Rafiki

Rafiki

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Opera censurata in patria, Rafiki della kenyota Wanuri Kahiu è un coraggioso atto politico di rivendicazione LGBT. Inevitabilmente prevedibile nel suo svolgimento, come qualsiasi storia che narra l’universale e tragica difficoltà del vivere alla luce del sole. A Cannes 2018, per Un certain regard.

Nell’ombra, nella luce

Kenya, oggi. Ragazze alle soglie della vita, Kena e Ziki s’innamorano e si confrontano con la loro diversità di orientamento affettivo, inaccettabile per la collettività locale. Mentre si svolge la campagna per le elezioni locali, le due ragazze vedono crescere sempre più la loro passione. Combattute tra visibilità e paura delle ritorsioni, a seguito di una rete di pettegolezzi vengono scoperte e duramente punite… [sinossi]

C’è almeno un tema, nel cinema come in qualsiasi altra forma d’arte, che rasenta praticamente l’universalità: l’omofobia. In versione storica o moderna, l’odio per il diverso per orientamento affettivo riguarda e ha riguardato l’essere umano a ogni latitudine, tanto da annullare in un attimo qualsiasi tentazione di relativizzazione culturale. Presentato in Un certain regard al Festival di Cannes 2018, Rafiki di Wanuri Kahiu arriva buon ultimo (ma sicuramente non ultimo) a rinfrescare la memoria al mondo intero, ché se l’Occidente può fregiarsi di aver conquistato diritti civili, pacifica convivenza e accettazione per la comunità LGBT, tuttavia è un vanto di recentissima acquisizione. Se rapportato alla millenaria storia dell’uomo, praticamente una goccia nel mare.
L’opera della filmmaker kenyota, censurata in patria, mostra anzi qualche flebile tentativo di apertura, sul versante dell’affetto e della comprensione, in un contesto che rivela però anche conclamate violenze punitive verso certe “trasgressioni” al codice morale condiviso. Come spesso accade in operazioni di questo tipo, la denuncia è contenuta nella medesima scelta narrativa. È impossibile infatti che un film di questo tipo non si traduca automaticamente in atto politico, laddove la stessa scelta del soggetto costituisce materia scottante. Ed è altrettanto inevitabile che, per una vicenda locale ma, come dicevamo, ineluttabilmente universale, il percorso narrativo sia paradigmatico, esemplificativo e fortemente prevedibile. Non potrebbe essere altrimenti: qualsiasi storia di discriminazione verso l’orientamento sessuale e identitario, più o meno si traduce in una medesima tragica catena. Scoperta adolescenziale di se stessi, ostilità e punizione violenta della collettività (emarginazione sociale, atti di violenza, riti di purificazione), e conseguenti forme di negazione di se stessi.

Rafiki (in lingua swahili, “legato da amicizia”) esordisce narrando di una gioventù locale che adotta in abiti e acconciature colori acidi e sgargianti, nell’ordine forse di una voluta “modernità” ricercata anche in comportamenti, gusti musicali e forme locali di alterità. La giovane filmmaker compone un quadro sociale in cui sono radiografati i maggiori elementi di coesione collettiva, che si profilano come varie forme d’espressione di una morale condivisa (gli amici, la famiglia, la religione, e perfino la politica, poiché nella comunità è tempo di elezioni). C’è anche qualche flebile voce fuori dal coro, che all’iniziale rifiuto verso le due protagoniste Kena e Ziki passano poi quantomeno alla comprensione dettata dall’affetto. Piccole aperture dettate dall’impossibilità di negare affetti, quando si tratta di legami di sangue.
Proprio per la sua natura di inevitabile universalità, ad occhi occidentali Rafiki può delinearsi paradossalmente come rapido riassunto del tortuoso percorso verso una maggiore apertura e accettazione riguardo a tali tematiche che è avvenuto dalle nostre parti (ammesso e non concesso che, nonostante i vari diritti riconosciuti, la vita degli omosessuali sia davvero poi così migliorata sul piano culturale nell’emisfero ricco del mondo – in realtà c’è ancora molto da fare, basti pensare a certi episodi di violenza come quello occorso qualche mese fa a Bologna ai danni di un ragazzo inglese, solo un esempio fra i tanti).
Così, alle terribili punizioni fisiche e ai sermoni di accalorati pastori, con tanto di rito di purificazione, si alterna almeno una primaria presa di coscienza di altre realtà, con tenui ricadute anche sulla locale campagna elettorale. Wanuri Kahiu mette in contrapposizione due specifiche sezioni di racconto: a un primo capitolo di romance adolescenziale, che non si nasconde dietro ad allusioni assumendo invece toni franchi ed espliciti, segue una svolta decisamente più drammatica a seguito della violenta condanna collettiva del rapporto tra le due ragazze. Tra pezzi musicali malinconici e qualche scorcio di fotografia compiaciuta, Rafiki sembra suggerire il coraggio dell’esserci: un coraggio che necessariamente dev’essere mediato dall’istinto all’autoconservazione, quando un amore può tradursi in punizione violenta. Esserci è già un primo passo. È l’interrogativo di un finale che pone lo spettatore davanti a un bivio tragico: finché non intervengono mutamenti culturali, possono profilarsi anche problemi senza soluzione. Il paradosso di essere al mondo, senza averlo chiesto, e di non poter vivere nel mondo. O viverci, solo grazie a vaghi compromessi. Fuggire all’estero, o nascondersi in un’esistenza opaca.

Rafiki può sembrare un film esile, e in qualche modo a ciò è condannato dalla sua prevedibile catena narrativa. Ma in questo caso quel che è prevedibile è puramente atto di constatazione. Perché, per l’appunto, certe storie possono essere solo uguali a mille altre, non c’è altra via. La discriminazione, a maggiore o minor grado, riguarda e interroga tutti. E i meccanismi sociali, giocoforza, ripercorrono purtroppo le stesse strade. In ogni caso, al netto di qualche gracilità di costruzione, il coraggio politico-culturale è sempre da apprezzare.

Info
La scheda di Rafiki sul sito del Festival di Cannes.
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