La strada dei Samouni

La strada dei Samouni

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La strada dei Samouni è il nuovo lavoro documentario di Stefano Savona, che si immerge nel conflitto israelo-palestinese focalizzando l’attenzione su una famiglia palestinese della periferia di Gaza massacrata in un raid dell’esercito di Tel Aviv. Con le animazioni di Simone Massi, alla Quinzaine des réalisateurs.

Torneremo ai sicomori

Nella periferia rurale della città di Gaza la famiglia Samouni si appresta a celebrare un matrimonio. È la prima festa dalla fine dell’ultima guerra. Amal, Fouad, i loro fratelli e i loro cugini hanno persone i genitori, le case e gli alberi di ulivo. Il quartiere dove abitano è in ricostruzione. Ripiantano gli alberi e lavorano i campi, ma una sfida ben più difficile incombe su questi giovani sopravvissuti: ricostruire la propria memoria. Seguendo il filo dei loro ricordi Samouni Road tesse un ritratto di questa famiglia prima, durante e dopo gli eventi che hanno cambiato per sempre la loro vita… [sinossi]

Nei primi giorni del Festival di Cannes La strada dei Samouni si è rivelato in qualche modo come un’epifania, non solo per il valore dell’opera in sé – sul quale si tornerà a focalizzarsi tra poco l’attenzione – ma anche per la capacità di scardinare un percorso stranamente “medio” all’interno delle dinamiche della Quinzaine des réalisateurs. La sezione più ricca di suggestioni sulla Croisette che però in quest’edizione sembra mancare con troppa facilità il bersaglio, tra prevedibili storie d’amour fou (Joueurs di Marie Monge), incursioni nella natura belluina dell’uomo (Les confins du Monde di Guillaume Nicloux), e il freddo e distaccato Petra di Jaime Rosales. Cinema a tratti magari interessante, ma senza dubbio incapace di ragionare con forza sul perché della propria esistenza. Un “libro di immagini”, per citare Jean-Luc Godard – lui sì perennemente ‘oltre’ il crinale dell’ovvio, impossibilitato a essere ricondotto in un senso unico e addomesticato – che lo spettatore non solo ha già letto, ma ha già digerito e imparato a gestire.
Al contrario La strada dei Samouni mantiene sempre la propria capacità non solo di interrogare il proprio pubblico su quel che avviene in scena, ma di interrogarsi in prima persona, di tentare un ragionamento sulla messa in scena di una tragedia che è già evidente di per sé, senza bisogno di sovrastrutture. Dopotutto cosa si può aggiungere alla storia di una famiglia sterminata, presa di mira dall’esercito israeliano per motivi oscuri, fucilata e bombardata? Una trentina di appartenenti alla famiglia Samouni, tra cui bambini e anziani, è finita nel 2009 sotto il fuoco israeliano, all’interno di quella che è stata chiamata Mivtza Oferet Yetzukah, vale a dire “Operazione piombo fuso”.

Quei giorni convulsi e terribili Savona li aveva già raccontati “in presa diretta” nel 2009 con Piombo fuso, che aveva preso parte al concorso di Cineasti del presente al Festival di Locarno. Tornare a ragionarvi a mente fredda e a quasi dieci anni di distanza non significa rivedere il proprio punto di vista ma cercare piuttosto di allargare lo sguardo chiudendo paradossalmente lo zoom ancora di più su un evento, e su un paio di sopravvissuti. Amal e Fouad sono due ragazzini, il loro percorso di memoria è un tracciato dolorosissimo eppure quasi “semplice”, immediato, lineare. Non ha le storture e i passaggi laterali di una mente avvizzita. Quel gennaio 2009 nel quale persero la stragrande maggioranza dei loro familiari, le case nelle quali vivevano, studiavano e giocavano e gli amati alberi che circondavano il quartiere – un quartiere periferico, tranquillo, abitato da lavoratori che prima del blocco si spostavano a Gerusalemme per la giornata salariale – è un ricordo vivido che non ha sovrastrutture. Non all’apparenza almeno.
Savona ricostruisce la storia da un lato lasciando parlare i ragazzi, dall’altro filmando la vita quotidiana di una famiglia che vive diroccata ma vive, e che sta preparando un matrimonio che è simbolicamente anche il ritorno a una normalità che non potrà che essere apparente. Ma la ricostruzione deve diventare immagine, e allora il regista palermitano si affida ai disegni e alle intuizioni di Simone Massi: è nell’animazione, il gesto estetico finzionale più forte e poetico, che la realtà di una memoria di sangue può trovare la propria rappresentazione meno artefatta. La ricostruzione è sì atto privato, e parte dalle memorie dei testimoni, ma è anche atto collettivo nel momento in cui diventa cinema, e quindi narrazione palese degli eventi accaduti; l’animazione e gli pseudo-visori notturni in cui gli esseri umani sono formichine da schiacciare senza troppo pentimento sono lì a dimostrare questo. La scelta di Savona diventa dunque un atto poetico, e di conseguenza politico.

La strada dei Samouni è però soprattutto il racconto di una gioventù massacrata che ha il coraggio di riprendere a vivere, di ricostruire il mondo attorno a sé. Le case verranno di nuovo erette, gli alberi di ulivo verranno ripiantati, il matrimonio porterà nuovi esseri umani in quella terra martoriata. È un’utopia? Certo, ma non lo è forse anche il cinema? Il popolo palestinese si rialza, ricacciando indietro le sirene distorte di Hamas e anche quelle di al-Fatah, e ripartendo dalla terra, dal rapporto con essa e con la memoria di sangue di cui è intrisa. Ripartendo dalla propria famiglia, ma per allargarsi al mondo intero. In questo senso acquista quasi una speranza recondita, La strada dei Samouni, anche se uno dei fratellini di Amal ha come unico desiderio quello di essere martire per la causa palestinese e di raggiungere il padre in cielo. C’è una contraddizione eterna nella lotta, e c’è un’aberrazione che non ha limiti nel trattamento di una popolazione che vive occupata e asserragliata senza alcuna reale libertà. Savona ha il coraggio e la capacità di raccontare questo conflitto, che non è solo politico, e di coglierne l’intimità più nascosta. Un’opera preziosa.

Info
La strada dei Samouni sul sito della Quinzaine des réalisateurs.
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