L’ascesa

L’ascesa

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In Venezia Classici è stato presentato il restauro de L’ascesa, l’opera più celebre di Larisa Sheptiko e il suo testamento visivo, data la morte prematura della regista. Un’opera immersa nella neve, rigorosa e umanista, che ragiona sulla colpa e sull’eroismo. Tra gli apici del cinema sovietico.

Servire la causa

La Bielorussia è occupata dalla Germania nazista. L’ufficiale Sotnikov e il soldato Rybak lasciano la foresta per raggiungere un villaggio dove procurare del cibo necessario al loro accampamento, nel quale si trovano anche donne e bambini. Prima di poter portare a termine la missione, vengono catturati da un gruppo di soldati nazisti. A dispetto del suo fisico debole, Sotnikov resiste alle torture e affronta l’esecuzione con dignità, mentre Rybak supplica in ginocchio di essere risparmiato e accetta di unirsi alle forze di polizia collaborazioniste. [sinossi]

L’ascesa non avrebbe mai dovuto essere un ultimo film. Al momento dell’inizio delle riprese Larisa Sheptiko aveva trentacinque anni, e il mondo del cinema aveva appena iniziato a conoscerla: nel 1971 Tu ed io era stato accolto tra applausi scroscianti alla Mostra del Cinema di Venezia, negli anni in cui al Lido erano stati aboliti i premi. L’ascesa sarebbe dovuto essere un punto di partenza definitivo, e non un arrivo. In effetti la regista riprese febbrilmente a lavorare dopo la sua realizzazione, acquisendo il diritto di trasportare sul grande schermo il romanzo di Valentin Rasputin Addio a Matëra, pubblicato anche in Italia con il titolo Il villaggio sommerso. Se tutto questo non avvenne è a causa dell’incidente automobilistico che nel 1979 la vide morire insieme a quattro membri della sua troupe su un’autostrada dalle parti di Kalinin (oggi Tver), cinquecento chilometri a sud di Leningrado. La sua morte lasciò un enorme vuoto nel cinema europeo e mondiale, e impoverì la cinematografia sovietica che stava entrando in un decennio inevitabilmente decisivo. Il marito della Sheptiko, Elem Klimov, portò a termine il suo lavoro dirigendo L’addio. Ma questa è un’altra storia.

Poter godere sul grande schermo de L’ascesa, dopo visioni casalinghe – del film esiste una edizione della Criterion –, è una fortuna rara: anche per questo le proiezioni durante la Mostra di Venezia, dove il film nel restauro digitale è stato presentato nella sezione dedicata ai classici, si sono rivelate particolarmente preziose. Quarant’anni non hanno minimamente scalfito lo splendore estetico, estatico e profondamente umano del film, che la Sheptiko sceneggiò insieme a Yurij Klepikov partendo da uno dei racconti che Vasilij Bykov scrisse su quella che nei paesi dell’ex Unione Sovietica è ancora oggi nota come Grande Guerra Patriottica – vale a dire la Seconda Guerra Mondiale. Sotnikov, questo il titolo del racconto, è anche il nome di uno dei due protagonisti della vicenda, l’ufficiale laureato che ha poca dimestichezza col territorio e viene ferito durante uno scontro a fuoco con un paio di soldati nazisti. Nella Bielorussia immersa nella neve, così bianca da far confondere la terra e il cielo (e il bianco invade persino i rami degli alberti, spingendo Sotnikov a scuoterli per riscoprirvi sotto un po’ di materia, un po’ di natura), Sotnikov e Rybak, il soldato con cui si accompagna per cercare cibo e acqua per i compagni rimasti nel cuore della foresta, si spingono sempre più avanti, avanzando in un territorio che è patria ma è anche inospitale, impossibilitato a dar protezione.

Seguendo uno schema che evita qualsiasi tipo di sovrastruttura per concentrarsi sulla crudezza nuda e pura di una situazione naturale e umana a dir poco barbarica, Sheptiko costruisce un film completamente dialettico, a partire ovviamente dalle divergenti psicologie dei due protagonisti: debole nel fisico ma saldissimo nei suoi principi Sotnikov e forte e baldanzoso ma terrorizzato dall’idea della morte Rybak. Il loro viaggio verso il nemico, che li farà ben presto prigionieri, si articola attraverso tre tappe: l’avanzata difficoltosa nella neve, l’incontro con una coppia che ha il figlio in guerra e ha scelto di collaborare con le truppe naziste – per evitare conseguenze – e quindi quello con una vedova che cresce tre bambini in una casetta. Lì, nascosti nel sottotetto, i due verranno catturati, in una delle più mirabili sequenze non solo del film, ma dell’intero cinema degli anni Settanta: nella scelta del fuoricampo iniziale – non si sa dove siano in effetti i nazisti ma si percepisce dal tono della voce la loro presenza – e quindi in quel campo-controcampo tra la bocca del mitra e il volto di un Rybak sempre più terrorizzato non si racchiude solo una brillante idea di cinema, ma si riesce a cogliere il senso di vuoto e spaesamento di una guerra, dell’invasione, della percezione di pericolo perenne e di morte incombente.
In un crescendo continuo, che costringe lo spettatore a confrontarsi a sua volta con le proprie convinzioni e con le conseguenze di ciò che significa difenderle fino alla fine o preferire abbandonarle, magari per avere salva la vita, L’ascesa si dimostra anche un grande film sul concetto di fede, da non ridurre a un valore strettamente religioso, e di ricerca della propria identità. Inserendosi nella tradizione umanista del cinema sovietico, L’ascesa è un dipinto realista ed espressionista allo stesso tempo, in grado di svelare la meschinità umana quanto di esaltarne la naturale, e per niente artefatta, granitica coerenza. Un film profondamente emotivo ed emozionante, che sfrutta lo straordinario bianco e nero di Vladimir Chukhnov per unire l’estasi visiva allo scandaglio dell'(im)pura essenza dell’umano. Una fotografia (il film fu girato a Murom, poco più di cento chilometri da Vladimir, l’antica capitale e centro del cosiddetto Anello d’Oro di cui fa parte anche Suzdal, la cittadina in cui Andrej Tarkovskij girò una delle sequenze più celebri di Andrej Rublev) che tocca il suo apice nel finale, con Rybak che tenta disperatamente di togliersi da solo quella vita che ha rifiutato di farsi togliere dai nazisti, preferendo la collaborazione e il tradimento. Nella risata/pianto su cui si chiude il film si respira angoscia e sollievo, uniti a un senso di colpa impossibile da redimere. Tra i più grandi autori del cinema degli ultimi cinquant’anni, Larisa Sheptiko è stata dimenticata in fretta e furia, e rimossa dall’immaginario delle giovani generazioni. Alla riscoperta veneziana – con la speranza che si recuperi anche la restante parte della sua filmografia, composta da tre lungometraggi per il cinema e uno per la televisione – il compito di riparare questa colpa.

Info
Una sequenza de L’ascesa.

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