Papillon

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Approcciandosi a un classico del filone carcerario, il regista Michael Noer sceglie con questo nuovo Papillon di adagiarsi sul materiale originale, edulcorandone nel contempo gli sviluppi e smarrendone il portato epico e tragico.

Fughe dal passato

Lo scassinatore Henry “Papillon” Chàrriere viene incastrato per un omicidio che non ha mai commesso, e rinchiuso in una colonia penale di massima sicurezza della Guiana Francese. Qui, il malvivente conosce il falsario Louis Dega, offrendogli protezione in cambio di un supporto per il suo progetto di fuga. [sinossi]

Se è vero che il genere carcerario, nel cinema hollywoodiano, rappresenta uno di quei filoni sempreverdi, oggetto nel corso degli anni di numerose variazioni e contaminazioni (comprese quelle col war movie e la fantascienza), è abbastanza curioso come il caso di questo nuovo Papillon rappresenti uno dei pochi approcci diretti, in forma di remake, a un classico ben vivo nella memoria collettiva. Il film del 1973 di Franklin J. Shaffner, basato sull’autobiografia dello scassinatore Henri Chàrriere, cruda ricognizione sul sistema penale francese (e sul colonialismo) in forma di opera d’intrattenimento, non ha mai diminuito la sua popolarità attraverso i decenni, vuoi per i ripetuti passaggi televisivi, vuoi per l’efficacia della coppia Steve MacQueen/Dustin Hoffmann, sinergia di carisma nella più classica celebrazione dell’amicizia virile e della lealtà. Un approccio, quello del regista Michael Noer, che sceglie qui la strada sicura della narrazione filologica con minime variazioni, optando per una coppia di protagonisti che richiami fisicamente i due interpreti originali, e per un aggiornamento dell’estetica e del ritmo che in qualche modo avvicini il soggetto alla sensibilità delle fasce di pubblico più giovani.

Uno dei problemi di questo Papillon versione 2017, in effetti (già presentato al Biografilm Festival di Bologna, dopo la première a Toronto) sta proprio nella sua scelta di adagiarsi comodamente sul soggetto originale, depotenziandone nel contempo i tratti più spigolosi, le esplosioni di inusuale crudezza (almeno in un film destinato al grande pubblico), il sentore animalesco e primitivo della dialettica costrizione/libertà che permeava tutto l’originale; oltre al senso epico del racconto legato (anche) alla sua estensione temporale. Non si tratta solo della scelta della sceneggiatura di sintetizzare (o eliminare del tutto) alcuni episodi narrati nel film di Shaffner, né di ridurre la durata del materiale originale di quasi mezz’ora: nel dramma ri-narrato di Henri “Papillon” Chàrriere e del suo amico Louis Dega si avverte molto meno, e con esiti molto meno dolorosi, il sentore del tempo che passa, il furto degli anni ad opera dell’istituzione carceraria, la morte sempre dietro l’angolo, in forma di un colpo di fucile o di una resa definitiva alla follia della reclusione. Una mancanza che le aggiunte, superflue, in testa e in coda al film (lo scorcio della vita criminale di Papillon e il suo arresto, il suo ritorno in Francia in vecchiaia) non riescono di fatto a compensare.

Quello di Michael Noer, al netto di un soggetto che inevitabilmente ha conservato in sé, negli anni, parte del suo fascino (dovuto anche al suo particolare contesto storico, che vede il furto ad opera di un singolo individuo contrapposto alla predazione dei beni di interi popoli) risulta di fatto un discreto, levigato, inevitabilmente annacquato action movie, con l’ambientazione storica usata in funzione molto più esornativa (e meno funzionale alla storia) rispetto al suo modello, e poca voglia di graffiare. Se si fosse spostata la storia di Papillon e delle sue ripetute fughe altrove (in un moderno carcere occidentale, per esempio, o nel futuro) non sarebbe poi cambiato granché: la colonia penale della Guiana Francese, la desolazione dell’Isola del Diavolo, persino i claustrofobici interni dell’istituto d’isolamento, non sfuggono qui a un fastidioso sentore di location turistiche. Non è un caso che la parentesi della vita del protagonista nel villaggio indigeno (col contrasto plastico, nel film del ‘73, con l’organizzazione sociale occidentale, fuori e dentro le sbarre) sia stata praticamente espunta; così come non è un caso l’eliminazione delle due parentesi oniriche durante la prigionia in isolamento, rappresentazione di una mente a un passo dal deragliare. Suggestioni che, nel film di Shaffner, risentivano della concomitanza temporale col periodo della New Hollywood, pur in un’opera che ne restava teoricamente lontana.

Questo nuovo Papillon finisce così per risultare, paradossalmente, eccessivamente datato (per come non riesce a offrire uno sguardo nuovo sul genere, e su una vicenda già nota) e nel contempo troppo legato a una sensibilità contemporanea che edulcora il materiale più scabroso, e che, pur laddove mostra fisicamente il sangue, si guarda bene dal corredarlo del necessario racconto della sofferenza. Ci si scopre, nel finale (il lettore ci perdonerà qui lo spoiler), a domandarsi il perché dell’ultimo, disperato e riuscito, tentativo di fuga del protagonista, e a comprendere maggiormente (e in modo paradossale) la scelta di restare sull’isola dell’amico Dega. Quest’ultimo, da par suo, col volto di Rami Malek, non mostra un grammo della follia disperata, del senso di grottesca resa, che gravava sul personaggio interpretato a suo tempo da Dustin Hoffman: ma qui non vogliamo tanto fare paragoni (inevitabilmente ingenerosi) di resa attoriale, quanto di concezione a monte dei personaggi, principalmente a livello di sceneggiatura. L’epopea di Papillon, e della sua vittoria sull’ingranaggio carcerario, qui scivola via senza disturbare, ma anche senza graffiare e mettere davvero radici nella mente dello spettatore.

Info
Il trailer di Papillon.
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