Ready Player One
di Steven Spielberg
Ready Player One segna il ritorno di Steven Spielberg al cinema come luna park dell’esistente, e mette il punto sulla deriva citazionista degli anni Ottanta che occupa un ruolo non indifferente dello scacchiere produttivo hollywoodiano di questi anni. Vita come cinema e cinema come riciclo di una vita non più vissuta, filtrata attraverso l’occhio nostalgico di una generazione auto-reclusa che comanda e comanderà il mondo. Sublime gioco ottico rotante, Ready Player One è intrattenimento ad altissimi livelli che non disperde mai il suo potenziale teorico.
The (a)social network
Nel 2045 la terra è diventata un luogo inquinato, funestato da guerre, povertà e crisi energetica. Gli abitanti versano in condizioni precarie, stipati in grossi container spogli, senz’altra evasione che il nostalgico mondo virtuale di OASIS. L’universo ispirato ai ruggenti anni ottanta, creato dal milionario James Donovan Halliday, conta milioni di login al giorno per la facilità d’accesso (sono sufficienti un visore e un paio di guanti aptici) e gli scenari iperrealistici in cui sfuggire al mondo tetro e pericoloso. La notizia della morte di Halliday arriva insieme con l’ultima, stimolante sfida lanciata dall’eccentrico creatore: una caccia al tesoro da miliardi di dollari. L’adolescente Wade, da sempre affascinato dalla figura del programmatore, ha collezionato informazioni sulla sua vita e il suo lavoro. Attraverso l’avatar Parzival proverà ad aggiudicarsi il premio in palio, contro i potenti nemici di una malvagia multinazionale (la IOI) e un nutrito gruppo di concorrenti senza scrupoli. [sinossi]
Ready Player One inizia con un elaborato movimento di macchina a seguire la “discesa” di Wade Watts, alias Parzival, attraverso la catasta di baracche costruite una sopra l’altra – versione bidonville dell’alveare hongkonghese – che rappresenta la realtà. In ognuno degli squallidi abitacoli, poco più di arruginiti container dotati di finestre, c’è qualcuno che agita i pugni nel vuoto, con un visore davanti agli occhi. Si muovono in maniera disarticolata, gli esseri umani, da soli in uno spazio neutro e uguale a tutti gli altri, agitandosi come se stessero seguendo i dettami di una lezione di fitness. Menano fendenti, si abbassano per evitare colpi invisibili. Già, invisibili. È tutto lì, il “reale” del 2045, anno in cui è ambientato il film. È invisibile agli occhi, non è percepito come spazio condiviso. La rete sociale ha vinto, ha surclassato l’esistente, ha smaterializzato il concetto stesso di società. Non si vive all’aria aperta, per di più appestata e inquinata oltre ogni limite. Un tempo si sognavano atolli lontani, o la “nuovissima Zelanda” (prendendo in prestito le parole a Mogol), per sfuggire alla grigia mediocrità del quotidiano; solo la zia Alice, un relitto del passato che non sembra neanche lontanamente interessato al gioco dei giochi, quello inventato dal “genio” James Donovan Halliday, conserva una cartolina di chissà quale meraviglia esotica in cucina, con il sogno di potersi lasciare prima o poi alle spalle quell’inferno di catorci incasellati uno sopra l’altro. La piramide disumana dei sottoproletari. Quei sottoproletari che hanno accantonato qualsivoglia rapporto con il tangibile per rifugiarsi nella patria del possibile, quella terra espansa che è OASIS, luogo-non-luogo dove si cambia aspetto con un batter di ciglia, e si può fingere di apparire come si vuole, giganteschi e orridi o candide fanciulle. Un luogo in cui l’immaginario ha vinto, e coordina le consuetudini sociali: nel mondo nerdizzato, in cui chiunque è chiuso nella sua stanza con un visore davanti agli occhi, non esistono barriere evidenti, e la scala sociale può essere sovvertita. Ma è solo apparenza.
In molti, fin dall’annuncio dell’inizio delle riprese di Ready Player One sotto l’egida di Steven Spielberg – il film è stato terminato prima di The Post, che pure è uscito con qualche mese di anticipo per tirare la volata ai premi Oscar; un dittico a prima vista sbilenco che riporta alla mente il 1993 in cui videro la luce a pochi mesi di distanza Schindler’s List e Jurassic Park –, si sono affrettati a far notare come sarebbe stato pressoché impossibile rimanere fedeli alla pagina scritta. Una polemica che si rinnova a ogni adattamento “celebre”, e che in quest’occasione più che in altre lascia il tempo che trova: nella storia scritta da Ernest Cline (anche sceneggiatore insieme a Zak Penn, già autore nel 1993 dello script di Last Action Hero di John McTiernan, in qualche modo progenitore di Ready Player One) è già nascosto il germe della visione, la necessità di vedere ciò che non è considerato “vero” solo in quanto immateriale. Sotto questo punto di vista Ready Player One si pone come prosecutore di quella riflessione del cinema e della computer grafica come detronizzazione del tangibile che era già alla base del troppo in fretta dimenticato Avatar di James Cameron. Lì si sceglieva un avatar, un’estensione immaginifica di sé, per potersi connettere a una realtà altra, aliena, sconosciuta e con la quale era giusto – e per la grande industria opportuno – interagire; in OASIS si sceglie un avatar per poter evadere da una realtà che si è alienata. Si sceglie un avatar non per scoprire una nuova razza, ma per riscoprire il proprio livello di umanità. Il grande gioco ordito come una fitta trama di rimandi e (auto)citazioni da Halliday, un po’ messia un po’ Steve Jobs da Nintendo 64, è una corsa più pazza d’America per persone che sono cresciute senza conoscere altro al di fuori di se stesse. Quell’ammasso di citazioni che mandano in sollucchero il lato oscuro nerd del cervello cinefilo e videoludico non sono inerte mare nel quale è dolce naufragar, ma rappresentano un’àncora di salvezza. Un gancio a cui abbarbicarsi non solo per ritrovare un senso nella realtà – anche aumentata, anche riplasmata da chi vi partecipa – ma anche per non lasciarsi sopraffare dal potere egemonico della IOI, ferale multinazionale che vorrebbe vincere la gara ideata da Halliday per acquisire il potere assoluto.
Nel suo grigiore assoluto il villain Nolan Sorrento interpretato da Ben Mendelsohn non saprebbe neanche capire che Ridgemont High e Faber College sono citazioni da Fuori di testa di Amy Heckerling e Animal House di John Landis, e nulla hanno a che vedere con l’universo cinematografico di John Hughes; a salvarlo dall’errore – si fa per dire – sono solo le persone del suo team che gli suggeriscono la risposta giusta nell’orecchio. Esiste una creazione dell’immagine e un suo continuo sfruttamento, e le due parti hanno poco in comune. Da un lato c’è il demiurgo Halliday, dall’altro una macchina industriale che sa solo valutare benefici e profitti, e si muove in perfetta sintonia con un sistema marcio, che ha abbandonato l’umano ben prima di scendere a patti con il virtuale.
Sarà anche la messa in immagini di un best seller internazionale, Ready Player One, ma si adatta alla perfezione a una riflessione quanto mai urgente sulla gestione dell’ingranaggio industriale dell’immaginario: Spielberg, che come regista e come produttore ha contribuito in modo essenziale a forgiare il pubblico degli e negli anni Ottanta del secolo scorso, mette il punto sulla degenerazione sempre più artefatta ed evidente nella sua finzione che riguarda il revival “ottantesco”. Lo fa smarcandosi a ogni pie’ sospinto da qualsivoglia semplificazione del discorso, evitando il gioco citazionista fine a se stesso, scrollandosi di dosso i rimasugli di un ricalco del passato sempre più stanco, vuoto di senso e di emozioni. In un panorama asettico in cui i blockbuster a stelle e strisce si somigliano tutti – a partire dalla concezione di gran parte dei cine-comic –, Spielberg intraprende una via classica anche lavorando su quell’evento che frantumò le ultime vestigia del classico, la rivoluzione videoludica. La sua rivoluzione giovanile, con eserciti di avatar comandati da bimbi e adolescenti che mandano all’aria i piani di conquista delle grandi corporazioni, è condotta attraverso una gestione del luna park spettacolare che ha ben poco di quotidiano, di contemporaneo, forse persino di moderno.
Lo dimostrano le tre sequenze cardine attorno alle quali ruota l’intero film, e che da sole meriterebbero un approfondimento a parte, uno studio saggistico sul senso della messa in scena. Meglio: della ricostruzione di un senso collettivo della messa in scena. La prima sequenza è anche la prima sfida lanciata da Halliday per incoronare colui o colei che potrà godere della sua sterminata eredità: una corsa con vari mezzi di locomozione per le strade e le sopraelevate di un’immaginaria conurbazione che tanto somiglia a New York. Gli ostacoli? Un po’ di tutto, da enormi sfere d’acciaio a spuntoni che bucano d’improvviso l’asfalto, fino a un tirannosauro e a King Kong, il nemico finale che sembra impossibile sconfiggere. Spielberg utilizza uno stile solo all’apparenza frenetico, che in realtà predilige eleganti movimenti in piano sequenza a seguire, o a tratti ad anticipare, la DeLorean guidata da Parzifal e la moto di Art3mis, rispettivamente estrapolate da Ritorno al futuro e Akira; ne viene fuori una sequenza d’azione al cardiopalma, che lascia letteralmente senza fiato lo spettatore che si agita sulla poltroncina, ritrova una propria naiveté scopica, si riscopre neofita dell’immagine, vive nel film/gioco senza sovrastrutture citazioniste. L’immaginario, ridotta a scatola nostalgica per esigenze commerciali nell’ultimo decennio, riscopre la propria vitalità, la propria essenza pulsante, il proprio hic et nunc.
La seconda sequenza è quella in cui Parzifal e Art3mis si recano alla discoteca fittizia creata su OASIS da Halliday per trovare una risposta ai quesiti riguardanti la vita sentimentale del genio dell’informatica: tra teen-movie e lontani vagheggi dell’incipit di Indiana Jones e il tempio maledetto il tempo si sospende, travalicando i confini tra reale e virtuale (il giocatore Wade si eccita mentre viene sfiorato da Art3mis, anche se è solo nella sua postazione arroccata in una sorta di garage malandato) e flirtando anche con il noir. Ma è la terza sequenza quella su cui inevitabilmente si concentreranno i pensieri della maggior parte degli spettatori cinefili. Per trovare un altro degli indizi indispensabili a proseguire nella sfida gli eroi – diventati ora un piccolo nucleo di cinque ragazzi/avatar – devono entrare nella scenografia, e nel senso, di uno dei film preferiti da Halliday: Shining di Stanley Kubrick. È il cinema di Spielberg, come già in A.I., a scivolare nella mastodontica poetica kubrickiana, cercando nel dedalo non solo di non perdersi, ma di ritrovarsi, di ricrearsi, di rintracciare nuove prospettive poetiche. Tra i corridoi dell’Overlook risorto al computer non si consuma solo un amplesso cinefilo tra due dei più potenti creatori di visioni che il cinema hollywoodiano possa annoverare, ma si enuncia una verità troppo spesso sottostimata: è lo spazio a ridefinire i confini dello sguardo spettatoriale. Basta il disegno sul pavimento dell’albergo, o quel verde tra l’ospedaliero e il licenzioso del bagno della stanza 237, per ingabbiare la mente cinefila e costringerla in un percorso già tracciato. In quell’incubo sognato trentotto anni fa c’è la vita eterna e incrollabile non solo dell’immagine, ma della sua necessità di essere condivisa, rivissuta. Il cinema non va visto, va ri-visto, ridisegnato ogni volta, costretto a nuove fughe prospettiche, a nuove elefantiasi, a nuove sfide che non possono fingere che non esista il passato ma non devono mai ridurlo a pura reliquia, oggetto da possedere e posizionare sul bordo del caminetto per ricordarsi, nelle fredde notti invernali, di essere stati vivi.
Il cinema di Steven Spielberg è vivo, lo è sempre stato, lo sarà per sempre. È vivo come realtà tangibile e come suo succedaneo immateriale. Per questo la citazione in Ready Player One non è solo superflua, ma anche scomoda: la citazione prevede che ciò che è stato fruito sia sempre identico a sé, non abbia più vita da espandere. Gli omaggi presenti nel film, che si tratti di un Freddy Kruger che muore all’improvviso o di Gundam, presuppongono al contrario che tutto sia ancora in fieri, esistente e per questo destinato a far implodere il sistema imperante, che immagina copie su copie da poter vendere al prezzo migliore a seconda delle disponibilità economiche del compratore. Come Parzifal che comprende di dover abbandonare la sua posizione solitaria per ritrovare un rapporto collettivo con il mondo che lo circonda, così la realtà virtuale non può prendere il posto di un confronto carnale, materiale, dialettico perché palpabile. Perché la visione ha davvero senso se è collettiva, condivisa, se crea relazioni umane, le uniche in grado di portare al collasso la macchina, se lo si vuole. Come Indiana Jones di fronte al Sacro Graal, anche Parzifal deve dimostrare di saper vedere la realtà delle cose al di là della loro luccicante “falsità” per poter davvero vincere la sfida, per meritare quell’eredità che non gestirà comunque da solo – pur non collettivizzandola: forse era pretendere troppo. Forse ultimo tra i grandi di Hollywwod, Spielberg crede nel popolo, e quindi crede nel cinema. Nell’immagine, e nel suo infinito gioco che gioco non è mai fino in fondo. E che si può affrontare, come l’Adventure ideato nel 1979 per Atari da Warren Robinett, anche solo per scovare l’easter egg che può apparire insulso o inutile, ma è in fin dei conti il senso di ogni cosa. E non solo nel mondo dei videogiochi. Un giorno di marzo del 2018 Steven Spielberg tornò a dirigere un prodotto in grado di connettersi con il blockbuster contemporaneo come a conti fatti non accadeva dal 2005, anno de La guerra dei mondi (e di Munich, a proposito di dittici solo a uno sguardo disattento bizzarri), e dimostrò la differenza tra originale e copia, e tra realtà e avatar.
Info
Il trailer di Ready Player One.
- Genere: action, avventura, fantascienza
- Titolo originale: Ready Player One
- Paese/Anno: USA | 2018
- Regia: Steven Spielberg
- Sceneggiatura: Ernest Cline, Zak Penn
- Fotografia: Janusz Kaminski
- Montaggio: Michael Kahn, Sarah Broshar
- Interpreti: Alfred Hsing, Amanda LaCount, Amy Clare Beales, Armani Jackson, Asan N'Jie, Ben Mendelsohn , Britain Dalton, Cara Pifko, Carter Hastings, Daniel Eghan, Daniel Tuite, Daniel Zolghadri, David Barrera, Elisa Perry, Fran Targ, Gem Refoufi, Georgie Farmer, Hannah John-Kamen, Jacob Bertrand, Jacqueline Ramnarine, Jaeden Bettencourt, Joe Hurst, Jorge Leon Martinez, Juan Carlos Cantu, Julia Nickson, Julian Edwards, Kae Alexander, Kathryn Wilder, Kiera Bell, Kit Connor, Laurence Spellman, Lena Waithe, Letitia Wright, Lynne Wilmot, Mandy June Turpin, Mark Rylance, Mckenna Grace, Michael Wildman, Nasir Jama, Neet Mohan, Olivia Cooke |, Philip Zhao, Ralph Ineson, Robert Gilbert, Rona Morison, Sarah Sharman, Sid Sagar, Simon Pegg, Susan Lynch, Sydney Brower, T.J. Miller, Tye Sheridan, Violet McGraw, Win Morisaki
- Colonna sonora: Alan Silvestri
- Produzione: Amblin Entertainment, De Line Pictures, DreamWorks, Farah Films & Management, Random House Films, RatPac-Dune Entertainment, Reliance Entertainment, Village Roadshow Pictures, Warner Bros.
- Distribuzione: Warner Bros.
- Durata: 140'
- Data di uscita: 28/03/2018

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