Dead Souls
di Wang Bing
Dead Souls è il nuovo fluviale documentario di Wang Bing, che in otto ore e un quarto torna a lavorare sulla memoria di uno dei momenti più bui dell’intera storia cinese contemporanea, la deportazione nei campi di rieducazione dei cosiddetti controrivoluzionari durante il “Grande balzo in avanti”, la politica di riforma agraria voluta da Mao Zedong. Un’opera documentale abnorme, che minuto dopo minuto supera le secche della mera testimonianza per acquisire i contorni di un affresco umano sul crollo di un ideale sotto il peso delle storture del sistema. Tra le Séances spéciales a Cannes.
Un mucchietto di ossa
Nella provincia di Gansu, nella Cina nord-occidentale, le ossa di innumerevoli prigionieri morti di fame da oltre sessant’anni giacciono nel deserto di Gobi. Considerati d’ultra-destra durante la campagna politica del 1957, sono morti nei campi di rieducazione di Jiabiangou e di Mingshui. Il film ci propone di andare a incontrare i sopravvissuti per comprendere chi fossero questi sconosciuti, le fatiche hanno dovuto affrontare, e il destino cui sono andati incontro… [sinossi]
Il valore di Dead Souls, fluviale opera di Wang Bing presentata tra le Séances spéciales al Festival di Cannes, appare a prima vista soprattutto documentale, ed è da questa considerazione che si dovrebbe partire per cercare di analizzare il materiale assemblato dal cineasta cinese. Strutturato quasi interamente su una serie di interviste frontali – fanno eccezione un paio di segmenti sui quali si tornerà più avanti – e suddiviso in due metà intitolate Mingshui I e Mingshui II, il nuovo documentario di wang spinge la mente cinefila indietro di quasi un decennio, quando nel 2010 la Mostra di Venezia sotto l’egida di Marco Müller ospitò in concorso come film-sorpresa (anche per non creare attriti con le autorità cinesi) The Ditch, prima e finora unica incursione nel racconto di finzione per Wang. Finzione molto relativa, visto e considerato che The Ditch, tratto dal romanzo Zaijian, Jiabiangou (“Arrivederci, Jiabiangou”) di Yang Xianhui, è il racconto scarnificato e privato di qualsiasi scaturigine spettacolare della vita ai limiti dell’umano cui furono costretti nei campi di “rieducazione” i cittadini accusati di essere di destra. Sono gli anni del cosiddetto Grande balzo in avanti, la nuova politica agraria promossa da Mao Zedong. L’opinione non allineata è considerata controrivoluzionaria, i colpevoli sono costretti a fare autocritica. Il dogma trionfa.
Wang con The Ditch – rimasto ignorato dalla giuria presieduta da Quentin Tarantino, che si orientò per i premi in direzione di Somewhere, Essential Killing e Balada triste de trompeta – ebbe il coraggio di riprendere una pagina di tragica storia non solo rimossa, ma da molti completamente ignorata. Un genocidio interno metà scientifico metà casuale, programmatica pulizia del dissenso basata su un’interpretazione criminale del concetto marxista di dialettica.
Le otto ore e un quarto di Dead Souls, durata monstre che riporta idealmente Wang ai tempi delle nove ore de Il distretto di Tiexi, rappresentano in qualche modo le tappe prima di avvicinamento e quindi di distanziamento da The Ditch. Il materiale montato in Dead Souls infatti è stato girato nel corso di dodici anni, tra il 2005 e il 2017, e presenta in maniera evidente una natura quantomeno duplice. La prima metà, le prime quattro ore, sono desunte dalla grande mole di materiale che Wang girò per cercare di documentarsi sulle condizioni di vita ai limiti del possibile, e ben oltre, nel deserto di Gobi. Passando di sopravvissuto in sopravvissuto, Wang inevitabilmente moltiplica le testimonianze, molto spesso in grado di aggiungere solo pochi dettagli rispetto a quelle che l’hanno appena preceduta. Tolta l’individualità all’umano, trasformato in carne utilizzabile fino al suo fisico deterioramento, nel campo di Mingshui ogni situazione umana appare identica a un’altra: la sempre più tragica mancanza di sostentamento e nutrimento, le malattie, l’impossibilità di avere un letto dovendone improvvisare uno nelle buche nel terreno, l’incapacità di raccontare nelle lettere la propria condizione. Una disperazione muta, che coloro che non ce l’hanno fatta – la stragrande maggioranza dei deportati – hanno portato con loro in tombe appena raffazzonate, e che a distanza di sessant’anni portano a galla gli scheletri pezzo per pezzo, osso dopo osso.
Questa reiterazione dei patimenti subiti, che ogni sopravvissuto porta con sé ben racchiusi nella memoria e sulla pelle, bombarda lo spettatore da un lato e dall’altro lo trattiene attonito, immobile come quell’inquadratura frontale che non ha fronzoli, e non cerca altro al di là della mera memoria storica. Se la prima metà, come si accennava dianzi, rappresenta una sorta di studio e di documentazione per poter mettere in scena una finzione che non smentisca la verità dei fatti, la seconda metà – che racchiude interviste più recenti – svela il reale intento di Wang Bing. Il racconto da documentario (nel senso più letterale del termine) si incarna via via in una tappa di un percorso di riappropriazione del proprio dolore, che lo Stato ha reso impossibile ed esclusivamente privato a coloro che sono sopravvissuti. Attraverso il mezzo cinematografico, grazie al medium di una videocamera, i sopravvissuti sono ora nuovamente umani, in grado di portare con loro un carico di sentimenti di fronte al quale non si può provare a creare argini di resistenza.
Il cinema come essenziale memoria di qualcosa che si vorrebbe far scomparire dal tessuto sociale – e con metronomica precisione Wang informa tramite cartelli il pubblico delle date di decesso dei vari testimoni che ha raggiunto in giro per la Cina nel corso degli anni – ma anche come mezzo per trasmettere l’umano, per creare empatia, per ritrovare quella capacità di soffrire insieme ai nostri simili, comprenderne il dolore, trasformarlo da qualcosa di privato a un atto collettivo.
Sempre rigorosamente incollato ai volti dei suoi protagonisti – e l’ultima intervista, alla moglie di un uomo che al contrario degli altri testimoni non ce l’ha fatta a superare i due anni di prigionia – Wang evade essenzialmente solo in tre occasioni: per mostrare il funerale di uno dei sopravvissuti, morto ottuagenario, e la sua faticosa sepoltura; e in due occasioni distinte per recarsi in loco, in quella striscia di deserto di Gobi dove migliaia di esseri umani furono mandate a morire di fame e di stenti, a rintracciare le loro ossa senza nome né memoria. Destinate a diventare cenere una volta per tutte. Un luogo in cui un pastore ancora si ostina a vivere, e con lui un mucchietto di famiglie, per trovare sostentamento da una natura ostile. Ma mai ostile quanto l’uomo, e lo Stato.
Info
La scheda di Dead Souls sul sito del Festival di Cannes.
- Genere: documentario
- Titolo originale: Les Âmes mortes
- Paese/Anno: Francia, Svizzera | 2018
- Regia: Wang Bing
- Sceneggiatura: Wang Bing
- Fotografia: Shan Xiaohui, Wang Bing, Yang Song
- Montaggio: Catherine Rascon
- Produzione: Les Film D'Ici
- Durata: 496'