Tampopo

Tampopo

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Presentato tra i classici restaurati del Far East Film Festival 20, Tampopo è un caposaldo della commedia giapponese, il capolavoro del geniale regista Jūzō Itami, uno dei più bei film sulla gastronomia, un saggio di cucina e cultura giapponesi.

Il brodo dashi primordiale

Goro, un camionista, si ferma in un piccolo locale dove la proprietaria, Tampopo, si affanna per tirare avanti. La donna, cuoca mediocre, gli chiede una mano a salvare la locanda. Goro decide di aiutarla avvalendosi dell’aiuto di un vecchio esperto di ramen. In poco tempo l’attività comincia a rifiorire e Tampopo riesce a carpire i segreti per cucinare un ottimo ramen diventando una cuoca provetta… [sinossi]

Jūzō Itami è stato il più importante regista giapponese di commedie. Figlio di Mansaku Itami, uno dei padri del cinema muto nipponico, con una carriera di dieci film interrotta bruscamente per la sua prematura morte, avvenuta in circostanze mai chiarite il 20 dicembre 1997. Frettolosamente archiviata come suicidio, ipotesi poco credibile visto che il regista stava toccando temi scottanti come i rapporti occulti tra politica, criminalità organizzata e sette religiose, e visto che già aveva già subito un attentato della yakuza in cui venne sfregiato. Il cinema di Itami è un cinema sensoriale che abbraccia e comprende tutti gli aspetti della vita, il cibo, la sessualità, la nascita, la morte, comprendendo anche elementi sgradevoli come l’ascesso dentale maleodorante, presentandosi sotto forma di commedia capace di ibridarsi con generi diversi, la detective story, il western, ecc., ed esprimendo un concentrato di cultura e filosofia nipponiche. Tampopo è il suo film più famoso che ebbe addirittura una distribuzione italiana 4 anni dopo, nel 1989, la sua uscita in Giappone.

Tampopo si apre con due linee narrative che procederanno in parallelo continuamente interrotte da sketch a tema gastronomico, con la camera che si muove a seguire i personaggi raccordando le varie situazioni, spesso situate in luoghi adiacenti. Un gangster elegante con cappello e giacca bianchi, che sembra uscire dal cinema di Jean-Pierre Melville, si trova tra il pubblico di un cinema prima della proiezione, con la sua bellissima amante, con la quale si esibirà in duetti erotici nel corso del film. L’uomo ci guarda e si rivolge a noi in un gioco a specchio metacinematografico, sancisce la sacralità della proiezione cinematografica riprendendo uno spettatore che fa rumore aprendo un sacchetto di patatine al curry. Più avanti nel film si esalterà al contrario la rumorosità del mangiare in modo rustico contro il bon ton occidentale, ma qui la contestazione riguarda anche il junk food oltre che il disturbo in sala. Il gangster yakuza del resto ha un tavolino imbandito con cibi pregiati. Parte il film, quello cui assistono gli spettatori in sala, con il titolo “Tampopo” in una sequenza in bianco e nero, la storia del camionista Goro, interpretato dall’attore feticcio di Itami Tsutomu Yamazaki, che diventerà il sensei, il maestro nell’arte di preparare il vero ramen, di Tampopo, Nobuko Miyamoto, la moglie del regista protagonista di tutti i suoi film. Ma ancora Itami usa una falsa partenza, la scena in cui il vecchio spiega la ritualità di mangiare il ramen, fino ad arrivare a scusarsi con il maiale e a salutarlo con un arrivederci, si rivela un racconto letto dai camionisti che bollano come stupidaggine la sentenza del vecchio. In realtà Tampopo è proprio questo, il cibo come continuo crocevia di sessualità e morte, come paradigma delle funzioni corporee, come la linfa, il sugo della vita.

Sono state contate 32 scene di cibo nel film, di piatti diversi. Tra queste 11 sono rappresentate da noodle, ivi compresa quella dei corrispettivi occidentali, ovvero gli spaghetti italiani. Il ramen è un piatto di derivazione cinese, ormai giapponesizzato secondo quel tipico processo di distillazione culturale della sensibilità nipponica, che prende, adatta e ‘nipponizza’ elementi di altre culture. Nel caso della cucina l’esempio più importante è quello del tempura, che deriva dalla frittura dei missionari portoghesi. Solo tre pasti in Tampopo sono invece a base di riso, ingrediente autoctono giapponese, ma proprio uno di questi, l’omeraisu, la frittata ripiena di riso, già dal nome, che deriva da una traslitterazione (“omelette” più “rice”) evidenzia la sua derivazione dalla cucina occidentale secondo lo stesso meccanismo di cui sopra. La cucina occidentale è associata alle gerarchie alte nella scala sociale, alla esibizione di eleganza, su cui Itami fa una satira pungente. Nella scena in cui un’elegante signora, interpretata dalla ozuiana Mariko Okada, tiene un corso sul bon ton degli spaghetti, mettendo in guardia dal rischio rumori disdicevoli, ma viene subito contraddetta da un concerto di versi di risucchio, che partono proprio da un avventore occidentale. C’è poi il momento in cui un gruppo di colleghi d’ufficio va a un ristorante francese, e solo l’impiegato di rango più basso, bullizzato dai colleghi, si rivela quale il vero intenditore di nouvelle cuisine. E infine la scena degli homeless che si rivelano raffinatissimi gastronomi e sommelier, sciorninando e decantando le più esclusive etichette di vini francesi. La gastronomia è cultura, e in quanto tale dovrebbe democraticamente accessibile. Itami si fa beffe di quella subcultura trendy ‘gurume’-gourmet che ormai spopola anche da noi. Del resto il sensei del film è un semplice camionista, la cucina appartiene alla tradizione e si tramanda in famiglia.

Nella gastronomia giapponese compare in alcuni casi il concetto di morte, retaggio di una cultura violenta finanche a livello geologico nella sua sismicità. Il fugu, dal velenoso pesce palla, che deve essere tagliato al punto giusto. Il rischio può esserci anche nella preparazione di ingredienti come in quella del mochi, la pasta di riso ottenuta con un martello dal lavoro di due persone che devono muoversi in modo coordinato, per non prendersi una martellata. Una delle portate di Tampopo è l’odori ebi, il gamberetto danzante che viene mangiato vivo, mentre si muove, imbevuto di sake. Portata che viene usata in chiave erotica dal gangster sulla pancia della sua amante. Eros e tanathos ancora una volta si incrociano. Mentre il connubio tra sesso e cibo vede scene magistrali come quella del passaggio del tuorlo d’uovo (ancora un simbolo di nascita) di bocca in bocca, o quello dell’ostrica su cui cade la goccia di sangue, offerta da una giovanissima ama, le pescatrici di perle che hanno un ruolo chiave nell’immaginario erotico dei giapponesi, come si vede per esempio nel film Cinque donne intorno a Utamaro di Kenji Mizoguchi. Sembra probabile che il film di grande successo 9 settimane e ½, uscito l’anno successivo di Tampopo, possa essersi ispirato a quest’ultimo nelle scene di sesso e cibo seppure decisamente più povere e sciatte in chiave patinata anni ’80. La morte e la sessualità compaiono varie volte in Tampopo: la madre che cucina l’ultimo pasto per la famiglia prima di morire, il gangster che in punto di morte sogna la carne pregiata di cinghiale. E l’erotismo passa per situazioni rozze e genuine come quella della biancheria intima di Goro che Tampopo mette a lavare. E il film si conclude con la bellissima scena, del tutto svincolata da tutto il resto, di un allattamento, ancora la nascita e il nutrimento.

Tampopo è un film di grande libertà espressiva, svincolato da qualsiasi canone o cliché di genere. Itami presenta una tavola imbandita che è fatta anche di cinema. Dove gli ingredienti sono i vari generi mescolati con disinvoltura. Lo yakuza eiga, il ‘noodle western’, lo schema di apprendimento tipico dei film di arti marziali, il seishin. E poi la sequenza dell’homeless che prepara l’omeraisu, già citata prima, costruita con ritmo e gag da cinema muto. Le dissolvenze a cerchio. E come mostra l’incipit di Tampopo, siamo sempre all’interno di un film.

Info
Il trailer di Tampopo.
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