Mon tissu préféré

Mon tissu préféré

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Lontano da intenti di diretta cronaca, Mon tissu préféré di Gaya Jiji indaga la guerra civile in Siria al suo primo manifestarsi in chiave di risonanza psicologica, culturale ed esistenziale. Intelligente, acuto, imprevedibile nel suo svolgimento. Per Un Certain Regard.

Il desiderio

Allo scoppio dei primi scontri in Siria nel marzo 2011, che daranno luogo a una sanguinosa guerra civile, la venticinquenne Nahla si trova alle soglie di un incontro combinato con un connazionale emigrato negli Stati Uniti che potrebbe costituire un’ottima occasione di matrimonio e migliori condizioni di vita. Ma la ragazza, insofferente a tali ipocriti meccanismi sociali, fa cambiare idea al suo corteggiatore, che sposta le sue attenzioni sulla sorella. Intanto Nahla fa la conoscenza della nuova vicina, rumorosa e turbolenta, che in realtà ha imbastito una casa d’appuntamenti… [sinossi]

Come affermato a chiare lettere dall’autrice Gaya Jiji, giunta alla sua opera prima in lungometraggio, Mon tissu préféré non vuol essere un film didascalicamente dedicato alla situazione politica della Siria. Pur prendendo le mosse dall’avvio della guerra civile scoppiata nel marzo 2011 su basi inizialmente laiche per poi assumere altre forme, in prima istanza il racconto intende profilarsi come la “storia di una famiglia”. Affermazione di per sé già perturbante, dal momento che in realtà a salire in primo piano è il ritratto a tutto tondo di una protagonista decisamente centrale, collocata sì in un contesto familiare ma in senso fortemente metaforico e traslato. La protagonista Nahla, ragazza intorno ai 25 anni, si mostra da subito insoddisfatta e ostile, animata da irrequietezza e insofferenza ai compromessi (molto bella, in tal senso, la sequenza d’apertura in autobus, con la caparbietà di Nahla a non chiudere il finestrino per fare una cortesia ai compagni di viaggio).

In un contesto dettato da regole sociali e dall’incombente spettro del caos della guerra civile, Nahla non prende posizione riguardo a quel che sta accadendo nel paese, ma tramite la sua figura l’inquietudine della sua generazione prende forme per vie traverse. Quando l’orizzonte è afoso e schiacciante, si può prendere la via della fantasia, o dell’attacco sottile alle varie ipocrisie dominanti in tale contesto. Nahla non compie vere e proprie rivoluzioni di vita, ma davanti a un panorama oscuro e castrante compie un proprio percorso esistenziale, in cui a poco a poco si sfrangiano anche i confini tra realtà e immaginazione. Promessa sposa a un connazionale emigrato negli Stati Uniti che potrebbe portarla con sé verso migliori condizioni di vita, Nahla affronta l’incontro decisivo piegandosi a un collaudato meccanismo sociale, ma mettendone al contempo in luce tutta la sua ridicola falsità. Più di tutto, Nahla sembra la rappresentante di una generazione che non ne può più non tanto e non solo di un pesante clima politico, ma piuttosto di una più ampia cultura ben consolidata che di quel paesaggio politico è necessaria premessa, causa e giustificazione. Così, la scoperta di sé prende un percorso tutto suo e decisamente tortuoso, che passa attraverso l’esperienza della voluta degradazione nella prostituzione, dove di nuovo Nahla si presta a fare quel che la società le richiede (vedasi il leit-motiv del racconto col cliente militare, in cui Nahla sembra tradursi in una novella Sherazade). Prostrata e culturalmente ridotta a figura di accudimento per uomini indubitabilmente dominanti, Nahla finisce per spaventarli tramite la sua totale dedizione, mettendoli di fronte a se stessi.

È un film senza padri, Mon tissu préféré. Chi è morto, chi è assente pure in vita. E in un’opera segnata per lo più da personaggi femminili si raccolgono anche profili umani di diversa formazione e generazione, che senza particolari enfasi didascaliche danno la misura del conflitto civile in via di scatenarsi nel paese. La madre se la prende con i rivoltosi, delineandosi come figura di conservazione dell’esistente. I figli si dividono tra l’adesione spontanea alla rivolta e il silenzio dell’indifferenza o di chi magari appoggia senza il coraggio della parola. Gaya Jiji mostra buone qualità nell’evocare il contesto di guerra come una lontana risonanza, che solo di tanto in tanto irrompe sotto forma di caos nella quotidianità dei suoi protagonisti. L’instabilità provocata dalla rivolta in corso riverbera sotto forma di scosse intime ed esistenziali, che inducono Nahla a confrontarsi con identità ancestrali, sfere oniriche influenzate da modelli e ricerca di se stessa. Nel suo incedere il racconto si affida sempre più ad atmosfere oscure e rarefatte, dove la marca di realtà diviene meno decifrabile e soprattutto non necessaria. Dove sta dunque la “storia di una famiglia”? Sta forse, in senso più ampio, nell’evocazione di un nucleo che, in quanto primario elemento fondante di qualsiasi consorzio sociale in ogni parte del mondo, si configura anche come sineddoche di una nazione e dei suoi imminenti tumulti. Mai politico in senso stretto, Mon tissu préféré scava a fondo in strutture ancestrali e culturali, confermandosi dirompente nella sua aspra carica dissacrante. È infatti altrettanto fertile il filone narrativo della vendetta, qui identificata in un sottile meccanismo di rivalsa nei confronti dei falsi sentimenti sui quali si sorreggono mistificati progetti di felicità. Come detto, Nahla non ama i compromessi, men che meno quelli che negano automaticamente la sua identità. Per cui l’insofferenza per modelli culturali può prendere la strada deviata (e non rivoluzionaria) dello schiaffo in faccia ai meschini desideri di chi non rispetta se stesso.

Gaya Jiji esordisce dunque con un’opera prima promettente e costruita con molta intelligenza narrativa, lontana dal consolidato neorealismo mediorientale e nemmeno debitrice di immediate e didascaliche retoriche femministe. Oscuro, umorale, a suo modo pure espressionista,Mon tissu préféré fugge dalla cronaca diretta e al contempo vi resta dentro fino al ginocchio. Storia di una famiglia, per l’appunto. Ché da lì si arriva, lì si torna, lì si vive per tutta la nostra esistenza. E nessun baluardo è più forte della famiglia di fronte alle impreviste scosse dei mutamenti culturali. Come un riccio spaventato, di fronte alla messa in crisi delle certezze la famiglia si richiude in sé o provoca reazioni condizionate nei suoi componenti. Dolce prigione, generatrice di gioie e cupi sentimenti, come invidia, competizione, e confronto doloroso con retaggi culturali. Antica come Sheherazade. Moderna come Nahla.

Info
La scheda di Mon tissu préféré sul sito del Festival di Cannes.
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