Lazzaro felice

Lazzaro felice

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L’opera terza di Alice Rohrwacher, Lazzaro felice, conferma il talento della regista fiesolana, che torna a ragionare sul mondo rurale lavorando in modo ancora più estremo e diretto sul tema di un realismo magico che arriva a sfiorare il sovrannaturale. Un racconto morale sulla coscienza dell’umanità. In concorso al Festival di Cannes.

Servi e padroni

È la storia dell’incontro tra Lazzaro, un paesano semplice di spirito, e Tancredi, un giovane nobile arrogante che s’annoia a l’Inviolata, un borgo che è rimasto lontano dal mondo su cui regna la Marchesa Alfonsina de Luna. La loro amicizia si sigilla quando Tancredi, per gioco, organizza il proprio rapimento e chiede aiuto a Lazzaro. Questa relazione sincera e gioiosa è una rivelazione per Lazzaro. Un’amicizia così preziosa che lo porterà nel tempo e lo porterà in città, alla ricerca di Tancredi… [sinossi]

È Lazzaro felice? E se sì, qual è la sua felicità? Mentre gli altri lavorano ogni tanto gli capita di fermarsi nel bel mezzo del nulla, apparentemente fissando il vuoto. Cosa vede Lazzaro quando fissa davanti a sé, nello spazio rurale dell’Inviolata così come nella grande metropoli, che è fredda e sporca e asettica? Incolore e inodore. Insapore. Chi vive in città non sa neanche più riconoscere la cicoria che cresce nell’asfalto, spontanea: la considera erbaccia, e la evita. Chi vive in città non sa neanche più distinguere l’umano. Ma è umano Lazzaro? Alla sua opera terza Alice Rohrwacher, che già aveva dato dimostrazione di possedere un proprio sguardo per niente assimilato alla prassi del cinema italiano ed europeo con Corpo celeste e Le meraviglie, trova forse la sua maturazione definitiva. Presentato in concorso all’interno del Festival di Cannes, luogo dove la cineasta aveva ricevuto con il precedente lavoro il Gran Prix della Giuria, Lazzaro felice è un’opera complessa e stratificata, che potrebbe anche lasciare sgomenti e storditi a una visione superficiale. Sgomenti perché non ha timore di mettere in scena l’ingenuità senza dover ricorrere a sovrastrutture intellettuali. Storditi per la capacità di mescolare senza forzature la magia del sovrannaturale a una rappresentazione realistica del mondo contadino. La tensione verso il misterico che già si intravvedeva nelle prime regie trova qui una sua consacrazione, in un superamento totale della barriera del vero. Nulla che non sia accompagnato in fase di scrittura: dopotutto il protagonista si chiama Lazzaro, e lo spettatore sa già che prima o poi dovrà alzarsi dalla propria tomba e camminare…

Ci sono due film in uno, a volerli sezionare, in Lazzaro felice. Due allegorie dell’umanità e della sua incapacità di vivere senza sopraffare l’altro, senza ghettizzare e sfruttare il più debole. L’ignorante. Il primo è un film rurale, ambientato nella fantomatica Inviolata, zona rimasta isolata dal resto del mondo – e che dall’accento degli abitanti sembrerebbe trovarsi nell’alto Lazio: in effetti tra le location c’è anche la viterbese Bagnoregio – e di proprietà della marchesa de Luna, un’aristocratica che fa i soldi con la coltivazione del tabacco e che nonostante dal 1974 sia decaduto definitivamente qualsiasi concetto di mezzadria tratta ancora i suoi contadini come servi. Proprietà privata. Alice Rohrwacher catapulta dunque fin da subito lo spettatore in uno spazio-tempo indecifrabile, nel quale convivono modernità come il cellulare (i modelli in voga tra gli ambienti benestanti nei primi anni Novanta) e lavoratori della terra che sembrano usciti da un quadro di Pellizza da Volpedo, o da L’albero degli zoccoli e Novecento; nella famiglia colonica i bambini non vanno a scuola e l’unica istruzione sommaria la ricevono dalla padrona, oltre alle fiabe su San Francesco e il lupo che la mamma può loro raccontare prima di andare a dormire.
Un mondo di sopravvissuti, di morti che sono risorti – sono tutti, in qualche modo, dei piccoli Lazzaro. Un mondo di schiavi che a loro volta schiavizzano il povero Lazzaro, sempliciotto gentilissimo che non conosce la menzogna, ed è servizievole per natura. L’incontro con Tancredi, il figlio della padrona, sarà la chiave di volta del suo destino, del destino dell’Inviolata e di tutta la famiglia di oltre cinquanta persone che vi ha vissuto, ignare dell’esistenza dei contratti collettivi, dei diritti sindacali, della paga, della capacità di sciopero. Tancredi si lamenta con la madre per il trattamento inumano riservato ai servi, ma la risposta è secca: finché loro rimarranno nell’ignoranza gli verrà evitato il dolore che deriva dalla comprensione dell’iniquità umana e della società.

Se la prima metà del film mostra Lazzaro felice, finalmente conscio di un ruolo sociale – Tancredi per gioco gli ha detto che sono fratellastri, ma lui prende tutto alla lettera e ci crede fermamente – e quindi in grado di relazionarsi con qualcuno, la seconda si concentra sul Lazzaro risorto. C’è uno stacco logico, un passaggio sovrannaturale, che scardina il concetto di reale e trascina Lazzaro felice dalle parti “miracolose” di Cesare Zavattini e Pier Paolo Pasolini. Senza timore di scomodare il campo dell’allegoria, messa in scena evitando qualsiasi scadimento nelle vertigini della retorica, Rohrwacher mette in scena il suo Lazzaro (straordinaria l’interpretazione dell’esordiente Adriano Tardiolo, sguardo vacuo e dolcissimo allo stesso tempo, carico di un’empatia naturale e non strutturata che permette un’identificazione anche là dove sarebbe davvero ardua immaginarla) come se stesse lavorando con il Ninetto Davoli di Uccellacci e uccellini o il Mario Cipriani de La ricotta. Il suo viaggio nella città, il ritrovarsi con la sua “famiglia” che, al contrario di lui, è ora invecchiata di molti anni, ha lo sguardo sperduto di un’innocenza che prima o poi dovrà confrontarsi con un mondo belluino. Non la ferocia ululante dei lupi nella notte, ma la crudeltà priva di limiti e di morale dell’uomo, la sua naturale propensione a sfruttare il simile, ridurlo in un angolo, truffarlo senza alcuna volontà di comprenderlo, di soffrire con lui.

È la simpatia la colpa definitiva di Lazzaro, la sua santità terracea, quel miracolo che gli ha impedito di morire anche dopo una caduta di decine di metri in un crepaccio e l’ha preservato dall’usura del tempo. Al contrario di quasi tutti gli altri – con l’unica eccezione, forse, di Antonia, che lo riconosce subito ed è l’unica a preoccuparsi di lui – Lazzaro sa davvero soffrire, ma non ha imparato a far soffrire gli altri. Non si è adeguato alla società. In questo dettaglio è davvero super-umano. Tutto è iniquo nel mondo descritto da Lazzaro felice. È iniqua la schiavitù cui sono costretti per ignoranza i contadini. È iniqua la democrazia, che li “salva” dalla condizione inserendoli però poi in un sistema classista, nel quale rimarranno inevitabilmente ultimi nella scala sociale, superiori solo agli animali. È iniqua l’aristocrazia anche quando non lo è più, anche quando decade e finge di mescolarsi con il proletariato. È iniquo il sistema bancario, e la gente che ha paura e reagisce nell’unico modo che conosce: usando la violenza. Solo la luna, lontana distanze siderali, è giusta. Solo alla luna, lo sguardo perso nel vuoto, Lazzaro (non più) felice concede una lacrima. Quella luna a cui ulula il lupo che si incontrò con Francesco d’Assisi e con lui, racconta la leggenda, si ammansì. Ora il lupo cammina tra le macchina in fila, incuranti di lui. E si allontana. Alice Rohrwacher, attraverso un realismo magico che vola alto – perdendo forse un po’ di coraggio nel finale, ma sono dettagli – firma la sua opera più convincente, candidandosi fin d’ora alla vittoria della Palma d’Oro.

Info
La scheda di Lazzaro felice sul sito del Festival di Cannes.
Il trailer ufficiale di Lazzaro felice.
Lazzaro felice, l’intervista a Cannes.
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