In guerra

In guerra

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In guerra riporta in concorso a Cannes Stephan Brizé a tre anni di distanza da La legge del mercato. Protagonista è ancora Vincent Lindon, e il tema resta quello della crisi del capitalismo e dell’imbarbarimento della società. Qui il tutto viene declinato attraverso la lotta degli operai di una fabbrica contro la sua chiusura. Un lavoro battagliero che è giusto difendere al di là di alcune scelte poco condivisibili.

Sciopero a oltranza

Nonostante i pesanti sacrifici finanziari da parte dei dipendenti e un profitto record dell’azienda, la direzione della fabbrica Perrin Industrie decide comunque la chiusura totale del sito. Accordo scontato, promesse non rispettate, i 1100 dipendenti, guidati dal loro portavoce Laurent Amedeo, rifiutano questa decisione brutale e tenteranno tutto per salvare il loro lavoro… [sinossi]

Si potrebbero avere molte riserve nei confronti di In guerra (En guerre), ottava regia di Stéphane Brizé in poco meno di venti anni. Alcuni passaggi narrativi sono eccessivamente forzati, le digressioni pur brevi che vedono in scena la figlia del protagonista Laurent Amédéo sono non solo inessenziali ma anche retoriche e perfino fastidiose – la sequela di fotografie con lei incinta che terminano sull’unica foto del padre con la citazione “il mio eroe” scivola a pochi passi dal cattivo gusto involontario –, e la forma libertaria della narrazione è forse al contrario fin troppo costruita. Riserve legittime, e che in qualche modo si inseriscono nel complesso della filmografia del regista e attore – fa eccezione l’ottimo Une vie, che era in concorso alla Mostra di Venezia nel 2016 –, ma che sarebbe forse il caso di relegare in un angolo, almeno per una volta. Il perché è presto detto: In guerra è un film rilevante, non solo perché ha il coraggio e la volontà priva di compromessi di raccontare le storture del capitalismo nel pieno della sbornia di parte della sinistra francese (o pseudo-sinistra, o centro-sinistra: fate voi) per il cosiddetto macronismo, ma anche perché sceglie la via del film militante, concentrando l’attenzione solo ed esclusivamente sulla lotta degli operai della fabbrica Perrin ad Agen, nella Nuova Aquitania, per impedire che lo stabile sia chiuso. Uno sciopero a oltranza, con picchetti e in gran parte unità sindacale. Tutte realtà che altrove stanno sparendo, quando non direttamente sui luoghi di lavoro quantomeno nell’agenda stampa. Non si dà più risalto alla lotta per la difesa del posto di lavoro, né ci si concentra più su un cinema che abbia anche la voglia di mettere da parte la narrazione classica per sfogare la propria rabbia politica, alzando il livello dello scontro attraverso una produzione del Capitale come un film mainstream.

Sì, perché Brizé non è certo un piccolo indipendente della scena francese, il protagonista è l’ultra-divo Vincent Lindon (già al lavoro con il regista sul precedente La legge del mercato, a sua volta imperniato sulla crisi del capitalismo) e a produrre ci sono tra gli altri France 3 Cinéma e Ciné+. E allora viene davvero da applaudire questa forma radicale, che riprende istanze e approcci di una militanza considerata dai più archeologia e deprivata, nel corso degli anni, di tutti gli spazi a disposizione. Là dove anche i pur ottimi Dardenne avevano ammantato la loro narrazione della precarietà in cui si agita la classe operaia nella storia di una donna, e della sua battaglia singola, In guerra eleva un grido collettivo. Solo nell’unione sindacale, solo nella battaglia che se ne frega del singolo per dare un volto unico alla massa operaia, si può trovare la risposta, forse. Certo, Lindon catalizza l’attenzione – e, come si accennava in precedenza, sono proprio le per fortuna brevi digressioni familiari a stonare –, ma ad arrivare con forza agli occhi degli spettatori è un sentimento comune, quello di una classe sfruttata e ridotta al silenzio che ha ancora il coraggio di alzare la voce, in quest’Europa dominata da un lato da venti di un populismo preoccupante e dall’altro dall’accettazione miserabile delle regole mostruose del Capitale da parte della classe dirigente che si dice progressista.

In guerra torna al contrario alla radice della lotta, allo sciopero a oltranza, ai picchetti davanti ai cancelli, e lo fa con uno sguardo che se da un punto di vista empatico è lo stesso del cinema di Ken Loach, sotto il profilo strettamente estetico depaupera qualsiasi orpello. A rimanere intatta è l’inquadratura, in piani sequenza nervosi che osservano i dibattiti infiniti tra compagni, le discussioni con i crumiri che hanno scelto di scendere a patti con il padronato, gli incontri con la proprietà mediati da un governo che più di tanto non sa o non vuole fare. Oppure si frammenta, in un’infinita sequela di news giornalistiche che raccontano una realtà quotidiana di disperazione – gli operai, raggiunta e oltrepassata la soglia di sopportazione davanti al menefreghismo e all’ipocrisia di chi detiene le redini del potere, arrivano a rovesciare la macchina del proprietario delle fabbriche Perrin, a capo di una multinazionale tedesca –, o riprese amatoriali con un cellulare. Certo, ci si chiede perché con una narrazione che non dimentica il punto di vista internazionalista (appoggi agli scioperanti arrivano anche da Sunderland), si sia creduto necessario trovare il cattivo in Germania, così cattivo che non accetta neanche di rivendere la fabbrica a un volenteroso imprenditore francese. Ecco, è in questi dettagli che sorge spontaneo qualche dubbio sul film, e si rivendica la statura non ancora elevata dell’autorialità di Brizé. Ma sono per l’appunto dettagli, che non offuscano fino in fondo un’operazione coraggiosa e intelligente, che sarebbe da prendere ad esempio da altri militanti che hanno in sorte di non dover agire nell’ombra oscura dell’indipendenza e del fai-da-te ma possono confrontarsi con l’industria.

Info
Il trailer di In guerra.
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