Bergman – A Year in a Life

Bergman – A Year in a Life

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La svedese Jane Magnusson dedica un documentario al suo celeberrimo connazionale: Bergman – A Year in a Life, presentato in Cannes Classics. Lo fa però in maniera confusa e poco centrata abbandonando troppo presto la chiave di lettura che si era scelta, vale a dire raccontare il 1957, anno de Il settimo sigillo e di Il posto delle fragole.

Too Much Bergman

Il 1957 è stato un anno decisivo nella vita di Bergman, di grandissima intensità lavorativa e di eccellenti risultati artistici, a partire dalla realizzazione di due dei suoi più celebrati capolavori, Il settimo sigillo e Il posto delle fragole… [sinossi]

È tutt’altro che facile realizzare dei documentari dedicati a cineasti che hanno fatto la storia del cinema. Lo abbiamo potuto ri-verificare a Cannes 71, non solo vedendo The Eyes of Orson Welles di Mark Cousins, ma anche Bergman – A Year in a Life di Jane Magnusson, presentato anch’esso in Cannes Classics.
La difficoltà sta in primis nel provare – vanamente – a resistere alla tentazione di voler raccontare tutti gli aspetti che riguardano la vita e l’opera del genio in questione: l’infanzia, gli amori, le difficoltà, le ascese e le cadute, ma soprattutto gli aneddoti, che magari tutti conoscono ma che si ha sempre voglia di ri-raccontare. Cousins in The Eyes od Orson Welles non si è posto neppure il problema e ha scelto di rievocare l’autore di Quarto potere senza provare a cercare delle chiavi di lettura particolari o dei punti di vista inusuali attraverso cui guardare l’oggetto della sua disamina. La svedese Jane Magnusson, al contrario, deve almeno essersi interrogata, e così il suo film inizia con una chiara dichiarazione di intenti: ci racconterà, come suggerisce d’altronde anche il titolo del documentario, un anno nella vita di Bergman, vale a dire quel 1957 decisivo nella carriera del Maestro perché realizzò due dei suoi più celebrati capolavori, Il settimo sigillo e Il posto delle fragole, che lo consacrarono finalmente a livello internazionale. E quell’anno oltetutto fu caratterizzato da un’intensa attività artistica: Bergman infatti diresse addirittura un terzo film, il troppo sottovalutato Alle soglie della vita, e poi un film per la TV, un paio di adattamenti teatrali, tra cui l’impegnativo Peer Gynt di Ibsen, e perfino delle trasposizioni radiofoniche. Un anno dunque intensissimo che meritava di essere raccontato, anche perché tra le altre cose, verso il maggio del ’57 il regista venne ricoverato per un esaurimento nervoso, e proprio nel letto d’ospedale scrisse la sceneggiatura de Il posto delle fragole.

Grande invece è la sorpresa quando, pian piano, si capisce che le cose non stanno così: la Magnusson non ci sta raccontando veramente il 1957 di Bergman, ma sta usando il 1957 per spaziare come una trottola lungo tutta la vita del suo celebre connazionale. E dunque si passa dall’infanzia difficile per la rigida educazione, all’odio per la figura paterna – con tanto di abusatissimo riferimento al personaggio del crudelissimo pastore Vergerus in Fanny e Alexander – fino alle tante donne, mogli e figli avuti dal cineasta. Senza dimenticare le ben note simpatie naziste, che Bergman non ha mai negato e che ha confessato con vergogna e grande pentimento nella sua autobiografia Lanterna magica, non dandosi pace per aver dato credito al Terzo Reich fin subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Allora diventa chiaro che Bergman – A Year in a Life non fa eccezione, connotandosi come il solito bignamino in cui sono affastellate alla meno peggio le informazioni fondamentali riguardanti un genio del cinema, dove non vi sono scoperte particolari – se non quella, risibile, della sua maniaca passione per una certa marca di biscotti – e dove si usano e si mostrano materiali, come vecchie interviste, tutt’altro che inediti. In più, naturalmente, l’occasione – produttivamente parlando – era ghiotta, visto che quest’anno – come già ci ha ricordato il Palazzo delle Esposizioni di Roma con la rassegna dei mesi scorsi – ricorre il centenario della nascita del Maestro svedese. E allora la Magnusson prova a dare anche una veste internazionale al suo film, sperando evidentemente di provare a venderlo anche al di là dei confini della Svezia: vanno lette in tal senso le interviste – brevissime, tra l’altro (e per fortuna, viene da aggiungere) – a Barbra Streisand, Holly Hunter, John Landis e, persino, Zhang Yimou (per ingraziarsi il pubblico asiatico), i quali si limitano a dire quanto apprezzino il suo cinema e quanto lo trovino fondamentale. Manca Woody Allen, il cui bergmanismo è ben noto. Ma lui, insieme a tanti altri, era stato già intervistato dalla Magnusson nel 2008 per una serie di puntate televisive dedicate sempre a Bergman.

Per tornare dunque al discorso iniziale, l’aggravante – nel caso di Bergman – A Year in a Life – è quella di aver trovato una chiave di lettura – il 1957, per l’appunto – e di non averla seguita, provocando una confusione ulteriore nella disposizione del racconto, che saltabecca in maniera illogica, confusionaria e superficiale tra i mille prismi del mondo bergmaniano.
Ora, viene da chiedersi: perché? Perché Cannes Classics seleziona dei film così basici come documentari per il cinema? Film che sono evidentemente pensati per un pubblico televisivo, quasi totalmente digiuno dei personaggi di cui si parla. Possibile che in giro non vi siano film sul cinema più interessanti, più arguti, più originali, più sensati? Ai posteri l’ardua sentenza.

Info
La scheda di Bergman – A Year in a Life sul sito del Festival di Cannes.
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