A Tramway in Jerusalem

A Tramway in Jerusalem

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Nell’articolato Heimat che, di film in film, Amos Gitai dedica da decenni a Israele si aggiunge un nuovo capitolo a sé stante, eppure sempre giocato sullo stesso tema dell’identità nazionale: A Tramway in Jerusalem, fuori concorso a Venezia 75, si impone dei limiti spaziali (un tram, per l’appunto) per riflettere sull’isolamento del paese.

Un tram chiamato Israele

A Gerusalemme, il tram collega diversi quartieri, da est a ovest, registrandone varietà e differenze. Il film raccoglie un mosaico di esseri umani di questa città che è anche il centro spirituale delle tre grandi religioni monoteiste, ebraismo, cristianesimo e islam. [sinossi]

Non c’è probabilmente, tra i cineasti in attività, uno che abbia saputo raccontare meglio e con più costanza il proprio paese di Amos Gitai. Tanto che tutta la sua filmografia la si può definire senza difficoltà una sorta di Heimat israeliano, con la differenza che – rispetto all’opera-fiume di Edgar Reitz – in Gitai ogni film è auto-conclusivo e comunica con gli altri in maniera simbolico-espressiva più che narrativa (quelle volte, almeno, in cui il cineasta non torna sugli stessi luoghi di un film precedente, come accadeva nel recente West of the Jordan River). Così, ancora una volta Gitai riflette sull’identità nazionale e, ancora una volta, lo fa inventandosi un limite. Se, dunque, ad esempio, in Ana Arabia l’imposizione estetica era imposta dalla decisione di girare tutto il film in piano-sequenza (e in un unico luogo) per ritrovare un’unità che andasse contro le barriere israelo-palestinesi, qui in A Tramway in Jerusalem – presentato fuori concorso a Venezia 75 – la limitazione è di nuovo di natura spaziale (il film è girato tutto dentro al tram che attraversa Gerusalemme 24 ore su 24), ma anche di natura temporale (ogni singola scena è ancora in piano-sequenza, e in ogni sequenza vi sono personaggi differenti, con solo alcuni che tornano più di una volta).
Sembra poco, e invece è tantissimo, perché per l’ennesima volta Gitai si inventa un film dal nulla, aggiornando la vecchia massima di Truffaut secondo cui si può costruire un film a partire da qualsiasi cosa, da qualsiasi argomento. Così in A Tramway in Jerusalem assistiamo al progressivo disvelamento del discorso: si passa da dialoghi apparentemente inoffensivi intorno a questioni di banale quotidianità, per poi capire man mano che dietro a ciascuno di quei dialoghi vi è una forzatura, vi è un vulnus, vi è un ostacolo, vale a dire l’arrogante convinzione da parte degli israeliani di essere cittadini di serie A, mentre tutti gli altri sono costretti ad adeguarsi, persino i turisti. La stessa ansia del controllo del proprio territorio si fa manifesta incarnazione all’interno del tram, dove è sempre presente un guardiano in divisa, un pubblico ufficiale che ad un certo punto placca in maniera immotivata un ragazzo palestinese, mentre prima ha chiesto i documenti a due ragazze con fare inquisitorio e si è rifiutato di accogliere la loro ironia, e ancora prima aveva importunato una ragazza israeliana.

Ma il poliziotto – il cui grottesco incarico di verificare l’ordine all’interno di un mezzo pubblico rischia tra l’altro (e in parte già lo è) di diventare realtà militarizzata anche in altri paesi occidentali, come ad esempio proprio il nostro, dove Salvini sta cercando di imporre il suo fascismo -, dicevamo il poliziotto è appena uno dei tanti elementi che vanno a costruire il semplice ed eppure efficacissimo discorso messo in piedi da Amos Gitai. Si passa dal vice-allenatore israeliano che non fa parlare il nuovo mister arrivato dall’Europa, alla mamma che si lamenta dell’inanità lavorativa e sentimentale del figlio (con tipica pacata ironia yiddish), per poi per l’appunto arrivare a situazione ben più rognose. In tal senso l’apice è rappresentato dal dialogo tra un turista francese (interpretato da un tenero Mathieu Amalric) e due cittadini di Gerusalemme; di fronte ai complimenti che lui fa alla loro terra – la Terra Santa, a proposito della quale prima Amalric aveva letto al figlio un commentario di viaggio di Flaubert – i due gli rispondono riportando tutto su una questione militare (il loro paese è piccolo ma ben preparato ad affrontare ogni tipo di evenienza, le forze di terra si spalleggiano in un perfetto coordinamento con quelle di mare e di cielo, e così via), finché il dialogo si conclude con una domanda che raggela il nostro turista: «Ci spieghi, per favore, cos’ha contro il nostro esercito!».

Gitai lavora dunque su una frammentarietà di voci e di lingue (tra cui il francese, l’arabo e l’italiano, rappresentato da Pippo Delbono nei panni di un prete misticheggiante e petulante), cui si contrappone la forzata convinzione di interezza e di esclusività portata avanti dal popolo israeliano (e dai suoi governanti), fino a suggerire due conclusioni: da un lato, l’idea che l’antichissima cultura popolare ebraica sia stata sostituita – come si vede dalle conversazioni che hanno luogo sul tram – dall’ossessione della difesa quotidiana contro il mondo esterno (è diventata quella la nuova cultura, come d’altronde sta diventando la nostra in Italia, a difesa di una ridicola presunzione di sovranismo); dall’altro, l’idea che il tram stesso incarni Israele, con quei grandi finestroni che illudono che non vi siano barriere, con quell’arroganza di volersi auto-imprigionare in una bolla trasparente dove l’esistenza si fa grigia e vile, mediocre e chiusa in se stessa, dove non si vogliono imprevisti. Si è prigionieri, delle proprie ipocrisie e del proprio odio, e si pensa di essere liberi.

Info
La scheda di A Tramway in Jerusalem sul sito della Biennale.
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