Les tombeaux sans noms
di Rithy Panh
Rithy Panh torna una volta di più con Les Tombeaux sans noms a interrogarsi sulla Cambogia, sulla memoria (per lui anche tragicamente autobiografica) del genocidio perpetrato dal regime dei Khmer Rossi, e sul destino dell’umanità: un’opera dolorosissima in grado di elevare il personale a universale. Film d’apertura per le Giornate degli Autori 2018.
Alla ricerca dell’immagine mancante
Dopo L’immagine mancante ed Exile, Rithy Panh continua il suo percorso di ricerca personale e spirituale. S21 – La macchina di morte dei Khmer Rossi e Duch, le maître des forges de l’enfer analizzavano i meccanismi del crimine. Les tombeaux sans noms è l’espressione del bisogno di ritrovare la pace. Quando un uomo, che a tredici anni ha perso quasi tutta la sua famiglia sotto il regime dei Khmer rossi, va alla ricerca delle tombe dei suoi familiari, non importa se su un terreno d’argilla o puramente spirituale, cosa trova? E soprattutto, cosa sta cercando? Alberi spettrali? Villaggi ormai irriconoscibili? Testimoni tanto spaventati da non voler parlare? Il tocco etereo del corpo di un fratello o di una sorella al calare della notte? Un film che va ben oltre la storia di un singolo Paese assumendo una dimensione universale. [sinossi]
Les tombeaux sans noms. Non può esistere titolo in grado di illustrare meglio e con maggior precisione il senso non solo di ciò che viene narrato nel film, ma forse dell’intero cinema di Rithy Panh. Panh, il regista sopravvissuto (se “sopravvivere” può essere un verbo adeguato in un contesto simile) allo sterminio della sua famiglia, perpetrato dai Khmer Rossi di Pol Pot in nome di una rivoluzione tra le più folli e criminali dell’intero Ventesimo Secolo. Panh, il tredicenne che è scampato allo sterminio e venti anni dopo ha cercato di riannodare i fili con la storia, personale e del suo popolo. Una filmografia che è in realtà un cammino nel calvario, un passo dopo l’altro dentro l’atrocità impossibile da rimuovere dagli occhi e dalla mente. Decine, centinaia, migliaia di persone mandate al macello con la scusa – altro termine orribilmente inadeguato – del ritorno ai campi, a una vita contadina, in un rigetto delle nuovi classi borghesi sviluppatesi durante il periodo coloniale. Il cinema di Panh non è un semplice viaggio nella Storia, in grado di rendere edotta tutta quella parte della popolazione mondiale che ignora, se non completamente almeno in parte, ciò che accadde durante i brevi ma atroci anni della cosiddetta Kampuchea Democratica; così fosse il suo compito si esaurirebbe nella testimonianza, e il valore della sua arte sarebbe irrinunciabile, ma fermo a uno stato documentale. No. Il cinema di Rithy Panh, perfino quando si allontana dal documentario per confrontarsi con la finzione tout court (Un barrage contre le Pacifique, tratto da Marguerite Duras, o Gibier d’élevage che prende spunto – trasportandolo in Cambogia – da L’animale d’allevamento del Premio Nobel Kenzaburō Ōe) allarga il proprio discorso a una riflessione sull’umano, sul suo rapporto con la terra e con coloro con cui la condivide, su padroni e servi.
Nonostante l’afflato poetico e introspettivo che irradiano la sua opera, Panh è un regista sistemico, che sa guardare con nettezza il mondo che lo circonda e ne trae una interpretazione pessimista. L’uomo non è in grado di elevarsi al di sopra della propria mediocrità, e sfrutta il potere come elemento di sfogo della propria incapacità. Il rigore accusatorio che accompagnava alcuni dei titoli centrali della sua esperienza cinematografica (S-21 – La macchina di morte degli Khmer Rossi o Duch, le maître des forges de l’enfer, per esempio) si è fatto via via sfumato, sorpassato da un’indole dolente, dominata dalla memoria di una vita che durò poco e non c’è più, spazzata via dalla morte, dall’orrore, dall’inferno in terra, come dice uno dei testimoni che prendono la parola in Les Tombeaux sans noms. Non è più alla ricerca di giustizia, termine troppo vago e che non possiede la pienezza della carne, della materia, del ricongiungimento, ma solo la precisione dei dati. Panh vaga con la sua videocamera alla ricerca di un contatto anche medianico con coloro che non ci sono più, con i genitori, con i fratelli, con i nipotini. Le tombe senza nome sono le loro, e di tutti gli innumerevoli cambogiani che morirono di stenti e furono sepolti senza rito funebre, senza alcun segno lasciato per i posteri. Come se il terreno cambogiano fosse un’unica immensa fossa comune, Rithy Panh cerca di ricostruire non una storia – quella c’è, sia nella versione ufficiale che nel dolore di chi ha vissuto la tragedia – ma il tessuto connettivo di una famiglia, di un popolo, di un sentimento comune. Il suo canto funebre è l’inno di una riconquista della materia là dove la materia non c’è più da decenni. Ogni singola testimonianza raccolta durante il viaggio è solo un tassello ulteriore per attribuire volti a schegge d’osso, a brandelli di camicie sepolte. Ogni singola testimonianza è il fugace tocco morbido e delicato di un parente, la carezza che non è mai stata portata a compimento.
Per raggiungere il proprio obiettivo Panh si affida, oltre alle testimonianze e alle riprese di una Cambogia splendida e desolata, terreno brullo e dolcissimo allo stesso tempo, alla voce narrante affidata (come già ne L’image manquante) a Randal Douc, al lavoro con Panh anche in Un barrage contre le Pacifique. Una voce che narra in francese. Una voce che fu (è) coloniale. Una voce che oltre a un testo scritto dal regista insieme ad Agnès Sénémaud prende spunto da svariate fonti, tra le quali Paul Éluard e stralci della sceneggiatura che Jean Cayrol scrisse per Notte e nebbia di Alain Resnais. Attraverso lo spaesamento, allontanandosi solo apparentemente dalla natura dura e cruda del contesto storico, Panh universalizza il discorso, tracciando un nuovo segmento nella sua articolata avventura cinematografica. La memoria personale, il lutto, la tragedia intima non diventa solo un modo per leggere l’umanità, ma anche per stratificare il dato biografico, per donargli una bibliografia, un’appartenenza non solo storica ma anche filosofica.
Dolorosissimo, denso e incredibilmente vivo Les Tombeaux sans noms è un lavoro prezioso, scelto giustamente dalle Giornate degli Autori come titolo d’apertura di questa nuova edizione della sezione. Il modo più giusto per avvicinarsi al 2019, quando in Cambogia si festeggerà il quarantennale della caduta del regime.
Info
La scheda di Les tombeaux sans noms sul sito delle Giornate degli Autori.
- Genere: documentario
- Titolo originale: Les tombeaux sans noms
- Paese/Anno: Cambogia, Francia | 2018
- Regia: Rithy Panh
- Sceneggiatura: Agnès Sénémaud, Rithy Panh
- Fotografia: Prum Mésar, Rithy Panh
- Montaggio: Rithy Panh
- Colonna sonora: Marc Marder
- Produzione: Anupheap Production, Arte France, CDP, Unité Société et Culture
- Durata: 115'
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