L’albero del vicino

L’albero del vicino

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L’islandese Hafsteinn Gunnar Sigurdsson, che trionfò a Torino nel 2011 con Either Way, si avventura con L’albero del vicino in territori prossimi al dramma denso di grottesco, raccontando una faida familiare che vorrebbe avere l’ambizione di allargarsi a sguardo sull’umanità contemporanea, e la sua ferale crudeltà.

Un posto al sole

Agnes scopre il compagno Atli mentre guarda un video porno di cui lui stesso è protagonista, ma lei no: scoprendosi tradita, lo caccia di casa e gli impedisce di vedere la figlia. Atli va a stare dai genitori, immersi a loro volta in una guerra a bassa intensità: motivo del conflitto è l’albero frondoso dei genitori di Atli, che non consente alla moglie del vicino di casa di prendere il sole in veranda come vorrebbe. [sinossi]

Con un registro stilistico asciutto e compatto, il regista Hafsteinn Gunnar Sigurdsson (vincitore del Torino Film Festival nel 2011 con Either Way) mette in scena ne L’albero del vicino una piccola parabola famigliare con l’ambizione di parlare di dinamiche molto più vaste. Come lo stesso regista ha dichiarato lo scorso anno a Venezia, dove L’albero del vicino è stato presentato nella sezione Orizzonti, le liti tra vicini di casa in Islanda sono molto frequenti e spesso hanno a che fare proprio con la presenza di alberi: averli in giardino è un privilegio raro che il proprietario tende a difendere, anche se la cosa può infastidire chi cerca per sé un altrettanto raro raggio di sole. Da questo spunto, e dalla storia in parallelo della separazione di una giovane coppia, si dipana un racconto che parla dell’incapacità di dialogare, negoziare soluzioni, trovare mediazioni tra i bisogni e dove si muovono personaggi chiusi nei propri egoismi e autismi percettivi. Le conseguenze di questi atteggiamenti, ci dice Sigurdsson, possono essere nefaste. E su scala più ampia possono diventare politicamente drammatiche. La lite tra vicini e la menzogna nel nucleo famigliare sono insomma metafore di una società che non sa più affrontare con ragionevolezza i conflitti e in cui le persone – seppur inserite in contesti regolati, razionali e apparentemente “educati” – reagiscono a grandi drammi e a piccoli screzi solo come animali feriti, fino a diventare belve.

Geometrico, compresso e fin troppo meccanico, L’albero del vicino guarda al Ruben Östlund di Forza maggiore, ma anche a Michael Haneke e un po’ all’antico Ulrich Seidl di Canicola. L’algida fotografia della polacca Monika Lenczewska e l’ottimo commento sonoro di Daniel Bjarnason (che fin dall’inizio dona un tono nerissimo alla vicenda) sorreggono una regia che penetra nei volti e negli ambienti, nei non detti e nei sottili ricatti, fin dalla prima inquadratura e in maniera brutale, irruenta, senza alcun fronzolo. Insomma: c’è una soglia stilistica netta e decisa, volta a farsi carico di un crescendo di violenza. La scelta, più che lecita, è però anche un limite, perché lo svolgersi del film è così tanto centrato su “azione/reazione” che l’escalation è fin troppo programmatica. In questo schema narrativo ci sono personaggi scritti meglio (la giovane coppia Agnes e Atli) e altri che sembrano più che altro solo funzionali a portare L’albero del vicino nella direzione prestabilita. Il film a volte vira al grottesco (la sequenza del cane), che però risulta una premeditata e un po’ compiaciuta ironizzazione sulla violenza strisciante e poi pesantissima che è il vero centro del racconto. Triste ed efficace è la resa dei deprimenti ambienti, dalle villette a schiera ai caseggiati, fino agli ordinati e repressivi uffici e scuole materne. Interessante la riflessione sui figli, sul loro senso e ruolo in una società atomizzata: la progenie risulta anch’essa parte della “proprietà privata”, finendo quindi travolta in una guerra tutta privatistica tra interessi e beni solo individualmente pensati e concepiti. Non è un caso se le donne, ognuna delle quali vive un conflitto interiore con la maternità, sono intimamente le più ferali e le meno disponibili al dialogo con l’altro, lottando al fine per il massimo bene individuale, i propri figli appunto.

Gli spunti non mancano e il lavoro di Sigurdsson ha la sua compiutezza. Tanto ragionata e un po’ asfittica. L’albero del vicino pare un sistema a circuito chiuso, di cui si può apprezzare il tentativo di costruire una parabola “politica” partendo da due villette a schiera (e che senza dubbio ha un suo riscontro oggettivo e quotidiano, nelle vite di tutti, anche nell’odio profuso sui social), ma che a fatica va oltre a questa ossessione, forzando parecchio l’eclatante esito. Tralasciando la scena finale, che vuol dare una pennellata sarcastica in un momento in cui forse la nota è stonata, l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un film che esibisce una tesi senza tanto preoccuparsi della credibilità umana di quanto mostrato, col risultato di essere sì netto e concluso, ma pure poco integrato al suo interno con i passaggi e gli snodi più intimi, i soli che donano maggior verità al film. Nonostante la ricerca di qualche sfumatura, L’albero del vicino vuole essere monolitico e andare dritto all’obiettivo: scelta onestissima, che si paga in termini di adesione, non possedendo la forza per diventare così potentemente metaforico da farci dimenticare del tutto storia e personaggi.

Info
Il trailer de L’albero del vicino.

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