L’albero dei frutti selvatici

L’albero dei frutti selvatici

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Tra impasse esistenziali e inutilità del confronto dialogico, Nuri Bilge Ceylan costruisce ne L’albero dei frutti selvatici il ritratto di una borghesia intellettuale che non riesce a liberarsi dalla sua accidia. In concorso a Cannes 71, a quattro anni dalla Palma d’Oro per Il regno d’inverno.

Il silenzio dell’uomo

Per alcuni, la campagna è un luogo di esilio in cui tutte le speranze si fondono infine con la solitudine. Un luogo sconfinato di esilio in cui tutte le speranze e i sogni si fondono con la disperazione come i destini coincidenti di padri e figli. [sinossi]

Già vincitore della Palma d’Oro nel 2014 con Il regno d’inverno – Winter Sleep, il turco Nuri Bilge Ceylan conferma la linea dialogico-paesaggistica del suo cinema e amplia le striature e le complessità del suo mondo autoriale con L’albero dei frutti selvatici, in concorso a Cannes 2018. E, più ancora che in passato, Ceylan dà l’impressione di aver trovato il giusto equilibrio drammaturgico, tanto da considerare azzeccato l’appellativo di Bergman del Bosforo che talvolta gli viene attribuito. D’altronde, tra i film visti quest’anno alla Croisette, L’albero dei frutti selvatici è l’unico a puntare esplicitamente sulla durata delle sequenze, sulla dilatazione dei confronti tra i personaggi, su un tempo di scena che ha la sua lontana radice in un tempo da palcoscenico, da pièce raffinatissima sottilmente declinata. E già questo suo lavorare su un gruppo ristretto di attori facendoli incontrare e scontrare intorno alle stesse questioni mai risolvibili è un attributo tipicamente bergmaniano. L’altro – a esso collegato – ha a che vedere con il senso di incompiutezza e con l’inappagato desiderio esistenziale dei personaggi, qui declinato nell’ambito di una famiglia composta da quattro membri: un padre, una madre, un figlio – il figliol prodigo – e la figlia minore.

Il figlio, Sinan, è il protagonista de L’albero dei frutti selvatici, contraddistinto dalla sua accidia e dal suo senso di superiorità nei confronti del prossimo, chiunque esso sia: uno scrittore di successo cui finge di voler chiedere consigli per la sua vagheggiata carriera di romanziere mentre invece lo disprezza per i bestseller che questi sforna costantemente, un giovane imam che prova a mettere in crisi con il suo relativismo, ma soprattutto suo padre – il suo alter-ego – che critica aspramente per la poco condivisibile condotta di vita, visto che butta via lo stipendio da insegnante nelle corse dei cavalli e chiede prestiti in giro. Nel mettere in scena questi confronti Ceylan a volta esagera esplicitamente – in particolare nel dialogo con lo scrittore e in quello con l’imam e con un suo amico – ma lo fa in un modo che serve a palesare la vacuità, l’indolenza e la mancanza di volontà che contraddistingue Sinan, sempre pronto ad arricciare il naso e a storcere la bocca al cospetto delle altrui parole.

Certo, niente di nuovo. Già in Il gelido inverno – Winter Sleep il tema centrale era lo stesso, eppure qui Ceylan sembra aver trovato il giusto respiro sia nel tratteggiare i personaggi (in particolare nel rapporto di Sinan con la madre, che oscilla continuamente tra rimprovero e affetto trattenuto), sia nell’orchestrazione del paesaggio (la città anonima, grigia e sporca contrapposta a una campagna edenica ma violenta, sovraesposta e luminosissima e allo stesso tempo oscura e misteriosa), sia infine in una dilatazione temporale che riflette sul ritmo delle stagioni e sul loro scorrere inesorabile. Ad esempio l’estate perduta di un amore impossibile – e forse intimamente non voluto – svolge il ruolo di personaggio aggiunto in una delle sequenze più belle di L’albero dei frutti selvatici, quella dell’incontro casuale con una vecchia amica, che è allo stesso tempo amaro, sensuale, dolcissimo e severo, trattenuto e pieno di rimpianti.

Poi finalmente Sinan scrive il suo libro, ma nessuno lo legge, e le 500 copie stampate restano lì ad ammuffire in casa. E così anche il suo unico atto non mancato diventa carta straccia nel disinteresse generale. E quelle stesse formiche che ricoprirono un giorno il corpo di suo padre da bambino, come viene raccontato a Sinan dal nonno, e che passeggiano di nuovo su suo padre in un pomeriggio di sonnolenza, forse sono pronte ad andare anche da lui, a certificare la sua inanità esistenziale, il suo ondivago atteggiarsi da intellettuale incapace di darsi all’azione. Eppure, in un film che sin dall’inizio allude alla tentazione del suicidio, attraverso il ricorrente inquadrare di corde che penzolano da un pozzo o da un albero, forse una speranza c’è. Ed è quella di trovare infine un modo per rapportarsi con quel padre che ha rifiutato la vita di città per seppellirsi in campagna, quel padre che – come tutti – è un albero nato spontaneamente, solitario e isolato, ma capace di dare comunque dei frutti.

Info
La scheda di L’albero dei frutti selvatici sul sito del Festival di Cannes.
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