Il signore degli anelli

Il signore degli anelli

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La prima storica riduzione cinematografica de Il signore degli anelli, romanzo-fiume di J.R.R. Tolkien, fu firmata nel 1978 da Ralph Bakshi. Nonostante sia stata in parte oscurata dalla trilogia diretta da Peter Jackson, questa versione animata mostra dopo quarant’anni una vitalità e una ricchezza sorprendenti.

Senza fine

Nei tempi antichi vennero forgiati diciannove anelli magici: sette grandi anelli vennero dati ai nani, tre agli elfi e nove ai re degli uomini. Tuttavia il malvagio Sauron, l’Oscuro Signore di Mordor creò l’Unico Anello e con esso iniziò a dominare gli altri popoli liberi della Terra di Mezzo. Nonostante il suo potere, egli venne sconfitto da Isildur, il quale si impossessò dell’anello. Ma poiché Isildur non lo distrusse, Sauron riuscì a sopravvivere alla sconfitta. Dopo la morte di Isildur, l’Unico Anello cadde nel Grande Fiume e lì fu ritrovato in seguito dalla misteriosa creatura Gollum, che se ne impossessò dopo aver ucciso il suo amico Déagol. L’anello portò Gollum ben presto alla pazzia. Tuttavia, anche quest’ultimo arrivò a perdere l’anello che venne ritrovato da Bilbo Baggins, uno Hobbit della Contea… [sinossi]

No, ovviamente Il signore degli anelli non termina sulle parole “Le forze dell’oscurità vennero ricacciate per sempre dalla faccia della Terra di Mezzo a opera dei valorosi amici di Frodo; e con la fine della loro vittoriosa battaglia finisce anche il primo grande favoloso racconto de Il signore degli anelli”. Qualora non si fosse letto il capolavoro di J.R.R. Tolkien basterebbe aver visto la trilogia diretta da Peter Jackson per esserne consapevoli. Eppure è proprio così che finisce il racconto per immagini orchestrato quarant’anni fa da Ralph Bakshi, nato in Palestina nel 1938 ma ben presto trasferitosi nel Bronx. Un nome quasi dimenticato quello di Bakshi, forse perché non dirige un film per il cinema da oltre venticinque anni, quando uscì nelle sale Fuga dal mondo dei sogni, crudele e a suo modo disilluso contraltare di Chi ha incastrato Roger Rabbit? destinato a non avvicinarsi neanche al successo planetario del capolavoro di Robert Zemeckis. Eppure per un ventennio Bakshi è stata una figura centrale tanto dell’universo dedito all’animazione quanto della controcultura a stelle e strisce, come dimostra il sulfureo Fritz il gatto, con cui esordì alla regia a trentaquattro anni. All’interno della sua ricca filmografia interamente da riscoprire, tra Wizards e American Pop, Bakshi colloca un progetto a dir poco ambizioso, quello di tradurre in immagini l’opera letteraria di Tolkien.

Ci sono alcuni aspetti da tenere a mente prima di affrontare la visione de Il signore degli anelli. Innanzitutto al momento della lavorazione delle riprese Tolkien era morto da meno di cinque anni; in secondo luogo John Boorman sul finire degli anni Sessanta aveva già ricevuto l’incarico di scrivere una sceneggiatura della trilogia (traducendola in un unico film), ma si era preso così tante libertà dal testo originale che la United Artists, proprietaria dei diritti di sfruttamento cinematografico dell’opera, lo aveva licenziato. Il furore visionario di Boorman non collimava con il rigore letterario di Tolkien, ma l’atmosfera cavalleresca lo affascinava, al punto che alcuni degli aspetti dello script verranno ripresi dal regista britannico al momento di mettersi al lavoro su Excalibur, fondamentale punto di passaggio del fantasy. È anche importante notare come il film affidato a Boorman sarebbe dovuto essere girato interamente ricorrendo ad attori in carne e ossa.
Quando il progetto passa in mano a Bakshi, grazie all’intervento del produttore Saul Zaent, con cui il regista aveva già lavorato per Fritz il gatto, tutto viene stravolto: si torna a un rispetto ossequioso del testo originale, e si pensa di smezzare in due parti il racconto, traducendo in immagini in un primo capitolo gli avvenimenti fino alla battaglia del Fosso di Helm. Come avrà intuito anche chi non fosse a conoscenza di questo film, la seconda metà non fu mai girata. Il motivo è fin troppo ovvio: l’insuccesso commerciale.

Sono eleganza e raffinatezza i primi concetti che si fissano nella mente dello spettatore durante la visione del Il signore degli anelli. Dopo che sui titoli di testa – rossi su sfondo nero – la musica epica e fin troppo trionfale di Leonard Rosenman (pare che Bakshi volesse i Led Zeppelin, riprendendo l’idea di Boorman di accostare al medioevo cavalleresco un’attitudine rock: dopotutto Jimmy Page e Robert Plant sono veri e propri cultori dell’intera opera di Tolkien…) ha preso il sopravvento, sono silhouette nere su sfondo rosso ad accompagnare la voce narrante. Bakshi sembra prendere per mano il fantasy, genere considerato adolescente per eccellenza, e sposarlo da un lato con la geometria prospettica sovietica, con tanto di figure che battono martelli sopra incudini, e dall’altro con gli albori del cinema d’animazione, a partire da Lotte Reiniger. Anche la battaglia dell’Anello, dopo che Sauron forgiò l’unico, sembra preconizzare le guerre combattute da Vlad nell’incipit sontuoso di Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola, mentre l’immagine dei cavalieri neri che galoppano al tramonto è figlia tanto di Ejzenstein quanto di Ingmar Bergman – quella collina a tagliare a metà l’inquadratura…
C’è un momento di passaggio, in questa prima parte del film, che evidenzia la capacità tattile e allo stesso tempo teorica di Bakshi di concepire la messa in scena: Sméagol, futuro Gollum, e Déagol stanno pescando su una barca nell’Anduin. Quando la macchina da presa è sott’acqua, il disegno appare quasi disneyano, morbido, strettamente legato a un concetto mainstream dell’animazione. Ma quando i protagonisti sono i due hobbit della famiglia degli Sturoi, ecco di nuovo il reticolo rosso con l’utilizzo della silhouette. In questo campo/controcampo tra tradizione e sperimentazione si racchiude il senso ultimo sia de Il signore degli anelli che dell’intera carriera autoriale del regista nativo di Haifa.

La stessa spinta alla ricerca delle possibilità di una sintesi tra le diverse tecniche è evidenziata dal più citato tra i “dettagli” del film, vale a dire l’utilizzo massiccio – e massicciamente estetico – del rotoscope. In un fantasy animato e popolato da nani, hobbit e altre creature bizzarre, Bakshi non rinuncia in alcun modo alla ripresa live-action, intessendola con una grazia quasi commovente all’interno del tessuto visivo e narrativo. Nessun disegno avrebbe potuto rendere con altrettanta efficacia orrorifica l’avvento degli orchi, per esempio. Anche per queste continue fughe libere dalla “norma” Il signore degli anelli appare a quarant’anni di distanza dalla sua creazione più giovane e avvincente che mai, oltre a sottolineare il ruolo svolto all’interno dell’immaginario fantasy del cinema contemporaneo. Basterebbe vedere in parallelo come Jackson ha ripreso direttamente alcune delle soluzioni visive, perfino alcuni tagli di montaggio o costruzioni del quadro, dal film di Bakshi per rendersi conto di quanto sia necessario riscoprire questa piccola gemma scomparsa troppo in fretta proprio per la sua natura monca, che come tutti i film infiniti – non finiti – rappresenta anche uno dei motivi di fascino più forti e persistenti. La sequenza della locanda di Brea, l’eliminazione del personaggio di Tom Bombadil, perfino alcune inesattezze (si veda tutta la parte relativa al Fosso di Helm, con il ruolo assegnato a Éomer nella battaglia, ad esempio) dimostrano come Jackson si sia rapportato all’opera di Bakshi con un rispetto quasi religioso, e la volontà di non smentirne alcune delle intuizioni.
Avvincente ed esaltante come tutto ciò che si approccia a Tolkien senza alcun intento di ricrearlo in modo estemporaneo – e il riferimento va ovviamente alla trilogia dedicata sempre da Jackson stavolta a Lo Hobbit, avventura picaresca che pare un aggiornamento della satira di Swift trasformata in epica cavalcata medioevale –, Il signore degli anelli è un oggetto da riscoprire e da studiare con ben altra attenzione rispetto a quella finora concessagli. Meriterebbe un analogo trattamento l’intera carriera di Ralph Bakshi, che solo pochi anni fa ha faticato a trovare con un crow-founding i fondi per portare a termine un cortometraggio (Last Days of Coney Island). Per chiudere un’avvertenza. Se siete curiosi appassionati della letteratura di Tolkien o del film di Bakshi vi capiterà di imbattervi in un film d’animazione dal titolo Il ritorno del re, prodotto nel 1980. Non lasciatevi però ingannare dalle apparenze: si tratta di un pessimo lavoro diretto per la televisione britannica da Jules Bass e Arthur Rankin Jr., già autori tre anni prima di un altrettanto dimenticabile The Hobbit. Non ha nulla a che vedere con la mancata narrazione della seconda parte del film di Bakshi, e soprattutto non possiede un grammo della potenza visionaria, dell’eleganza e della stratificazione cinefila della regia di Bakshi.

Info
Il trailer de Il signore degli anelli.
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