Festival di Cannes 2018 – Bilancio
Archiviata la settantunesima edizione di Cannes, proviamo a tracciare un piccolo bilancio, qualche riflessione sul festival, sui film, sui premi, sulla spedizione italiana. Suggestioni in modalità random, un mosaico incompleto già in partenza, perché anche questo Festival di Cannes 2018 si è dimostrato non a misura d’uomo, e nemmeno di film: ne vediamo (forse capiamo) solo una parte, come accade nella maggior parte dei festival internazionali, luoghi abnormi, fagocitanti, punti di partenza o spietati capolinea per opere, autori, attori, produttori…
Punti di partenza e d’arrivo. Inizia proprio dal Festival di Cannes 2018 il percorso – che immaginiamo assai fortunato – di Dogman di Matteo Garrone. Genere, autorialità, forti emozioni e una confezione impeccabile e abbacinante. Ci si potrebbe soffermare su qualche vaga ombra, ma non è questo il punto. Ci interessa molto di più il destino del film, del suo autore e dei due attori principali, il premiato Marcello Fonte e l’altrettanto valido Edoardo Pesce. Passata la sbornia dei premi, ci chiediamo se Pesce e (soprattutto) Fonte saranno sostenuti dall’industria cinematografica italiana; se la suddetta industria proseguirà sulla strada indicata dai premi, puntando quindi alla qualità e a una visibilità internazionale; se la stagione del cinema di genere (in qualsiasi sua declinazione, autoriale o meno) fiorirà nuovamente. Già, proprio il cinema di genere, senza scimmiottare altre cinematografie ma cercando vie alterative e concorrenziali: non bastano i singoli casi di titoli come Il racconto dei racconti, Lo chiamavano Jeeg Robot, Suburra o Veloce come il vento, serve un’ampia base produttiva, un ritorno all’alto-medio-basso spazzato via alla fine degli anni Settanta.
In questo senso, è interessante sottolineare la presenza in concorso del teorico e derivativo Un couteau dans le coeur di Yann Gonzalez, opera volutamente sgangherata che pesca a piene mani da Argento e De Palma. Insomma, proprio dagli anni Settanta, da quei gialli che facevano il giro del mondo e che conquistavano spazi e mercati.
I premi. Restiamo in zona Bel Paese. Non è stata solo l’edizione di Marcello Fonte, ma anche di Alice Rohrwacher, premiata per la sceneggiatura di Lazzaro felice; di Stefano Savona e del suo Samouni Road (con animazioni di Simone Massi), che si è portato a casa Oeil d’Or come miglior documentario; del ritorno di Gianni Zanasi, che ha sbancato la Quinzaine con Troppa grazia, commedia insolita e originale. Ed eccole le parole chiave: qualità, originalità. E poi coraggio, come quello di Garrone, che ha puntato sul talento di Marcello Fonte e Edoardo Pesce, sulla loro non ordinaria fisicità. Si dovrebbe ricominciare proprio da qui, dal senso di questi premi, dal quel respiro che non è (più) ombelicale ma che supera i confini nazionali. Per cambiare prospettive, per non dovere fare i conti con un solo incasso, un solo mercato.
Superiamo i confini nazionali e diamo un’occhiata agli altri premi. Per giorni si era parlato di una Palma d’oro a Capharnaüm di Nadine Labaki, tra nefaste previsioni e assolute certezze. Poi è andata un po’ diversamente, anche se la Labaki si è portata a casa il Premio della Giuria – ma alla fine, lo sappiamo, la Storia è riservata solo alla Palma d’oro. Restano però aperte alcune questioni: l’idea di cinema delle giurie, spesso troppo legate a temi e contenuti e poco al cinema e al suo linguaggio (in questo senso, oltre al film della Labaki, lo spauracchio del concorso era Les filles du soleil di Eva Husson, seguito a ruota da Ayka di Sergej Dvortsevoj); le regole ballerine su doppi premi, ex-aequo, quote nazionali e via discorrendo; la composizione stessa delle giurie, messe insieme più per il tappeto rosso e le copertine che per i film e il cinema. Tra retorica e scelte più che condivisibili, in primis la Palma d’oro che finalmente consacra Hirokazu Kore-eda (Shoplifters), resta il grande punto di domanda del premio assegnato a Jean-Luc Godard per Le livre d’image: un premio speciale, creato ad hoc, non facilmente interpretabile. Vogliamo considerarlo un premio alla carriera? Una sorta di ex-aequo con Kore-eda? Un atto dovuto? Un omaggio più o meno sincero? Un risarcimento? Forse il problema è a monte, nel momento della composizione del concorso. JLG è un sabotatore di concorsi.
Appunto, il concorso. E i premi. Basta scorrere l’albo d’oro e fare due calcoli per individuare alcune disparità: ventuno trionfi per gli Stati Uniti, tredici per i padroni di casa, dodici per l’Italia, dieci per il Regno Unito. Solo cinque (5) per il Giappone: hanno vinto Kurosawa con Kagemusha, Imamura due volte (L’anguilla e La ballata di Narayama) e Kinugasa nel lontano 1954 con La porta dell’inferno. Davvero troppo poco. Ma anche da questo dato si possono capire Cannes, i premi, il concorso, Un Certain Regard e anche Quinzaine, Semaine e ACID. Le scelte del festival, legato a doppia mandata alla produzione e distribuzione transalpina, sono spesso conservative, geografiche, politiche, indicano una strada, persino un gusto – anche per questo è più difficile arrivare sul podio più alto per un gigante come Jia Zhangke (Ash is Purest White) e si chiudono le porte del concorso per Sergei Loznitsa (Donbass). Ed è poi un cane che si morde la coda: le prime pagine sono per la Labaki, per John Travolta, per Cate Blanchett, mentre il cinema brulica altrove, magari in Corea del Sud (Burning, The Spy Gone North) o in un’America poco battuta (Leave No Trace), tra le pieghe di ACID (Cassandro the Exotico!), della Semaine (Chris the Swiss), della Quinzaine (Pájaros de verano). La lista dei film da recuperare è fortunatamente lunga, nonostante un’edizione terminale della Quinzaine – attendiamo con estrema curiosità il lavoro del nuovo delegato, l’italiano Paolo Moretti – e la solita programmazione da cubo di Rubik della Croisette. Oltre ai già citati, alcuni in ordine sparso: The Wild Pear Tree di Nuri Bilge Ceylan, Whitney di Kevin Macdonald, Hector Malot: The Last Day of the Year di Jacqueline Lentzou, Libre di Michel Toesca, Chuva e cantoria na aldeia dos mortos di Renée Nader Messora e João Salaviza, The Pluto Moment di Zhang Ming, Long Day’s Journey Into Night di Bi Gan, En guerre di Stephan Brizé, BlacKkKlansman di Spike Lee, The House That Jack Built di Lars von Trier, Asako I & II di Ryūsuke Hamaguchi, Girl di Lukas Dhont, En liberté! di Pierre Salvadori, 3 Faces di Jafar Panahi, Woman at War di Benedikt Erlingsson, Plaire, aimer et courir vite di Christophe Honoré, Ten Years Thailand di Aditya Assarat, Apichatpong Weerasethakul, Chulayarnnon Siriphol e Wisit Sasanatieng, Mon tissu préféré di Gaya Jiji, Cold War di Pawel Pawlikowski, Arctic di Joe Penna, La lotta di Marco Bellocchio, Les confins du monde di Guillaume Nicloux, Wildlife di Paul Dano, Rafiki di Wanuri Kahiu e Dead Souls di Wang Bing. E naturalmente tutta Cannes Classics. Anche Solo: A Star Wars Story, che si troverà anche sotto i sassi. Buoni recuperi.