Venezia 2018 – Minuto per minuto
Dal primo all’ultimo giorno della Mostra di Venezia 2018, tra proiezioni stampa, tardivi recuperi, code, film, sale, accreditati, colpi di fulmine e ferali delusioni: l’appuntamento con il Minuto per minuto, cronaca festivaliera dal Lido con aggiornamenti quotidiani, a volte anche notturni o drammaticamente mattinieri…
Concorso, Fuori Concorso, Orizzonti, Settimana della Critica, Giornate degli Autori, la neonata sezione Sconfini e tutto quel che segue. Cercheremo di raccontarvi le frenetiche giornate alla Mostra del Cinema di Venezia 2018, in corso dal 29 agosto all’8 settembre. Buona lettura.
Sabato 8 settembre 2018
_________________________________
20.11
Ed eccoci all’ultimo atto. I premi e i Leoni, in primis il Leone d’oro.
In fin dei conti, poche sorprese.
Leone d’oro: ROMA di Alfonso Cuarón.
Gran Premio della Giuria: The Favourite di Yorgos Lanthimos.
Leone d’argento per la miglior regia: Jacques Audiard per The Sisters Brothers.
Coppa Volpi per la miglior attrice: Olivia Colman per The Favourite di Yorgos Lanthimos.
Coppa Volpi per il miglior attore: Willem Dafoe per At Eternity’s Gate di Julian Schnabel.
Premio migliore sceneggiatura: Joel ed Ethan Coen per The Ballad Of Buster Scruggs.
Premio Speciale della Giuria: The Nightingale di Jennifer Kent.
Premio Marcello Mastroianni: Baykali Ganambarr per The Nightingale di Jennifer Kent.
Premio Orizzonti per il miglior film: Manta Ray di Phuttiphong Aroonpheng.
Premio Orizzonti per la migliore regia: Emir Baigazin per The River.
Premio Speciale della Giuria Orizzonti: The Announcement di Mahmut Fazil Coşkun.
Premio Orizzonti per la migliore attrice: Natalya Kudryashova per The Man Who Surprised Everyone di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov.
Premio Orizzonti per il miglior attore: Kais Nashif per Tel Aviv On Fire di Sameh Zoabi.
Premio Orizzonti per la miglior sceneggiatura: Jinpa di Pema Tseden.
Premio Orizzonti per il miglior cortometraggio: Kado di Aditya Ahmad.
Premio Venezia Opera Prima Luigi De Laurentis: The Day I Lost My Shadow di Soudade Kaadan.
Miglior classico restaurato: La notte di San Lorenzo di Paolo e Vittorio Taviani.
Miglior documentario sul cinema: The Great Buster: A Celebration di Peter Bogdanovich.
Miglior VR Storia Immersiva: Spheres di Eliza McNitt.
Miglior Esperienza VR per contenuto interattivo: BUDDY VR di Chuck Chae.
Migliore Storia VR per contenuto lineare: L’île Des Morts di Benjamin Nuel
A seguire, proiezioni dei vincitori, per eventuali recuperi o seconde visioni. Al prossimo anno. [e.a.]
18.44
Tra i recuperi di giornata, il ritorno a Venezia nella sezione Orizzonti di Garin Nugroho. Memories of My Body racconta la vita del danzatore Lengger Wahyu Arjuno, in cui Nugroho intreccia ancora una volta il cinema alle arti tradizionali giavanesi, la danza, il teatro delle ombre, il teatro-danza balinese e rievoca una fase storica del paese negli anni ’70, la sua cultura popolare e la dura vita sotto la dittatura di Suharto. [g.r.]
11.55
L’ultima giornata della Mostra è inevitabilmente dai premi, ma offre anche gustosissimi recuperi. Tra pochi minuti (12.00), ad esempio, Memories of My Body di Garin Nugroho al PalaBiennale; alle 14.00 in Sala Perla il vincitore della Settimana della Critica, Still Recording di Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub; alle 15.00 The Killers di Siodmak nella punitiva Sala Volpi; alle 16.00 il nuovo documentario di Sergei Loznitsa, The Trial, in Sala Darsena. Poi, la sera, i vincitori di Orizzonti e del Concorso… [e.a.]
11.40
Killing, per l’appunto. Shinya Tsukamoto arriva per ultimo in concorso e straccia in appera un’ora e venti l’intera concorrenza. Un’opera ipnotica, in pieno deliquio eppure così pura e netta nell’affrontare la rinascita del militarismo nel Giappone di Abe contrapponendovi un’elegia pacifista quanto iper-violenta, in cui la macchina non esiste più – Killing è un jidai-geki con combattimenti chanbara, ed è quindi ambientato nell’era Tokugawa – ma esiste solo l’uomo, con la sua guerra interna tra istinto del sangue e rifiuto dell’atto dell’uccisione. In un mondo ideale gli si metterebbe subito in mano il Leone d’Oro. Difficile, si spera però che almeno un premio lo riceva. [r.m.]
10.28
Rivedere in mattinata all’ultima proiezione utile Killing di Shinya Tsukamoto ci sembrava necessario vista l’ipnotica grandezza del nuovo film del cineasta giapponese. Ma, ancora una volta, non si può fare a meno di reagire con stizza di fronte al malcostume dei proiezionisti del Lido, i quali – non appena cominciano i titoli di coda – accendono le luci, fregandosene del fatto che sulla schermo scorrano ancora delle immagini, importanti da vedere anche se parzialmente coperte dalle scritte. E in Killing c’è un’ultima inquadratura proprio di questo genere, bella, molto importante, ambigua e quasi-lynchiana, la cui visione però in entrambe le occasioni in cui abbiamo visto il film ci è stata offuscata. Al Festival di Cannes si rispetta il buio della sala fino alla fine dei titoli, perché Venezia non comincia a fare altrettanto? [a.a.]
Venerdì 7 settembre 2018
_________________________________
19.42
Presentato Fuori concorso alla Mostra, Un peuple et son Roi di Pierre Schoeller racconta il periodo che va dalla presa della Bastiglia alla decapitazione di Luigi XVI. Operazione decisamente ambiziosa, che ha inoltre richiesto al regista 7 anni di preparazione, il film conduce lo spettatore all’interno di un trapasso, in un viaggio da un mondo a un altro, attraverso gli episodi principali che catalizzarono sempre più il “quarto stato” verso gli ideali dell’uguaglianza e della libertà. Schoeller riesce in un’impresa difficile: quella di onorare il popolo, con il suo sovversivo impulso verso la giustizia sociale, e al tempo stesso di porre lo spettatore dentro ai fatti, mettendolo nella condizione di porsi molti interrogativi. Schoeller non scade mai nell’errore di giudicare la Storia, ma posiziona il suo sguardo in modo tale che siamo noi a dover valutare i tanti snodi che, comunemente, chiamiamo “rivoluzione francese”. [e.b.]
19.35
A un giorno dal Leone d’Oro, iniziamo il valzer dei premi con la Settimana della Critica (SIC).
Premio del pubblico Sun Film Group:
Still Recording di Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub (Siria, Libano, Qatar, Francia, Germania)
Premio Circolo del Cinema di Verona:
Bêtes blondes di Maxime Matray e Alexia Walther (Francia)
Premio Mario Serandrei – Hotel Saturnia & International per il Miglior Contributo Tecnico:
Still Recording di Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub (Siria, Libano, Qatar, Francia, Germania)
La giuria composta dai membri della Woche der Kritik (Settimana della Critica di Berlino), guidati da Michael Hack, ha assegnato i premi ai cortometraggi in concorso alla terza edizione di SIC@SIC (Short Italian Cinema @ Settimana Internazionale della Critica).
Premio al Miglior Cortometraggio:
Malo tempo di Tommaso Perfetti (Italia, 2018. Col., 19’)
Premio alla Migliore Regia:
Gagarin, mi mancherai di Domenico De Orsi (Italia, 2018. Col., 20’)
Premio al Miglior Contributo Tecnico
Quelle brutte cose di Loris Giuseppe Nese (Italia, 2018. Col.,11’)
Domani cercheremo di riportare sul Minuto un po’ di premi collaterali (sono tanti…). Poi, ovviamente, i premi ufficiali. [e.a.]
16.46
In attesa di scoprire – tra poco meno di un’ora – il vincitore della Settimana della Critica, la sezione si è ufficialmente chiusa con la proiezione di Dachra, horror tunisino diretto dall’esordiente Abdelhamid Bouchnak. Una storia di stregoneria e di barbarie che guarda a molta storia del genere – con tanto di citazione da Psycho – e segna un passaggio nella percezione del cinema nordafricano contamporaneo. Non privo di lungaggini, soprattutto nella prima parte, ma affascinante. [r.m.]
12.22
Il festival è ormai agli sgoccioli, è tornata la pioggia qui al Lido e le presenze di accreditati e pubblico si sono drasticamente ridotte. In questo contesto è stato presentato fuori concorso il nuovo film di Zhang Yimou, Shadow, un wuxia discontinuo ma certamente non disprezzabile, superiore rispetto alle ultime prove registiche del regista di Lanterne rosse. Anche solo pensando ad alcuni dei suoi precedenti action, in particolare Hero e La foresta dei pugnali volanti, tutti basati sull’eleganza e sullo ‘svolazzo’ di attori e macchina da presa, Shadow – dopo aver scontato una prima parte inutilmente verbosa – si connota per la matericità delle scene di battaglia, per il sangue che scorre a fiotti, per le trovate delle machinerie utili a combattere, come ad esempio letali ombrelli composti di lame volanti. Non emerge la personalità di un discorso autoriale, ma almeno il film si segnala come un buon intrattenimento. [a.a.]
Giovedì 6 settembre 2018
_________________________________
19.36
Delude Capri-Revolution, il nuovo film di Mario Martone presentato in concorso alla Mostra. Il film sembra aprire molte vie di riflessione (l’interventismo e l’isolazionismo pacifista nella Prima Guerra Mondiale, le comuni proto-hippie, la modernità che irrompe nella vita quotidiana, la nascita della rivoluzione sovietica) per poi smarrirle per strada perdendosi dietro i corpi nudi dei membri della comune. La narrazione procede a strappi, con molti buchi narrativi, e neanche l’estetica viene incontro a Martone, che ha rinunciato al lavoro come direttore della fotografia di Renato Berta. Peccato, davvero. [r.m.]
19.10
Fischiato, deriso, insultato. Anzi, insultata. Del pasticciaccio brutto di The Nightingale oramai sappiamo praticamente tutto: su facebook è diventato virale e rimbalza sulle testate italiane ed estere. Però ci interessa molto di più il film, affascinante ma squilibrato. In buona parte lo vuole anche essere: fuori equilibrio, sotto shock, furibondo e tremebondo. Come la sua protagonista, l’usignolo in cerca di vendetta e di pace. Ecco, The Nightingale è un film in continua ricerca di un punto di appoggio, di un luogo sicuro da incorniciare nel suo ammirevole Academy Ratio. (W)estern politico, capovolto; ritratto di un mondo incivile che è via via diventato civile, ma che qualche passo deve ancora compierlo. Femminista, certo, ma soprattutto sensibile agli squilibri del potere, alla lotta di classe. [e.a.]
18.40
Arriva dalla Finlandia uno strano oggetto, un’opera prima che ha bisogno di una certa pazienza e di un lavoro di deframmentazione post-visione. È M di Anna Eriksson, selezionato in concorso alla Settimana della Critica: una scelta il linea con la ricerca delle ultime edizioni della SIC, incuranti dei rischi e dei possibili tonfi. Eriksson guarda soprattutto a Lynch, alla pittura (Bacon, Hopper, magari anche Magritte), persino a Gaspar Noé. Non citazioni ma influenze, possibili influenze, labirintiche, anche inconsce. M è della stessa materia di cui sono fatti gli incubi. E le ossessioni. M come Marilyn, in una sorta di psicanalitico biopic che si inabissa volutamente nel buio, nella notte nera come la pece. [e.a.]
15.15
Si è conclusa da poco la cerimonia di premiazione con la consegna del Leone d’Oro alla carriera a David Cronenberg, e cogliamo l’occasione per pubblicare un contributo extra al nostro speciale dedicato al cineasta canadese: un saggio sull’art-book Red Cars, pubblicato nel 2006 dall’editore Volumina e testimonianza di una sceneggiatura, scritta dal cineasta canadese nel 1996, e mai trasformatasi in film. [quinlan]
14.16
Con I villeggianti, presentato fuori concorso, Valeria Bruni Tedeschi compone un nuovo capitolo di quella che lei definisce un’autobiografia immaginaria, raccontando storie inconcluse, solitudini, amori di un gruppo di persone che trascorre l’estate in una grande e lussuosa villa in Costa Azzurra. Come quasi tutta la sua filmografia, un’opera che trae origine dalla sua esperienza di vita, diradando nelle atmosfere della grande letteratura russa, da Gorky a Čechov. [g.r.]
13.27
Ieri sera, sui titoli di coda del film The Nightingale, nella proiezione stampa in sala Darsena, un giovane accreditato ha urlato contro la regista “Vergognati puttana, fai schifo!”. Inevitabile che oggi la notizia sia rimbalzata un po’ ovunque, ripresa anche dai media esteri. Al di là della questione sessista, che già gravissima di suo viene persino peggiorata dal fatto che si è urlato contro l’unico film diretto da una donna in concorso, questo squallido episodio rimarca una volta di più la deriva culturale e la degenerazione anche di quella fetta di popolazione che dovrebbe rientrare nella categoria “intellettuale”. Forse sarebbe il caso di iniziare a discutere in maniera seria di dove si sta andando a finire… [r.m.]
13.23
Presentato in concorso nella sezione Orizzonti, l’esordio di Ciro D’Emilio Un giorno all’improvviso è un coming of age che, come il film italiano selezionato alla Sic (Saremo giovani e bellissimi di Letizia Lamartire), ruota attorno al rapporto tra una madre scombiccherata, rimasta incinta da ragazzina, e un figlio maschio dolce, responsabile, innamorato della genitrice. Ottima la scrittura psicologica dell’adolescente Antonio, il protagonista (interpretato da Giampiero De Concilio), meno precisa quella della madre Miriam (Anna Foglietta), il film si nutre di una regia accurata nel restituire la giovinezza con il suo piccolo mondo di caos e capace di fermarsi o “rallentare” nei momenti più drammatici. [e.b.]
Mercoledì 5 settembre 2018
_________________________________
19.30
L’impresa tecnico-artistica di Utøya 22. juli di Erik Poppe, presentato alla Berlinale 2018, lascia il posto alla messa in scena cronachistica, volenterosa e anche un po’ televisiva di 22 July di Paul Greengrass, che della strage di Utøya vuole raccontare sostanzialmente tutto. E forse niente. Vediamo il prima (la preparazione alla giornata di morte di Breivik), il durante (chiaramente un pugno nello stomaco) e il dopo, con un parallelo tra le sofferenze e la rinascita del giovane protagonista e la sofferenza e la rinascita della Nazione. Alcune sequenze francamente superflue e inutili (la corsa con la motoslitta), il tentativo di tenere insieme i numerosi piani narrativi e l’infelice scelta dell’inglese. Alla faccia del multiculturalismo. Innocuo, fuori posto. [e.a.]
19.22
Non colpisce particolarmente nel segno il nuovo film presentato in concorso alla Settimana Internazionale della Critica, You Have the Night, opera prima di Ivan Salatić, in cui – sullo sfondo della chiusura dell’unico cantiere navale montenegrino – si mette in scena la depressione generalizzata degli abitanti del luogo. Salatić sa senza dubbio girare e riesce a descrivere in maniera efficace delle situazioni anche solo con pochi tocchi e poche inquadrature. Il problema è che il film si pone in modo troppo punitivo nei confronti degli spettatori e, allo stesso tempo, non sa bene come chiudere il suo percorso narrativo/simbolico. [a.a.]
16.22
Il cinema di Carlos Reygadas è sempre uguale a se stesso. Coerente, perfino. Peccato che questa coerenza porti con sé un’autoindulgenza fastidiosa, e un’estetica tanto fertile sulla carta quanto debole e priva di contenuto alla resa dei conti. Nuestro tiempo, presentato in concorso, non fa certo eccezione. Due ore e cinquanta per affermare che l’uomo con la sua dialettica ha dimenticato per strada le semplici regole della “natura”. Irritante e per la maggior parte del tempo pretestuoso. [r.m.]
13.50
Dopo i confronti con McNamara e Kissinger, in American Dharma (fuori concorso alla Mostra) Errol Morris intervista Steve Bannon, coordinatore della vincente campagna elettorale di Trump e sostenitore dei populismi di destra europei. Personalità inquietante, intelligentissima e perciò altamente pericolosa, alle (poche) domande scomode del regista Bannon si avvale della facoltà di svicolare o non rispondere, dominando di fatto la scena. Alla terza grande intervista con controverse personalità della politica americana, ci si chiede dove vada a parare l’operazione perseguita da Morris, ineluttabilmente destinato a essere schiacciato da manipolatori di professione che non hanno alcuna intenzione di rivelarsi. Ma, come anche in The Fog of War e molto più che in The Unknown Known, nelle crepe dei discorsi e nelle contraddizioni lasciate aperte, lo spettatore può intravvedere il volto, la verità della persona. E, davvero, American Dharma lascia una sensazione terribile: il nemico è alle porte. [e.b.]
13.15
La sezione dedicata ai restauri dei classici permette di evadere da una contemporaneità a volte fin troppo grigia: è così per titoli come The Killers (in italiano Contratto per uccidere) diretto nel 1964 da Don Siegel. Adattamento del racconto di Ernest Hemingway Gli uccisori, che aveva già ricevuto una trasposizione sul grande schermo nel 1946 sempre con il titolo The Killers ma per la regia di Robert Siodmak – anche se venne anche allora contattato Siegel -, il film di Siegel da principio era stato pensato per la televisione. Di più, sarebbe dovuto essere il primo tv-movie della storia. La violenza della regia dinamica e ultramoderna di Siegel costrinsero i produttori a tornare al cinema, regalando al pubblico uno dei più grandi noir e thriller della storia del cinema a stelle e strisce. Seminale, eccitante e con un finale che rimane incollato nella memoria. [r.m.]
11.22
Amir Naderi si occupa della fine della pellicola, del passaggio al cinema digitale, immateriale nel film Magic Lantern, presentato nella sezione Sconfini. Dopo Cut quindi ancora un film sul feticismo del cinema, in quanto pellicola, cellulosa. Naderi rievoca un mondo vintage che si incarna nel film Paper Moon, film degli anni ’70 ma ambientato negli anni ’30, e nell’icona Jacqueline Bisset, protagonista del più famoso film sul cinema, Effetto notte. La costruzione meta-cinematografica di Naderi risulta tuttavia troppo schematica, e il suo cinema troppo patinato e stucchevole, in contraddizione con l’assunto di partenza. [g.r.]
Martedì 4 settembre 2018
_________________________________
21.31
Nonostante non se ne sentisse la mancanza, il polpettone storico è arrivato comunque in concorso a Venezia, stavolta sotto le vesti di Opera senza autore (Never Look Away), nuovo film del regista tedesco Florian von Donnersmarck, che già a suo tempo con Le vite degli altri aveva dato dimostrazione di saper titillare le corde del nazional-popolare su sfondo storico. Qui si impone l’immancabile nazional-socialismo del Terzo Reich, seguito poi dalla DDR: trent’anni circa di racconto della vita di un pittore, in cui si parte con il dramma sulla malattia mentale, si fa un salto nella commedia sentimentale, poi si vira verso il thriller/noir con nazista cattivo, quindi si abbraccia la commedia di costume con risibile sarcasmo nei confronti delle avanguardie artistiche degli anni ’60; e poi basta, perché le tre ore, per fortuna, sono finite. Di tutto un po’, un pizzico di sale di qua, una rimescolatina di là, senza curarsi del fatto che personaggi in apparenza fondamentali spariscono dal racconto e poi ritornano quando ormai ce li si era dimenticati (la moglie del protagonista) e senza curarsi del fatto che un discorso coerente non emerga. Cosa ci vuole dire von Donnersmarck, infatti? Che l’arte viene repressa durante i regimi totalitari? Lo sapevamo già, e tra l’altro ce l’aveva già detto anche ne Le vite degli altri. In ogni caso, alla fine della proiezione per la stampa gli applausi si sono sprecati, quasi quanto per ROMA di Cuarón. Qualcosa ci sfugge… [a.a.]
21.18
A quasi dieci anni da Dieci inverni Valerio Mieli torna a Venezia con il suo secondo lungometraggio, Ricordi? Tutto immerso nella memoria del passato familiare e sentimentale del protagonista – interpretato da Luca Marinelli – e abilmente giocato su un’infinità di piani temporali, dove il presente non c’è (quasi) mai, Ricordi? punta molto alto, tanto da dare l’impressione, a tratti, di volersi posizione tra il Providence di Resnais e Fellini, ma in fin dei conti finisce soprattutto per apparentarsi con una piacevole commedia indie di qualche anno fa, (500) giorni insieme, che si reggeva tra l’altro su di una scrittura molto più solida. Ricordi? dunque affascina, ma è diseguale nei toni e nella tenuta registica, ed è anche – in fin dei conti – davvero troppo esile come racconto. [a.a.]
20.33
Con Still Recording di Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub la Settimana Internazionale della Critica ha forse trovato il suo film più importante e scioccante, tra i più potenti visti in questa edizione di Venezia 75. Con una dilatazione temporale (più di cinque anni di riprese) simile a quella del documentario passato pochi giorni fa sempre qui al Lido, Isis, Tomorrow, Still Recording – che comunque è ambientato in Siria, tra Damasco e Duma – supera nettamente per intensità e per ‘giustezza’ registica quell’altro lavoro, innanzitutto perché mette in scena la macchina-cinema stessa. Vale a dire che Still Recording è un film sulla guerra e sul cinema, è un film che ragiona sull’inquadrare e che riprende delle morti violentissime, capitate proprio di fronte all’obiettivo. È allo stesso tempo il massimo del soggettivismo (visto che tra i protagonisti del film vi sono i registi stessi) e il massimo dell’oggettivismo, dato che racconta la guerra in Siria come finora ancora non si era vista. E, allo stesso tempo, rappresenta il superamento dei vecchi dilemmi tra etica ed estetica del cinema, perché con un sol gesto riesce ad abbracciare sia l’una che l’altra. [a.a.]
19.00
Erano elevate le attese per l’opera seconda di Brady Corbet, che nel 2015 aveva sbancato Orizzonti con l’ambizioso e potente The Childhood of a Leader. Tre anni dopo, potenza e ambizione restano intatte: presentato in concorso (e accolto da non pochi fischi), Vox Lux è un lavoro complesso, stratificato, persino intricato. Martellante, come la sua colonna sonora. Impietoso nella sua analisi, nella lettura della realtà e della Storia recente. Una parabola morale, estetica, culturale. Una parabola ovviamente discendente, luciferina. Vox Lux indaga i lati oscuri taciuti dall’innocuo A Star Is Born, è una sorta di trasversale biopic del pop e di Madonna (e Britney Spears, e Miley Cyrus), è il punto di arrivo di un percorso iniziato con l’edonismo reaganiano. Corbet unisce una lunga serie di puntini: il massacro della Columbine High School, le Torri Gemelle, l’agonia dell’informazione e del mondo dello spettacolo, la perdita dell’innocenza di una nazione, il dilagare del cinismo (social), la sconfitta del talento. Cinema di contenuti, ma anche di messa in scena, altrettanto ambiziosa, elaborata, spavalda. Tra gli altri, riecheggia prepotentemente von Trier. Notevole. [e.a.]
18.35
In Orizzonti è tornato il regista tibetano Pema Tseden, a tre anni di distanza da Tharlo. Jinpa, il suo nuovo film, è girato nell’altopiano noto come Kekexili o anche “montagne blu”: un luogo impervio e sperduto in cui un camionista si ritrova coinvolto con uno straccione che da dieci anni è alla ricerca di un uomo per ucciderlo. Un viaggio onirico in un paesaggio quasi lunare, alla ricerca del senso della vendetta e dell’ossessione. Un po’ sterile, forse, ma non privo di suggestioni. [r.m.]
18.08
Ancora una volta, Frederick Wiseman ci mette di fronte al suo cinema monolitico, quasi matematico, immutabile. Deve avere scoperto una sorta di formula matematica, di schema, di griglia che gli permette di osservare la realtà e di ricomporla sul grande schermo. Il cinema di Wiseman è immersione, affresco, puzzle pazientemente ricomposto. Meno fluviale rispetto ad altri lavori, Monrovia, Indiana ci restituisce un quadro incredibilmente soddisfacente ed esauriente di questo nuovo oggetto di studio, di questo microcosmo che è metafora di una buona fetta degli Stati Uniti – il suo cuore pulsante, in un certo senso, tra stridenti contraddizioni e innegabili grandiosità. Osservando la cittadina di Monrovia, i suoi ritmi e i suoi abitanti, viene da pensare al cinema di Ulrich Seidl, a quello che avrebbe potuto fare il regista austriaco, a quanto avrebbe affondato il suo coltello. Questione di sguardo, di poetica, di politica. La grandezza di Wiseman forse sta proprio qui, nel suo sguardo neutrale, mai giudicante. Persino prevedibile nel suo essere limpidamente equidistante. Wiseman osserva e ci restituisce la complessità del mondo, mappandolo pellicola dopo pellicola. Un archivio mastodontico. Una memoria collettiva irrinunciabile. [e.a.]
17.39
Stamattina abbiamo recuperato all’ultima proiezione utile (alle 8!) Dragged Across Concrete, il terzo lungometraggio dello statunitense S. Craig Zahler, già presente alla Mostra lo scorso anno con il carcerario Cell Block 99. In Dragged Across Concrete siamo invece dalle parti del noir e del poliziesco, e i toni si fanno meno accesi rispetto alla deflagrazione di violenza del film precedente: la storia dei poliziotti Mel Gibson – eccellente – e Vince Vaughn che si trovano a scegliere la via del crimine a loro volta dopo essere stati sospesi per abuso di potere è composta per lo più di appostamenti e pedinamenti. Un kammerspiel quasi privo di speranza che viene interrotto di quando in quando da clamorose esplosioni di violenza. Scritto in punta di penna, diretto con grande competenza, avrebbe meritato di concorrere per il Leone d’Oro. [r.m.]
17.12
In gara per il Leone d’Oro c’è anche un legal-thriller argentino, Acusada, opera seconda di Gonzalo Tobal. Probabilmente inadatto alla selezione principale della Mostra, il film offre allo spettatore uno spunto interessante, ma la messa in scena e la regia ricalcano stilemi televisivi e in certi momenti pare di guardare la dignitosa puntata di un serial a sfondo processuale. Non male, comunque, l’idea di porre lo spettatore di fronte alla propria decisione circa l’innocenza o la colpevolezza di Dolores (Lali Esposito), deducibile solo attraverso comportamenti esteriori e gesti ma mai chiarita fino in fondo. Diciamo che si poteva forse fare a meno di elevare un film medio a titolo meritevole del Concorso principale. [e.b.]
Lunedì 3 settembre 2018
_________________________________
19.15
At Eternity’s Gate, il film di Julian Schnabel che racconta gli ultimi due anni di vita di Vincent Van Gogh e che concorre per il Leone d’Oro, è un biopic un po’ asfittico, che cerca di trovare il rapporto tra uomo e natura dimenticandosi per strada l’uomo. Bravissimo Willem Dafoe, ma questa di certo non è una sorpresa… [r.m.]
17.48
Un doppio Amos Gitai oggi a Venezia, visto che il cineasta israeliano ha portato fuori concorso il cortometraggio A Letter To a Friend in Gaza e il lungo A Tramway in Jerusalem. Ma, se nel primo film Gitai affronta la questione palestinese in modo meno elaborato rispetto alle sue abitudini (limitandosi a far leggere a degli attori dei brani – alcuni comunque anche molto toccanti – di romanzi che affrontano il nodo gordiano di tutti i conflitti arabi), nel secondo – di finzione – riesce invece a costruire un discorso perfettamente orchestrato, imponendosi un limite di location (un tram che attraversa Gerusalemme 24 ore su 24) e lavorando solo su dei piani-sequenza in cui far incontrare e scontrare personaggi (tra cui anche un amabile Mathieu Amalric nei panni di un turista francese con figlio). Da questi piccoli racconti morali emerge la quotidianità ‘totalitaria’ di un paese ossessionato dalla difesa dei propri confini e quasi incapace di pensare ad altro. Quel minuscolo microcosmo del tram è Israele stessa, illusa – nonostante vi siano i finestrini a mostrare il mondo esterno – che ci si possa difendere all’infinito da quanto accade fuori. [a.a.]
17.25
Qualche pugno chiuso si è alzato oggi in Sala Grande per accogliere Pepe Mujica, ex presidente dell’Uruguay e figura di riferimento del mondo della sinistra sudamericana, che è venuto a Venezia per presenziare la proiezione di El Pepe, una vida suprema, documentario che Emir Kusturica gli ha dedicato. Ci sono stati dunque momenti di commozione, ma più extrafilmici che relativamente al film stesso, in fin dei conti abbastanza superficiale, anche se per fortuna privo di cadute di quelle cadute di tono caratteristiche del cinema recente dell’autore di Underground. Mujica ne emerge come figura auto-ironica, umile, ponderata, anche se Kusturica avrebbe potuto lavorare un po’ meno sul montaggio frenetico e non spezzare così tanto interviste e dichiarazioni. Ma si sa, ormai in un certo tipo di documentari istituzionali, le inquadrature non devono superare una certa soglia di durata – diciamo, al massimo un minuto ciascuna – perché altrimenti si teme che lo spettatore si annoi. [a.a.]
17.00
Zerocalcare, nome d’arte di Michele Rech, è un finissimo talento del fumetto italiano ed europeo, e La profezia dell’armadillo è con ogni probabilità il suo lavoro più compiuto. Dispiace dunque che nel pur non disastroso adattamento per il grande schermo firmato da Emanuele Scaringi e presentato in concorso a Orizzonti si sia perso gran parte del potenziale presente nelle tavole. Un risultato inevitabile, visto che l’immaginario di Zerocalcare si basa sull’utilizzo di figure iconiche della cultura pop che ovviamente non era possibile mettere in scena (Yoda, Lady Cocca ecc.ecc.). Resta la guerra ideologica tra periferia di Roma e le zone bene del centro e di Roma Nord e l’interpretazione del figlio d’arte Pietro Castellitto. Peccato. [r.m.]
16.05
Dopo Il figlio di Saul, che aveva vinto il Gran Premio speciale della Giuria a Cannes 2015 e l’Oscar come miglior film straniero, era ovvio che il secondo film di László Nemes, Tramonto, fosse tra i titoli più attesi del Concorso di Venezia 75. L’ambizione smisurata di raccontare l’Europa a ridosso della prima guerra mondiale partorisce però una metafora asfittica e un racconto reticente e del tutto privo di empatia, attorno al quale il regista ungherese gira a vuoto, inutilmente, per due lunghissime ore e venti, attaccato alla nuca della protagonista, sempre in primo piano, giocando fino allo sfinimento su sfondi fuori fuoco e dimenticando quasi completamente la profondità di campo. Un esercizio di stile che, a differenza del precedente film, non trova alcun senso narrativo, alcun fondamento contenutistico. Resta l’esibizione di un’estetica autocompiaciuta, priva di complessità, che speriamo non venga incoraggiata dalla Giuria. [e.b.]
15.55
Il film di repertorio sta diventando una specialità di Francesco Patierno che, dopo Napoli ’44, porta al Lido Camorra, presentato nella sezione Sconfini. L’oggetto di osservazione, come è facile arguire, è sempre la città partenopea, con la differenza che stavolta il regista si concentra sui sanguinosi anni di guerra camorristica che ebbero luogo all’inizio degli anni ’80 e che videro prevalere la controversa figura di Raffaele Cutolo. Patierno collaziona una mole di materiale molto interessante, a tratti sconvolgente, a tratti intelligentemente didascalico; quindi non vi è nulla di particolare da obiettare in proposito, se non che Camorra appare un po’ come “lettera morta”, come un sunto di quegli anni, senza alcun cascame nel presente. Vale a dire che il film avrebbe potuto benissimo essere stato fatto dieci anni fa, o venti, e nulla sarebbe cambiato. Quindi, nulla di ridire sul lavorare esclusivamente con l’archivio, ma in ogni caso la necessità di fare un film in un certo momento storico o in un altro la si deve pure poter percepire in qualche modo. [a.a.]
15.46
Presentato Fuori Concorso, La quietud è il nuovo film di Pablo Trapero che ragiona su colpe pubbliche e private, mettendo in scena una famiglia dalle abitudini sessuali promiscue (le due sorelle, in cui una delle due è interpretata da Bérénice Bejo, sono al limite del lesbismo) e dal passato oscuro, visto che la fazenda in cui abitano è stata ottenuta in modo tutt’altro che lecito. La costruzione del dramma, che vira sempre più verso il grottesco, funziona fino all’apice finale, quando improvvisamente (e inspiegabilmente) Trapero perde le redini del racconto e si lascia andare a una sequela di scene madri con l’obiettivo di spiegare e sottolineare in maniera farraginosa tutto quel che era già chiaro senza bisogno di spiegazioni. Insomma, una volta che lo si è visto, si è capito perché è stato messo fuori concorso, nonostante il Premio speciale per la regia avuto dal regista argentino sempre qui al Lido tre anni fa con Il clan. [a.a.]
15.22
Il backstage della loro opera artistica, l’homemovie della propria vita, fatto di viaggi, guerre, incontri di culture, arte e cucina, la messa in scena del proprio archivio di arte e di vita da parte della coppia di cineasti che usa materiali d’archivio, da spulciare, consultare, cercare nei registri più remoti e impervi. Così è Il diario di Angela – Noi due cineasti, presentato fuori concorso, la prima opera firmata dal solo Yervant Gianikian dopo la scomparsa della moglie Angela Ricci Lucchi. Non un semplice omaggio alla memoria, ma l’ulteriore, coerente tappa di un percorso dei due cineasti. [g.r.]
14.00
Presentato alla Settimana Internazionale della Critica 2018, Bêtes Blondes, brillante opera prima di Alexia Walther e Maxime Matray, è una commedia grottesca, una fiaba nera e una brillante indagine anti-psicanalitica e paradossale su cosa va a comporre, con il trascorrere degli anni, l’identità di un uomo. Con a disposizione il talento di uno strepitoso protagonista, l’attore francese Thomas Scimeca, i due registi compongono un film-saggio sulla memoria e sull’immaginario che la innerva, ben distante da un gratuito giocattolo vintage per nostalgici dei nineties. [d.p.]
Domenica 2 settembre 2018
_________________________________
19.30
Il western non muore mai. Dopo l’esperimento dei Coen con l’antologico La ballata di Buster Scruggs, destinato a Netflix, ci pensa un ispirato Jacques Audiard a riportarci tra saloon malfrequentati e lande desolate e selvagge. Coprodotto tra Europa e Stati Uniti, girato tra Spagna e Romania, The Sisters Brothers è un western solido, avventuroso, divertente, attraversato da una più che apprezzabile vena sentimentale. Impreziosito da scelte registiche eleganti e funzionali (si vedano le sparatorie fuori campo o parzialmente celate al nostro sguardo), condito da un humor che si riflette negli snodi della narrazione, The Sisters Brothers è un fertile incontro tra autorialità e mainstream. Ottimi John C. Reilly e Joaquin Phoenix, ben spalleggiati da Jake Gyllenhaal e Riz Ahmed. Godibilissimo. [e.a.]
17.00
Fuori Concorso è al Lido anche Saverio Costanzo con i primi due episodi de L’amica geniale, la miniserie in otto episodi che trasporta sul piccolo schermo il celeberrimo romanzo di Elena Ferrante. E piccolo è anche il lavoro di Costanzo, che si limita a seguire in modo pedissequo la radice letteraria senza inventiva e senza potenza narrativa o visiva. A salvarsi sono solo le due giovanissime protagoniste Elisa Del Genio e Ludovica Nasti, ma è davvero troppo poco. [r.m.]
16.47
Mary Harron racconta la Manson Family dal punto di vista di tre ragazze, Leslie-Patricia-Susan, che presero parte ad alcuni delitti tra cui il famigerato omicidio Tate: in Charlie Says la regista cerca di analizzare la manipolazione psichica, volontariamente subita da queste giovani donne e perpetuata dallo psicopatico guru, che le ha condotte a distruggere la propria esistenza, passata sostanzialmente in carcere. Se la storia di Charles Manson e dei suoi seguaci è uno dei grandi buchi neri dell’inconscio americano, la Harron realizza un film un po’ scolastico, sebbene non privo di spunti, che non spicca però per stile o capacità di messa in scena. [e.b.]
15.50
Pare certo che il secondo film di László Nemes, Sunset, che verrà presentato stasera alla stampa, verrà proiettato in 35mm, come d’altronde già accadde a Cannes per Il figlio di Saul. E nello stesso formato dovrebbe venir proiettato anche domani, per la première prevista per il pubblico. Per fortuna, insomma, c’è ancora qualcuno che gira in 35 e ha anche l’ostinazione e la forza di volontà di imporre una proiezione su pellicola. [a.a.]
14.47
La visione più giovane e rivoluzionaria della Mostra finora arriva dalle Giornate degli Autori, dove è stato presentato come evento speciale Happy Lamento, il nuovo film dell’ottantaseienne Alexander Kluge. Coadiuvato dal poeta e regista filippino Khavn de la Cruz, Kluge firma un’opera filosofica e violenta, rigorosa e pop, che lascia a bocca aperta. Una riflessione anti-futurista messa in atto attraverso il linguaggio futurista. Dalla parte degli elefanti, e della loro resistenza. Straordinario. [r.m.]
14.38
Presentato al pubblico anche il secondo titolo italiano del Concorso, What You Gonna Do When the World’s on Fire? di Roberto Minervini che resta in Louisiana, a New Orleans, per raccontare la discriminazione razziale nel Sud degli Usa. Girato in un bianco e nero trasfigurante, il film fornisce allo spettatore il minimo delle informazioni possibili, riducendo l’ambiente urbano a “sfondo”, per concentrarsi sui volti dei personaggi e sulle tre storie messe in scena che non si intrecciano mai tra loro. L’operazione non riesce al meglio: se la condanna rivolta a una società ingiusta e violenta non lascia indifferenti, il film è sopraffatto dallo sguardo del regista, che purtroppo fagocita proprio la veridicità e la complessità di ciò che mostra. [e.b]
14.04
Presentato oggi alla SIC – Settimana Internazionale della Critica, Adam & Evelyn, opera prima di Andreas Goldstein, è una storia d’amore on the road ambientata alla vigilia della riunificazione delle due Germanie. Forte di uno script ben orchestrato e di dialoghi dal portato metaforico, il film riesce a enucleare gradualmente una riflessione assai originale sulla difficoltà dello stare insieme: geograficamente, politicamente e sentimentalmente. [d.p]
13.24
Va detto che quest’anno al festival si ha l’impressione che ci sia un numero maggiore di presenze di accreditati e pubblico, quantomeno a partire da questo weekend. Dopo diverse edizioni in calare, il Lido dà l’impressione di essere di nuovo preso d’assalto dai cinefili. In particolare ieri, dove parecchie proiezioni hanno registrato il tutto esaurito e dove in tanti son rimasti fuori. C’è chi non è riuscito a entrare alla versione restaurata de La strada della vergogna di Mizoguchi, chi ha atteso invano in coda la possibilità di vedere, o rivedere, The Other Side of the Wind, e chi persino – quasi un centinaio di persone – è rimasto fuori dall’ultima replica del film di Assayas in concorso, Non-Fiction, che veniva proiettato tra l’altro in una delle sale più capienti (e più scomode) del festival, il PalaBiennale. [a.a.]
Sabato 1 settembre 2018
_________________________________
22.16
Lo stereotipo dell’amicizia tra gangster e poliziotto, nata come alleanza e collaborazione, contestualizzato tra i casermoni delle banlieue parigine; il polar da grigio che era si colora di realismo sociale, nella coesione e nell’appartenenza a una comunità più grande nel quartiere, quella di origine magrebina. E il meccanismo del whodonit della detective story rende ancora più torbido questo sentimento di fratellanza. Presentato in concorso, Frères ennemis di David Oelhoffen si muove tra Jean-Pierre Melville e Matteo Garrone, svolgendo il compitino in modo diligente, ma alla fine di poca roba si tratta. [g.r.]
19.15
Forse era il film più atteso del concorso, ma anche dell’intero 2018. Suspiria di Luca Guadagnino, nonostante alcune sequenze dirette con grande intelligenza, delude le aspettative: il lavoro sul capolavoro di Dario Argento si limita in fin dei conti ad arricchire di suggestioni storiche l’idea del rapporto col Male e con la colpa, ma non riesce mai davvero a scavare in profondità. Horror senza troppo orrore, Suspiria mette troppa carne al fuoco, ma non la sa gestire e finisce ben presto in confusione. Vittima forse per primo della sua stessa malia. [r.m.]
17.46
In Venezia Classici, prendendo una pausa dal contemporaneo, si è potuto ammirare sul grande schermo uno dei capolavori del cinema sovietico, Voskhozhdeniye (in italiano L’ascesa), ultima regia quarant’anni fa per Larisa Sheptiko, deceduta nel 1979 ad appena quarantuno anni in un incidente automobilistico. Straordinaria riflessione sulla colpa, la vergogna e la fede – nell’ideologia come nella religione – di fronte al Male, L’ascesa è immerso nel bianco del paesaggio innevato, screziato solo dal nero degli esseri umani. Un’opera umanista di potenza deflagrante che dovrebbe essere studiata in ogni scuola di cinema degna di questo nome. Immenso. [r.m.]
16.05
Accademico, elegante, assai consapevole delle sue rigorose scelte Peterloo di Mike Leigh racconta la violenta repressione di una manifestazione popolare avvenuta a Manchester il 16 agosto del 1819. Tra lunghe carrellate nelle scene di massa e ritrattistica britannico-fiamminga a ispirare le sequenze in interni, Peterloo procede affiancando riunioni popolari, discussioni in famiglia, decisioni delle forze dell’ordine, dei membri del Parlamento, ritraendo così una società piramidale dove il potere è sovrano e la libertà un pericolo da sopprimere sul nascere. [d.p.]
15.05
Divulgativo e di stampo televisivo Friedkin Uncut di Francesco Zippel rende conto di parte della filmografia del regista statunitense William Friedkin senza individuare alcuna sorta di punto di vista da cui partire e su cui lavorare, a parte il suo essere l’ultimo dei “maverick”.
Alle riprese con William Friedkin intento a narrare dal suo salotto aneddoti già in buona parte noti sulla sua carriera, il documentario di Zippel assomma didatticamente interviste con i suoi attori, collaboratori, amici. Si susseguono dunque, tra gli altri, i contributi di Walter Hill, Ellen Burstyn, Francis Ford Coppola, Quentin Tarantino, William Petersen, Antonio Monda. In un sussidiario poco ragionato destinato prettamente ai neofiti, se avranno la curiosità di guardarlo. [d.p.]
14.32
Ancora Welles. Stavolta per dire che, rispetto ai due documentari annunciati intorno a The Other Side of the Wind, ne è stato presentato qui al Lido uno solo, They’ll Love Me When I’m Dead di Neville. E si è deciso di togliere dal programma proprio quello che – stando ai rumors – illustrava nel dettaglio il lavoro di montaggio fatto per ricostruire il film di Welles, vale a dire A Final Cut for Orson: 40th Years in the Making, che come risulta su IMDB dura 38 minuti ed è diretto da Ryan Suffern. Pare che Netflix, che metterà The Other Side of the Wind sulla sua piattaforma a partire da novembre, abbia deciso di ritirare il film di Suffern per non oscurare (o intralciare) quello di Neville. Ed è un peccato, perché They’ll Love Me When I’m Dead, che viene presentato oggi al pubblico, è sostanzialmente un classico lavoro sul cinema e sulla vita di Welles, giusto – rispetto a documentari similari (come ad esempio The Eyes of Orson Welles) – un po’ più centrato su The Other Side of the Wind. Ed è tra l’altro un approfondimento utile solo a illustrare le difficoltà che Welles ha incontrato nel corso degli anni per cercare di portare a termine il film, argomento che – per chiunque abbia voglia di cercarlo – è facile approfondire. Mentre della recente lavorazione che è stata fatta – condotta, in primis da Peter Bogdanovich e dal montatore Bob Murawski – si sa ancora troppo poco. E, purtroppo, qui a Venezia né Bob Murawski, né il produttore Filip Jan Rymsza (Bogdanovich non è venuto al festival) hanno voluto rilasciare interviste. [a.a.]
11.51
Rispetto a The Gulf, bell’esordio presentato lo scorso anno sempre qui al Lido alla Settimana della Critica, delude il nuovo film del regista turco Emre Yeksan, Yuva, selezionato in Biennale College. Vuoi forse per lo scarso budget a disposizione e vuoi anche per il limitato tempo che viene dato a chi partecipa al progetto di Biennale College (formula che prevede che, sostanzialmente, il festival stesso diventi finanziatore e produttore di alcuni film; l’anno scorso si segnalò come esempio estremamente positivo Beautiful Things), vuoi dunque per questa serie di fattori, fatto sta che Yuva si mostra come un film troppo esile, con un’ottima idea (un uomo che si è ritirato nei boschi e sta ritrovando la sua natura animalesca, mentre in città probabilmente c’è una guerra in atto o, forse, una dittatura), che però non viene sorretta sia da un’adeguata messa in scena, sia da soluzioni narrative che, piuttosto, finiscono per apparire troppo ripetitive. Peccato. [a.a.]
Venerdì 31 agosto 2018
_________________________________
22.00
I fratelli Coen tornano nel Far West con l’antologico La ballata di Buster Scruggs, progetto nato come una serie e poi trasformato in un lungometraggio – non a caso, manca una chiusura convincente. Sei storie che ripercorrono il mito della Frontiera, le icone polverose, il lato selvaggio, declinate alla maniera dei Coen: un western spassoso, cinico, romantico, musicale, cupo, cartoonesco, realistico. In concorso a Venezia e poi su Netflix. La nuova frontiera… [e.a.]
19.15
Belli e bravi. Non manca niente a Bradley Cooper e Lady Gaga. Funzionano come coppia, innamorati e un po’ folli. Funzionano sul palco, stracolmi di energia, di talento, di presenza scenica. Funziona la prima parte, l’incontro, l’infatuazione, l’amore. C’è il tributo a Lady Gaga, icona e paladina della comunità LGBT; ci sono le voci e le canzoni, i corpi, il romanticismo travolgente. Poi la scintilla inizia a farsi fioca, come il film. Lady Gaga regge la parte e Bradley Cooper è un regista interessante, ma la ragion d’essere di A Star Is Born si esaurisce in fretta, complice una sceneggiatura quasi svogliata. La parabola autodistruttiva è superficiale, data per scontata, e si ragiona poco sullo star system, sulle regole del successo, sulla musica. [e.a.]
16.21
Il film della giornata alla Settimana della Critica è aKasha, vale a dire The Roundup, smitizzazione della guerra civile e racconto di una giornata nell’area occupata dai ribelli – quella in cui dopo la stagione delle pioggie si riapre il combattimento con le truppe governative. Una commedia gentile e non priva di coraggio, non sempre sorretta dalla regia di hajooj kuka (è lui stesso a pretendere le minuscole) ma in ogni caso da difendere. In una Mostra che ha scelto geograficamente di radicarsi in altre zone del mondo, è un piacere ritrovare il cinema africano e la sua libertà, concettuale e politica. [r.m.]
16.17
Si può finalmente scrivere di Your Face, presentato ieri mattina alla stampa ma solo oggi pomeriggio al pubblico del Lido; ed è doveroso parlare di un film fuori concorso che aggiunge un ulteriore tassello alla fondamentale filmografia di Tsai Ming-liang. Attraverso una decina di primi piani, alcuni parlanti e altri no, si descrive da un lato una Taiwan che non c’è più e dall’altro si indaga ancora la memoria, la ri-costruzione del proprio passato intimo, privato. Splendido e irrinunciabile, resterà ovviamente senza distribuzione. Peccato. [r.m.]
14.22
È solo una delle versioni possibili che si possono estrarre dalle 96 ore di girato. È comunque una forma di tradimento, perché non vi erano indicazioni in proposito su come poteva essere assemblato e su come potesse essere montare il tutto. Restano ancora dei dubbi su alcune parti e su alcune lungaggini. Ma almeno, finalmente, abbiamo potuto vedere The Other Side of the Wind, evento speciale – specialissimo – qui al Lido. Il più celebre degli incompiuti wellesiani, insieme al Don Chisciotte, è un film complesso, stratificato, difficile, a tratti estremamente parlato, a tratti dilatato, ma è un film totalmente wellesiano, dove ritorna e ricircola tutto il suo cinema, attraverso variazioni, rimandi, ripensamenti, da Citizen Kane a Mr. Arkadin, passando per L’infernale Quinlan e per arrivare fino a F for Fake. The Other Side of the Wind è una doppia parodia del cinema che andava di moda allora, nella prima metà degli anni Settanta: una parodia del cinema d’autore alla Antonioni (e il riferimento è in particolare a Zabriskie Point) e, insieme, una parodia della New Hollywood, incarnata nel film soprattutto da Peter Bogdanovich. Ma, attenzione, non è una farsa, quanto per l’appunto una parodia, anche affettuosa: Welles si misura con quegli stilemi, con gli stilemi autoriali antonioniani e con quelli della New Hollywood, e in certo modo vi aderisce, li abbraccia, almeno per il tempo della sua sperimentazione visiva. Ma poi li lascia e torna al noir, e decanta così la fine della Hollywood classica, sostituita dai saccenti cinefili figliocci della Nouvelle vague, ma anche la fine sua, come regista, che non poteva – e non voleva – più essere di moda. [a.a.]
11.44
Pur avendo deciso di non venire qui al Lido, Peter Bogdanovich è tra i protagonisti di questa 75esima Mostra del Cinema di Venezia, in realtà più per l’edizione da lui curata di The Other Side of the Wind di Orson Welles (di cui ancora non si può parlare per l’embargo), che per il film che presenta da regista, The Great Buster: A Celebration, documentario dedicato a Buster Keaton, presentato in Venezia classici. Il lavoro è espressamente rivolto a un pubblico medio americano, teso dunque a ricostruire infanzia, carriera e morte del comico, con inserti di brevi interviste e dichiarazioni a opera di volti noti dell’entertainment (tra cui Tarantino). Quel che resta è la sensazione di un film troppo impersonale, cui nemmeno la voice over dello stesso Bogdanovich riesce a dare un po’ di personalità. [a.a.]
11.30
Farsa darkettona e BDSM, The Favourite di Yorgos Lanthimos è un divertissement saffico sul potere, tra servi e padroni, favorite e regine. Presentato in concorso a Venezia 75, il film è dunque perfettamente in linea con la filmografia dell’acclamato e talvolta discusso autore greco, che in questo caso si affida a un plot più “classico” e dunque anche meno pretenzioso del solito mettendo in scena tre personaggi femminili – la regina d’Inghilterra (Olivia Colman), la sua favorita e amante (Rachel Weisz) e la rivale (Emma Stone) – con il condimento di non poche trovate bizzarre e visionarie, tra fish-eye deformanti, corse delle oche, coniglietti saltellanti. Tra vari rivolgimenti, con prevedibili cambi di ruolo tra dominatrici e dominate, la trama esaurisce presto il suo mordente, non resta che lasciarsi intrattenere dalle performance di regista e attrici. [d.p.]
Giovedì 30 agosto 2018
_________________________________
21.42
Presentato Fuori Concorso, Mi obra maestra di Gastón Duprat racconta i dissidi e l’amicizia tra Renzo, un pittore anziano, scorbutico e decisamente passato di moda, e Arturo, il suo gallerista che però non ne può più di lui. Sarà che questa volta manca Mariano Cohn, che lo aveva accompagnato in due riuscite e irriverenti commedie nere sull’arte e la letteratura (L’artista e Il cittadino illustre), sarà perché prima o poi anche i discorsi interessanti possono arrivare a un punto di saturazione, ma questa volta Duprat mostra segni di stanchezza e Mi Obra Maestra si rivela una commedia poco graffiante, che scivola via piuttosto in fretta. [e.b.]
19.16
Primo vero colpo di fulmine del concorso di Venezia 75, ROMA di Alfonso Cuaròn ripercorre la storia di una famiglia altoborghese, nella Città del Messico degli anni ‘70, attraverso lo sguardo della domestica Cloe. Parzialmente autobiografico, girato in uno splendido bianco e nero con un’impeccabile orchestrazione dei movimenti di macchina, ROMA fa un uso espressivo e sapiente di ogni suo elemento, accompagnando lo spettatore, nel corso della sua durata, alla scoperta dei personaggi e dei sentimenti che li legano, sullo sfondo di un momento storico tumultuoso. Una distribuzione targata Netflix, per la quale è però caldamente consigliata la visione sul grande schermo. [d.p.]
17.04
Elaborazione visiva gratuita sulla repressione sessuale nell’America degli anni ‘50, The Mountain di Rick Alverson punta a inscenare una metafora sulla lobotomizzazione di una Nazione, ma ci presenta per buona parte della sua durata un museo delle cere privo di vita e di interesse. Protagonista è un immoto e quasi zombesco Tye Sheridan (Ready Player One) affiancato da due ipercinetici Jeff Goldblum e Denis Levant, entrambi lanciati a briglia sciolta in uno sfrenato gigionismo attoriale. In concorso a Venezia 2018, tiepidi gli applausi alla proiezione stampa.[d.p.]
15.03
Fuori concorso a Venezia 75, Isis, Tomorrow è un documentario prezioso, soprattutto per il suo valore di testimonianza. I due registi, gli italiani Francesca Mannocchi e Alessio Romenzi, sono stati a Mosul in Iraq per seguire le ultime fasi della guerra di riconquista dell’esercito iracheno, che alla fine è riuscito a togliere la città all’Isis. Ma ora i vinti – donne e bambini, parenti di militanti dell’Isis uccisi o imprigionati – covano nuove vendette. E in Isis, Tomorrow abbiamo l’opportunità – davvero rara – di sentire le loro voci piene di rancore verso l’Occidente e verso i concittadini che li umiliano e li perseguitano. [a.a.]
14.28
Il primo aggiornamento del minuto per minuto può arrivare solo ora, a causa dell’oramai annoso embargo. I ritmi cambiano, non quello delle visioni però… Eccoci dunque a parlare di Tumbbad, il film indiano diretto a quattro mani da Adesh Prasad e Rahi Anil Barve che inaugura fuori concorso la selezione della Settimana della Critica. Un fantasy che ragiona da vicino sull’avidità umana espandendo il discorso all’evoluzione dell’India. In tre passaggi significativi anche da un punto di vista storico si racconta un’avventura mozzafiato e si riallacciano i fili del gandhismo. Un’operazione coraggiosa per un’opera popolare che si muove completamente fuori dai classici schemi di Bollywood. [r.m.]
Mercoledì 29 agosto 2018
_________________________________
20.30
Film d’apertura della Mostra del Cinema di Venezia 2018, selezionato in concorso, Il primo uomo ci racconta della conquista della Luna, dei suoi eroi e martiri, del sogno (declinante) di una nazione. Sì, senza dubbio. E non rigetta l’illusione, i buoni sentimenti, Camelot, il romanticismo sognante à la JFK. Questo è un punto di vista, di osservazione, quello dalla Terra che guarda la Luna. Ma dalla Luna? Tra razzi e missioni spaziali, Il primo uomo si tinge soprattutto dei colori del melodramma familiare, riecheggiando operazioni cinefile come Revolutionary Road, scandagliando il lato oscuro dell’allunaggio, le ombre dolorose di una lunga, travagliata elaborazione del lutto. Un film intimo, eppure proteso verso l’infinito… [e.a.]
19.12
Tra le varie incongruenze che emergono al cospetto dell’embargo imposto dalla Mostra, c’è anche questa, che il film José, presentato oggi alla stampa per Le giornate degli autori, avrà la prima proiezione ufficiale il 6 settembre, cioè praticamente a fine festival. Che fare, dunque? Aspettare una settimana e rischiare di dimenticarlo? No, preferiamo parlarne subito a questo punto, per dire che questo film diretto dal regista cinese ‘apolide’ Li Cheng (ha studiato negli USA e ha girato il film in Guatemala) è un’esilissima storia di omosessualità, evidentemente debitrice di Wong Kar-Wai e di Hou Hsiao-hsien, ma con evidenti limiti di messinscena rispetto agli illustri colleghi cui guarda, e privo anche della sufficiente affezione verso i suoi personaggi, che appaiono distanti e ben poco tratteggiati. [a.a.]
18.49
Rapido aggiornamento sulla questione embargo. Alcuni noti giornalisti hanno già provveduto a far saltare il castello di carte, pubblicando e rilanciando i propri articoli sul film di Chazelle prima del tempo previsto. Ora cosa succederà? La Mostra, che continua a dimostrare di gestire malissimo la cosa, prenderà posizione? Viene naturale dubitarne, visti i nomi in ballo, che rimarcano il fatto che l’impunità spetti a chi ha le spalle coperte. [r.m.]
16.45
Ad aprire le danze per quel che concerne la sezione collaterale Giornate degli Autori è stato il regista cambogiano Rithy Pahn, nome noto agli addetti ai lavori e ricercatore indefesso della memoria storica del suo Paese, in particolar modo della Kampuchea Democratica, la nazione guidata dal genocida Pol Pot e dai suoi compagni di sterminio. Alla ricerca delle tombe senza nome dei suoi parenti – da qui il titolo del film, Les tombeaux sans noms – Pahn rende universale il discorso, allargandolo al lutto di un intero popolo, e forse del mondo intero. E la scelta di affidare il proprio monologo interiore alle parole di vari letterati, tra i quali Paul Eluard e la sceneggiatura che Jean Cayrol scrisse per Notte e nebbia di Alain Resnais, espande ulteriormente il discorso. Dolorosissimo e senza tempo. [r.m.]
16.22
Mentre è in corso la proiezione per il pubblico, possiamo parlare intanto di Sulla mia pelle.
Presentato in maniera un po’ innaturale nella sezione di Orizzonti (che dovrebbe palesare, o far intuire, i nuovi orizzonti del cinema), Sulla mia pelle è un film abbastanza classico e anche efficace per il modo in cui mette in scena la drammatica morte di Stefano Cucchi, deceduto in carcere quasi dieci anni fa, dopo essere stato picchiato dai carabinieri. Una storia terribile e dolorosissima che il regista, Alessio Cremonini, racconta in modo misurato, senza lasciarsi andare a enfasi eccessive, e che conta sulla straordinaria prova di Alessandro Borghi nei panni del protagonista. Forse ci si poteva aspettare un maggior coraggio, una direzione più precisa verso il film di denuncia, ma probabilmente si sarebbe perso qualcosa sul piano dell’efficacia cinematografica. E, d’altronde, l’alchimia tra impegno politico e qualità estetica è stata trovata da ben pochi registi nell’arco della storia del cinema, Petri, Costa-Gavras e pochi altri. [a.a.]
15.53
E così è iniziata la settantacinquesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. È iniziata con la proiezione speciale della versione restaurata in digitale del Golem e con le prime proiezioni per la stampa di First Man di Damien Chazelle e Sulla mia pelle, il film che racconta la morte di Stefano Cucchi. Due film di cui per ora non possiamo scrivere. L’embargo per la stampa caduto come un fulmine a ciel sereno solo pochi giorni fa ce lo impedisce. Gli aggiornamenti verranno spostati a ridosso dell’inizio della proiezione ufficiale. Con mezza giornata di ritardo. È legittimo che un festival coordini le modalità con cui far lavorare la stampa, ma la scelta di questo embargo oltre che anacronistica è anche completamente intempestiva e mal gestita. Dopo aver pubblicamente annunciato che nulla sarebbe cambiato rispetto al passato la Mostra ha deciso di imitare Cannes, ma lo ha fatto in maniera disordinata e senza criterio. Una scelta che appare improvvisata e che non si capisce come potrà essere gestita. Si controlleranno tutti i profili social? Si colpirà random, “punendo” sommariamente e a casaccio? Ci si vendicherà l’anno prossimo di coloro che non rispetteranno l’embargo? Intanto vi lasciamo con un paradosso: visto che solo gli accrediti stampa sono stati avvisati dell’embargo l’accredito culturale che dovesse accedere alle anteprime (è successo stamattina, com’è ovvio e giusto che sia visto che non si riempie la sala) potrà tranquillamente dire la sua su Facebook e Twitter. Un dettaglio che evidenzia l’inutilità di un simile provvedimento. [r.m.]