingmar Bergman è rigorosa, austera, prodigiosamente elegante nell’accompagnare la progressiva discesa del protagonista negli inferi del dubbio, della fallibilità, e soprattutto dell’impotente consapevolezza di tutto questo. Sta tutto in un quasi impercettibile tremolio della mano di Tomas, nel groppo che gli sale alla gola, nella sua voce che si fa flebile, mozzata, e poi tace come atterrita. Accade al termine della liturgia, in canonica, di fronte a quello stesso crocifisso che Bergman già aveva utilizzato ne Il settimo sigillo, quando si presentano in canonica i coniugi Persson, lei in attesa del quarto figlio, lui (Max Von Sydow) bisognoso di conforto nella sua depressione, annichilito fra manie depressive e pensieri suicidi. Tomas tira in ballo paure e debolezze di ogni uomo, cerca le parole di consolazione per il parrocchiano che ha bisogno d’aiuto, ma trova solo discorsi vacui, generici, inutili, e poi silenzio, sudore, dubbio atroce. Ha teso la mano a Dio e Dio non l’ha afferrata, non lo ha ascoltato, o per lo meno non gli ha risposto, non lo ha supportato. Ha sperato in una parola di suggerimento, ma ha trovato solo silenzio, assenza nel momento del bisogno. Dio, il “suo” Dio, lo ha lasciato solo. Dio, il “suo” Dio, lo ha abbandonato.
«Perché non esiste», commenterà senza peli sulla lingua la materialista Marta (Ingrid Thulin), devota al sacerdote ma non a Dio, e ancor meno al “suo” Dio, il Dio personale di Tomas, quello che, proprio come nel discorso del padre al figlio in Come in uno specchio, coincide(va) con l’amore, e che con la morte dell’amata moglie, «l’unica che riuscisse a vedere» proprio quel Dio sempre benevolo e confortante di Tomas, ora per lui non esiste più. Nell’avanzare dei suoi dubbi esistenziali e di Fede Tomas, pastore «per un caso» che più tardi confesserà, nell’unica reale apertura a Marta, chiamarsi volontà paterna, ripensa a quella visione di un Dio sempre buono e consolatorio che lo ha portato al sacerdozio, e si rende conto di come dover accettare le avversità della vita, la perdita dell’amore e l’inettitudine dell’uomo fallibile non rendano compatibile con la realtà questa visione fanciullesca e idealizzata del divino.
Di fronte alle sofferenze, le benedizioni sono inutili, e agli occhi di Tomas ora Dio appare distante, cinico, perfido, feroce. «Un mostro», dirà espressamente a Jonas Persson in un secondo incontro che da ricevimento diventa sfogo, confessione, autocommiserazione, vuoto esistenziale, completo fallimento di chi si rende perfettamente conto di non poter essere più di alcun aiuto al suo prossimo. Tanto che il suo parrocchiano, sulla strada verso casa, si sparerà un colpo in testa, e nemmeno una moglie che sta scoprendo di essere vedova accetterà il conforto di quello che si sente ormai un pessimo pastore, condannato alla mediocrità umana, condannato al dubbio, condannato all’horror vacui di chi non ha né può più nulla.
Non è più il tempo delle allucinazioni mistiche di Karin in Come in uno specchio, e non è ancora quello dell’astrazione e dell’incomunicabilità nella lingua sconosciuta che pochi mesi dopo innerverà Il silenzio. Ma, pur senza avere l’aspetto definito di un ragno, c’è ancora un Dio-mostro a insidiare il protagonista, a demolirne la funzione, gli aspetti, lo stesso scopo di vita. Nella morte e nella sofferenza, nella malvagità e nell’egoismo dell’uomo, Dio non è più la risposta di Tomas, e anzi «se Dio non esistesse la vita avrebbe una spiegazione», acquisirebbe senso nelle sue iniquità, e la stessa morte assurgerebbe a un senso nuovo, di liberazione e di sollievo. Tomas si rende conto di essere inadeguato, inetto, sperduto, ignaro della natura umana, abbandonato nei suoi drammi esistenziali e nelle sue certezze ormai crollate. Vive quella stessa solitudine che fu del giovane sacerdote del Diario di un curato di campagna, altro straordinario capolavoro messo in scena qualche anno prima da Robert Bresson e fondamentale fonte di ispirazione per Bergman così come lo sarà più avanti per lo Scorsese di Taxi Driver, ma quella che era la malattia ignorata dal religioso bressoniano per tendere al misticismo, quel tumore che lo porterà via felice in barba alle sofferenze terrene perché in grazia di Dio, in Luci d’inverno sarà ribaltato dall’ateismo di Bergman in una mancanza materiale, personale, perché a volte la spiritualità non può bastare per superare gli affetti perduti, il crollo delle certezze di vita, la perdita di stabilità dell’uomo, essere fallibile e imperfetto. Non c’è più la «grazia» divina del curato di campagna, non c’è più il suo conforto nella certezza del trascendente, c’è solo il suo isolamento in mezzo alla gente, c’è solo il suo dolore ancestrale, c’è solo il suo calvario, la sua Via Crucis, la sua Passione.
Già, la Passione, proprio come quella di Cristo. «Dio, perché mi hai abbandonato?» si chiederà Tomas di fronte alla finestra, mentre cambia la luce e sembra quasi che il misticismo perduto possa rientrare dalle vetrate della chiesa. Ma sarà solo l’illusione di un momento, dopo il quale verrà ritrovato il corpo senza vita di Jonas Persson e con la sua morte affiorerà tutto il senso di fallimento di un Pastore che, anziché riuscire a trovare parole di conforto, aveva finito per aggiungere il proprio dolore a quello del proprio parrocchiano depresso, aveva finito per parlargli della propria perdita della Fede, della propria mancanza di speranza e di orizzonti, della propria sostanziale rinuncia alla vita, non più dono ma peso, tormento, condanna.
Nell’abissale e forse mai più raggiunta profondità di Ingmar Bergman, lo sfogo di Tomas diventa quasi una sorta di nulla osta al suicidio di Jonas e un inscalfibile monolito di sensi di colpa, e la stessa frase pronunciata da Gesù Cristo in croce rivela lo stesso senso di abbandono e scoramento provato dal religioso in crisi. Sarà Algot, custode della chiesa del paese vicino nella quale Tomas dovrà celebrare messa più tardi nel corso della giornata, a suggerire ed esplicare la metafora di Luci d’inverno, interpretando i Vangeli per la sofferenza fisica tutto sommato moderata della figura di Cristo mentre enormi furono le sue pene per la solitudine e per lo sconforto nel non potersi fidare di nessuno, nemmeno di Dio, proprio quando ne avrebbe avuto più bisogno. I discepoli sono scappati al momento del suo arresto, non hanno capito il significato dell’Ultima Cena dopo tanti anni passati insieme e ora lo rinnegano, mentre Dio tace, non parla, non interviene nemmeno mentre scorre il sangue di suo figlio, lasciandolo solo nel suo strazio, nel suo sconforto, nel suo atroce dubbio. Anche la figura di Gesù Cristo ha sofferto il silenzio di Dio, e avvolta nel silenzio di Dio, fra le braccia di una croce, ha esalato l’ultimo respiro. È stata la sua ultima e definitiva professione di Fede, è stato il suo sacrificio per fare la volontà del padre, è stata la sua sofferenza necessaria per la redenzione dell’uomo, o forse è stato il suo vacillare, il suo scoramento, il suo strazio, la sua umanità che travalica il divino. La sua Passione, in quelle quattro ore nel Getsemani, è la stessa, lunga più o meno lo stesso tempo, di Tomas, perché il dubbio fa parte della Fede, ne è un momento cruciale, ne è in un certo senso il cuore, il senso più intimo, quasi una necessità, o per lo meno un male necessario. Quello stesso male necessario su cui più volte ritorneranno Martin Scorsese e Paul Schrader, che con evidente e dichiarato debito nei confronti di Luci d’inverno nel 1988 porteranno in tandem sullo schermo L’ultima tentazione di Cristo e poi lo scorso anno, separatamente, Silence e lo straordinario First Reformed, figlio non solo spirituale del film di Bergman, al quale si rifà apertamente nella figura del sacerdote in crisi e in quella della donna che rimane al suo fianco, nel bisogno ancestrale d’amore, negato o abbracciato, e nelle riflessioni sulla Fede, sui suoi conflitti, sulla sua umana caducità.
È la consapevolezza, come dichiarerà lo stesso Ingmar Bergman, il vero inferno di Tomas, il rendersi conto di aver perso, insieme alla moglie, quella Fede che avrebbe dovuto accompagnarlo e sostenerlo, e di essere per questo ormai inutile e perso, solo nel suo ormai scomodo ruolo e nella sua vita senza più alcun senso, privo delle certezze più granitiche e fondanti. Con la morte dell’amata, è morta forse per sempre anche una parte di Tomas, quella che identificava Dio nell’amore, quella che riempiva una chiesa ormai deserta, quella che riempiva l’animo di un uomo e di un sacerdote. Tomas, nel suo scoramento, è ormai chiuso persino ai sentimenti, legato a Marta che non riesce in alcun modo ad amare, ormai disgustato e infastidito dalle sue premure, dalla sua abnegazione, dal suo attaccamento viscerale, dal suo amore sprecato. Marta, del resto, non ha mai creduto alla Fede di Tomas e per questo, da profonda atea, non ha mai vissuto come un peso la sua religiosità, tanto da metterla alla prova dimostrandone la fallibilità e la debolezza, con il disgusto dell’uomo di fronte a una piaga che ha bloccato le preghiere del religioso, quando ad essere ascoltate ed esaudite con la guarigione sono state paradossalmente proprio le preghiere di chi non ha mai creduto. Glielo ricorda in una lettera d’amore, genialmente messa in scena da Bergman facendola leggere direttamente a Ingrid Thulin con un indimenticabile e interminabile sguardo in macchina. Quasi non sbatte le palpebre, Marta/Ingrid, «perché non ha più senso chiudere gli occhi», mentre emergono quelle parole che non ha mai avuto il coraggio di dire a Tomas, parole di un affetto gridato in mezzo ai rantoli e ai sussurri a chi è ormai impermeabile ai sentimenti e pronto a calpestare quelli di Marta senza reticenze, con la crudeltà verbale di una risposta angosciata che non si può fermare nemmeno di fronte alle lacrime.
L’amore fra di loro non esiste, o per lo meno mai sarà ricambiato, eppure andrà avanti lo stesso, in qualche modo, per convenzione sociale, per convenienza, come estremo tentativo da parte di Tomas di nascondere a se stesso la sua solitudine, o forse come accettazione della propria condanna nell’ultimo e definitivo tormento. Tomas sa di non poter fare a meno di lei, sa di averne bisogno, sa che, fra le sue punizioni, c’è quella di dover rimanere accanto a una donna che non ama. E di dover continuare, come se nulla fosse, a celebrare la messa di fronte a un tempio vuoto, reso deserto dai suoi dubbi, dalla sua mancanza di entusiasmo, dalla sua mancanza di Fede. Le navate delle due chiese, uniche profondità di campo in una messa (in scena) di raffinate iconografie, di corposi dettagli, di smorfie quasi impercettibili, di ataviche tensioni, di espressivi primi piani e di sguardi dolenti, sono un orizzonte già chiuso, opprimente, che incombe sul volto contrito di Tomas e sulla sua ritualità portata avanti più per abitudine che per convinzione. Sull’altare maggiore, il bassorilievo di un re che sormonta il crocifisso già suggerisce l’uomo che emerge dalla sua religiosità, condannato a vivere il proprio calvario e a un finale aperto, enigmatico, per quella che in ogni caso è una sconfitta personale e morale. Di fronte a Tomas che si rivolge al «Dio degli eserciti» è rimasta solo Marta, l’agnostica, la materialista, colei che non ha mai creduto. Non è dato sapere se Tomas abbia recuperato la sua Fede, ma di certo dinanzi a lui non c’è più alcun fedele. Quasi come se nella chiesa vuota ci fosse lo stesso deserto della sua vita ormai incartapecorita dal dolore e dal dubbio esistenziale. Quasi come se il silenzio di Dio avesse inghiottito tutti nel gelo della neve, lo stesso gelo dell’anima di Tomas, «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». E così sia.
Info
La scheda di Luci d’inverno sul sito del Palazzo delle Esposizioni.
- Genere: drammatico
- Titolo originale: Nattvardsgästerna
- Paese/Anno: Svezia | 1963
- Regia: Ingmar Bergman
- Sceneggiatura: Ingmar Bergman
- Fotografia: Sven Nykvist
- Montaggio: Ulla Ryghe
- Interpreti: Allan Edwall, Max von Sydow, Bertha Sånnell, Christer Öhman, Eddie Axberg, Elsa Ebbesen, Gunnar Björnstrand, Gunnel Lindblom, Ingmari Hjort, Ingrid Thulin, Johan Olafs, Kolbjörn Knudsen, Lars-Olof Andersson, Lars-Owe Carlberg, Olof Thunberg, Stefan Larsson, Tor Borong
- Colonna sonora: Evald Andersson
- Produzione: Svensk Filmindustri
- Durata: 81'