Aurora

Aurora di Friedrich Wilhelm Murnau è, come recita il sottotitolo, la canzone di due esseri umani. Un poema lirico sull’abbandono e la riconquista, sulla tentazione come primo pericolo ma anche unico elemento in grado di restituire vita là dove è sopraggiunta la morte. Un’opera sublime, tra i massimi capolavori della storia del cinema. All’interno della rassegna Bergman 100, organizzata al Palazzo delle Esposizioni da Azienda Speciale Palaexpo, CSC-Cineteca Nazionale e La Farfalla sul Mirino.

Campestre

Sedotto da una giovane donna di città il giovane contadino Ansass tenta di uccidere la moglie Indre per fuggire con l’altra. Poi, pentito, non riesce a portare a termine il suo piano e chiede perdono partendo con la moglie per la città. Dopo aver trascorso insieme un pomeriggio da sogno e aver rinsaldato il loro legame, mentre si trovano su una barca diretti a casa, un temporale fa cadere la donna in acqua. Ogni ricerca è vana… [sinossi]

Scriveva Emily Dickinson: “A tutti è dovuto il mattino, ad alcuni la notte. A solo pochi eletti la luce dell’aurora”. In Adieu, contenuta all’interno di Una stagione all’inferno, Arthur Rimbaud incalza: “E all’aurora, armati di una ardente pazienza, entreremo nelle splendide città”. L’aurora è l’apparizione della luce, l’ultima fase del crepuscolo che prelude al giorno. Muore la notte, e con lei i suoi demoni. Moriva all’alba, all’aurora, all’apparire della luce, anche Nosferatu. Rinasce, con quel tremolio del sole ancora imberbe, la speranza, la vita in coppia del contadino protagonista e di sua moglie. Rinasce, mentre la donna che ha “attentato” alla felicità dei due è oramai lontana, dispersa nel buio, fuori dal quadro finale idilliaco. Presenza inevitabile in qualsiasi elenco dedicato ai migliori film della storia del cinema, Aurora segna l’esordio di Friedrich Wilhelm Murnau a Hollywood. Una trasvolata dall’altra parte dell’oceano Atlantico che è la stessa compiuta in quegli anni da Victor Sjöström, Ernst Lubitsch, perfino Sergej M. Ėjzenštejn – che verrà con grande rapidità rispedito indietro, nell’Unione Sovietica staliniana. L’Europa, ancora alle prese con i postumi della Prima Guerra Mondiale e in pieno ribollire, perde alcuni dei pezzi fondamentali della propria cultura novecentesca, che ritroveranno senso al sole della California, in una sorta di non-luogo in cui tutto è ancora concesso. Lontano dai venti di fascismo che hanno già investito l’Italia e di lì a poco si propagheranno in Germania – e in Spagna, e in Portogallo – il cinema preserva se stesso, tenero germoglio appena trentenne, e preserva la propria identità di racconto per immagini dell’umano, sull’umano e (spesso) con l’umano. In questo senso il percorso compiuto a Hollywood da Murnau acquista un valore ulteriore, anche superiore al semplice (si fa per dire) strapotere visionario della sua messa in scena. Nei tre film diretti negli Stati Uniti prima di morire prematuramente (il quarto, 4 Devils del 1928, è andato perduto), Murnau si concentra con una forza ancora maggiore rispetto alle opere tedesche sul tema del conflitto: in Aurora, e quindi in City Girl e Tabù, si narra di rapporti umani in crisi, di incapacità di accettare l’esistente e le sue regole. Regole borghesi, ma anche regole ancestrali – in Tabù –, e infine regole autoimposte.

Vive nella regola la coppia composta da marito e moglie. Vive in campagna, lontana da qualsiasi tumulto. Questo apparente idillio – solo formale, slegato dalla verità e attribuibile solo a un accordo matrimoniale – viene spezzato dall’intervento di una femme fatale ante litteram. È una donna di città senza nome (dopotutto anche la città non ha nome) quella interpretata da Margaret Livingston, una carriera quasi interamente spesa nell’epoca del muto; arriva, come i clangori della modernità, per perturbare. Per disturbare. Per eccitare lì dove non esiste più alcuna eccitazione. l’uomo cede alla domanda “Sei solo mio?”, che la donna gli pone nella notte. È solo suo? È di qualcuno? Quel contratto può essere spezzato, è ovvio, solo nel sangue. Come il cacciatore con Biancaneve, anche il marito deve condurre la moglie nel bosco – in questo caso verso uno specchio d’acqua – e ucciderla. Eliminarla per ritrovare la libertà. Anche chi nell’Europa post-bellica si sente vittima di un giogo plutocratico crede di dover trovare la libertà uccidendo la libertà di chi vive insieme a lui. L’atto della sopraffazione, che negli Stati Uniti ha le luci sfavillanti della metropoli e del Capitale e nella Vecchia Europa porta con sé il tanfo del nazionalsocialismo, è l’unica arma apparente nelle mani dell’uomo qualunque. Per questo l’uomo conduce la consorte in barca. La gita della morte. E lì, sull’imbarcazione, quando abbandona i remi per ghermire la moglie, l’uomo è davvero la controfigura di Nosferatu. È anche lui un non-morto. Ma è solo apparenza, perché l’uomo è vivo e può ancora provare quel senso di colpa che è precluso al vampiro. Ora che si è di nuovo a terra, con la donna che è fuggita in un campo lungo che sembra infinito, quasi come il piano desertico del western, con quell’orizzonte irraggiungibile e cui l’umanità è sempre protesa, ora c’è il tempo per la riconciliazione. Per la riscoperta.

Sullo specchio d’acqua, la superficie naturale che riflette la vera essenza di ogni cosa – l’uomo può specchiarsi, al contrario di Nosferatu – si rinasce. Un concetto dalle derive battesimali, è ovvio, ma che è anche la prima affermazione di potere dell’immagine del cinema sull’umano. Con l’umano. Anche lo schermo è specchio, anche lo schermo è superficie che rimanda immagini, sogni, passioni, desideri ardenti e forse persino omicidi. È lo schermo a poter restituire all’umanità quella base ideale filosofica che è venuta meno nel corso degli anni, martoriata sul campo di battaglia, distrutta nella dissoluzione – già nel 1927, con la cacciata degli oppositori alla linea di Stalin e Bucharin dal PCU(b) – dell’utopia bolscevica, dalle ritorsioni contro sindacalisti, socialisti e anarchici negli Stati Uniti. Lo schermo, il cinema, l’immagine, è l’ultima definitiva utopia, il sogno della stratificazione di un racconto binario, semplice, financo banale.
Qual è in fin dei conti la storia di Aurora, se non quella di un uomo diviso tra due donne, l’una chiara e l’altra scura, l’una rappresentante la luce, il giorno, la normalità, e l’altra cui sono assegnati i valori della notte, del buio e della difformità dal quotidiano? Un triangolo sentimentale che potrebbe apparire a uno sguardo rapido reazionario. La campagna vince contro la città. Il matrimonio vince contro la relazione adulterina. Il giorno vince contro la notte. Ma si tratta, per l’appunto, di una lettura semplicistica, che si ferma all’immagine e non cerca mai di sfondarla. È invece tutto concentrato sulla ramificazione dell’immagine, Aurora, che scavalca a pie’ pari tutti i concetti di avanguardia, modernità e classicismo per isolarsi in un luogo a parte, sconosciuto ai più e troppo poco frequentato. Nella Mecca del cinema, quel luogo che si è dato status di città nella città, di ultra-moderno nel moderno, di avant-pop nelle istanze di una società sempre più tesa al popolare, Murnau compone la sua lirica definitiva. Non per quello che racconta (o meglio, non solo), ma per come lo racconta. C’è un primitivismo delle immagini che ancora fa capolino, e in forma compiuta e consapevole, tra le pieghe di Aurora; a questo primitivismo fanno da contraltare tutte le tecniche possibili e immaginabili, e con loro tutte le ottiche, tutte le focali, tutti i possibili piani di ripresa. Rifuggendo da qualsiasi semplicismo, Murnau usa i congegni della macchina-cinema per costringere lo sguardo a non accontentarsi mai di ciò che è sullo schermo. Quel fascio di luce risplende come le prime luci dell’alba nel buio della sala, e come il sole salva le vite degli spettatori, perché porta con sé il linguaggio. La dialettica. Il senso della tecnica, e del moderno.

Non è la campagna a vincere come retroguardia di un mondo meccanizzato che va troppo veloce. È la campagna a vincere con un’umanità che sa ritrovarsi solo nelle mille luci metropolitane; nella città marito e moglie riscoprono l’amore reciproco, nella città, in quel rutilare incessante che è la prima e significativa certificazione di un Novecento “elettrico e veloce”. In un pandemonio di stili Murnau celebra la fragile meraviglia dell’umano, e per raggiungere l’obiettivo fa sfoggio di tutte le armi non convenzionali che il cinema gli mette a disposizione: tra sovrimpressioni, campi lunghi e lunghissimi, ardenti primi piani, carrelli, meravigliosi giochi di trasparenti e di montaggio (il celeberrimo immergersi tra le macchine dei due innamorati di nuovo innamorati che si ritrovano di colpo nel mezzo della natura per poi ripiombare nell’inferno d’asfalto cittadino), Murnau non va a ricercare l’avanguardia, né a comporre estatiche visioni estemporanee; il centro è sempre quell’umanità imbastardita, dispersa, incapace di riconoscere se stessa e i propri valori.
Aurora è un film muto che rifugge la parola scritta – pochi sono gli intratitoli, e utilizzati con una certa parsimonia – per concentrarsi sul dialogo moderno e fertile tra le immagini, sulle inferenze che il montaggio va a creare, sul senso dell’inquadratura. Luogo della purezza intima e della rinascita, il bucolico si dimostrerebbe sterile se non esistesse quella metropoli, e quel modo di riprenderla, di farla ruggire da altoparlanti inesistenti sulla testa degli spettatori. Solo nell’intrico del caos può trovare un nuovo senso la pace nell’altro non-luogo, quello della fattoria da cui vengono e a cui tornano i due sposi. Solo nella figura dell’amante e nel suo licenzioso incitare al moderno può trovare un suo senso la rigenerazione di un rapporto crepato, esausto, prossimo alla follia omicida.

Come è stato più volte scritto, Aurora è la risposta in forma di fiaba all’orrore di Nosferatu. È il suo controluce, la sua replica in forma distorta. La morfologia della fiaba, dopotutto, viene rispettata in modo quasi calligrafico da Murnau, che racconta un viaggio iniziatico, un percorso irto di ostacoli per ritrovare la propria Itaca. Un ritorno a casa (in)consapevole, che passa attraverso le forche caudine del Giano Bifronte del Capitale, con la sua ricchezza che è anche già vizio, e stortura, e mostruosità, ma non può far altro che ammaliare – e, a sua volta, salvare. Un ritorno a casa alla ricerca della moglie davvero ora perduta, forse morta annegata, forse giacente chissà dove. Un ritorno a casa che è il ritorno al desiderio di sopraffazione e omicidio, stavolta per vendicare l’esser stati sedotti. Un omicidio per purificare non se stessi, ma il proprio ego, per cancellare l’onta della propria debolezza, della propria mancanza di virtù. Un gesto forse ancor più infame del primo tentativo di omicidio, e a sua volta sventato: lì dall’acqua, qui dal sole sorgente. In quella luce dell’alba può sorgere un uomo nuovo? Questo è il quesito fondamentale che pone Murnau. Nel secolo della tecnica, che partorisce meraviglie come il cinematografo, si può trovare un senso più alto all’umano, lo si può finalmente aiutare a eregersi al di sopra della propria meschinità? La risposta, tutta filmica, è sì. Perché il marito e la moglie si ritrovano, grazie allo stupeficio metropolitano – stiletta ben diretta nel petto dei fautori di una restaurazione dell’anti-moderno che troverà linfa nei fascismi di tutto il mondo – e iniziano una nuova vita. In fin dei conti in città si sono anche risposati senza bisogno di un prete… Ma la risposta reale alla domanda di Murnau è ovviamente e tragicamente no. Lo saprà la Germania, patria del regista, un lustro e poco più in là negli anni, quando Adolf Hitler verrà nominato cancelliere. Lo saprà poi il resto dell’Europa – e un’anticipazione l’ha avuta l’Italia mussoliniana – e del mondo, dal Giappone al Brasile, dagli Stati Uniti all’URSS, dal Portogallo all’Africa ancora colonizzata, e mai liberata. L’utopia di Murnau crollerà in mille pezzi, lasciando questo e un altro manipolo di capolavori da decostruire e ricostruire, in un’eterna palingenesi del senso del mondo. In una lotta senza tregua alle tenebre del tempo e della mente. La morte, avvenuta in un incidente stradale nel marzo del 1931 (l’automobile del regista, guidata dal quattordicenne filippino Garcia Stevenson, suo amante, si schiantò contro un camion), evitò a Murnau di conoscere il tragico destino della Germania, e del mondo. Quel destino che aveva già preconizzato in Nosferatu, ma che non si dissolse con tanta semplicità alle luci dell’alba. Si racconta che quasi nessuno, a Hollywood, si presentò alla veglia funebre. L’orazione funebre, in Germania, la recitò Fritz Lang, che il giorno della presa del potere da parte di Hitler scappò di notte in treno per rifugiarsi in Francia, e poi negli Stati Uniti. Una nuova diaspora era iniziata.

Info
Un trailer di Aurora.
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