Red Cars
Concludiamo il nostro speciale dedicato a David Cronenberg, Leone d’Oro alla carriera a Venezia 75, con una riflessione extra, quella sull’art-book Red Cars, pubblicato nel 2006 dall’editore Volumina e testimonianza di una sceneggiatura, scritta dal cineasta canadese nel 1996, e mai trasformatasi in film.
È il 1961 e Phil Hill potrebbe diventare il primo pilota americano a vincere il campionato mondiale di Formula 1, alla guida di una Ferrari. Ma… [sinossi]
Nell’introduzione al suo art-book Red Cars, pubblicato dall’editore italiano Volumina nel 2006 in mille esemplari numerati, David Cronenberg racconta di aver cullato per anni l’idea di un film sulla Formula 1, ma di aver iniziato a scrivere nei mesi successivi alla vittoria del Premio della Giuria al Festival di Cannes del 1996.
Inserito in un concorso per la prima volta in carriera, a 53 anni Cronenberg si era ritrovato in competizione con registi di fama (tra gli altri: Altman, Bertolucci, Cimino, Coen, Hou Hsiao-Hsien, Kaurismaki, Leigh, Techine) e “giovani” di sicuro avvenire (Audiard, Desplechin, Medem e Von Trier faranno strada), e alla fine della corsa aveva guadagnato con Crash un premio che ufficializzava lo status di autore riconosciuto, dopo i riscontri critici ricevuti per Dead Ringers, Naked Lunch e M.Butterfly. A rafforzare questa sensazione c’era il legame instaurato con Cannes trent’anni prima: durante l’esperienza da studente universitario in Francia Cronenberg si era immerso per alcuni giorni nel festival dedicato all’Arte cinematografica, rimanendone per sempre folgorato.
In questo senso la fotografia che lo inquadra appena uscito dalla cerimonia di premiazione è altamente evocativa. Cronenberg stringe con la mano sinistra la pergamena chiusa da uno sgargiante fiocco rosso – simbolo dell’avvenuta incoronazione – e con la mano destra mostra con le dita una V in segno di vittoria. Per lui è la chiusura di un cerchio.
Guardacaso, nei mesi successivi Cronenberg si dedica alla scrittura di un film incentrato sul tema della vittoria. Perché vincere è così importante? Anzi, perché è l’unica cosa, parafrasando il mantra di un famoso dirigente sportivo italiano?
Purtroppo Red Cars non sarà mai realizzato: troppo costoso, troppo fuori dagli schemi, troppo difficile da far digerire alla Ferrari. Cronenberg ci era già passato negli anni ’80 con altri progetti in cui, dopo un lungo lavoro di scrittura, era stato escluso dalla produzione (vd. il Dune poi girato da Lynch, o il Total Recall poi adattato da Verhoeven). In quei casi non aveva pensato alla pubblicazione degli script originali. Su Red Cars si comporta diversamente: ovviamente perché non è un adattamento da un romanzo, ma una sceneggiatura originale, quindi una sua creatura. Ma c’è almeno un’altra ragione per cui si sente in dovere di far vedere al progetto la luce.
Ci sono le auto da corsa, ci sono due piloti che si sfidano per vincere il campionato mondiale e, naturalmente, c’è la velocità: adrenalina a pacchi. Ma Red Cars non è Rush: non è uno spettacolare combattimento in forma di sorpassi e scontri tra due caratteri opposti – in quel caso il talento bello e umorale James Hunt e il freddo calcolatore Niki Lauda.
Cronenberg ce lo dice dalla prima inquadratura, un primissimo piano del cavallino rampante – per i marziani che leggono: il simbolo della Scuderia di Maranello – che con un successivo carrello all’indietro si rivela una placca di metallo montata su un bolide fiammante, la Ferrari F156 del 1961, la cosiddetta “Sharknose”. È un segnale sulla natura del film, come sempre per gli incipit di Cronenberg, che in questo caso dà una doppia indicazione.
La prima indicazione è ovvia: questo film avrà come indiscussi protagonisti delle opere d’arte riconosciute, le Ferrari. Sì, seguiremo le storie di piloti e meccanici, e di manager e giornalisti, ma riempiranno l’inquadratura alla pari con loro delle auto speciali, le cui forme peculiari appartengono a un’epoca passata, ma tutti noi possiamo riconoscere come sinonimo di bellezza e velocità dalla prima occhiata.
La seconda indicazione è più mediata, e per questo più legata al tema: Red Cars è una riflessione sul valore di un’icona, di cui è un esempio lampante il cavallino rampante, ovvero “Ferrari symbol so well-known to millions” come recita la prima riga. E siccome non è un fesso, Cronenberg ce lo racconta attraverso la parabola dei personaggi, piazzando qua e là dei dettagli rivelatori.
Per cui seguiamo la storia di Phil Hill, un pilota di 34 anni (“Nel mezzo del cammin di nostra vita…”) di intelligenza sottile e viva, visitato da sogni inquietanti, piegato da una tremenda gastrite che lo costringe a nutrirsi di omogeneizzati, che ha un unico obiettivo in testa: essere il primo americano incoronato campione del mondo nella Formula1. Purtroppo nemmeno la lettura di un libro talmente complesso da necessitare di una concentrazione totale – “L’Essere e il Nulla” di Jean-Paul Sartre – riesce a distrarlo da questa ossessione.
Capiamo facilmente il motivo riconoscendo l’abilità alla guida del suo rivale e compagno di scuderia, Wolfgang von Trips, un conte tedesco baciato dal talento che si dedica più alle feste che alla preparazione delle gare, ma in pista fa fruttare la tranquillità e risulta velocissimo. Come se non bastasse, Phil soffre la pressione di essere alle dipendenze dell’esigentissimo Enzo Ferrari, il proprietario della scuderia, il plenipotenziario monocratico la cui stima è da sola segno di grandezza.
Ne soffre per una ragione banale: vuole disperatamente vincere, ma non è detto che ci riesca. Tra una gara e l’altra, allora, si domanda da dove venga quella esigenza fortissima di primeggiare. In un primo tempo i sogni gli suggeriscono che forse, inconsciamente, vorrebbe essere ammirato da Enzo Ferrari, vorrebbe che quell’uomo enigmatico e severo lo amasse quanto il figlio che gli è morto giovane, Dino. Ma davvero per lui conta così tanto l’opinione di quell’uomo? Dopo alcuni incontri con la moglie di Ferrari, Phil verifica che non è lui il motore della sua ossessione. E registra che nonostante la serenità di facciata, la moglie è una donna disperata, che teme che l’imminente riconoscimento di un figlio illegittimo di Ferrari le toglierà il ruolo di madre dell’erede. Cosa sarà di lei, allora? Sarà destinata all’oblio, gli dice.
Si discute della stessa oscillazione tra essere e nulla durante una festa improvvisata al castello dei conti von Trips che precede la gara al circuito del Nurburgring. In un primo momento un ospite si presenta alla guida dell’auto con cui morì in gara un pilota inglese, Collins, rimessa totalmente a nuovo: è un esemplare così perfetto da possedere gli stessi errori di costruzione dell’originale, nota Phil. Successivamente von Trips ammette di registrare le sue gare montando una camera 16mm sull’auto da corsa, spiegando che “it’s just a private, personal record of events.”
Cronenberg ci vuole fare intuire che il ricordo, cioè l’esistenza stessa di ciò che è stato, si può testimoniare solo attraverso gli oggetti. La materia, ivi compresi i nostri corpi, è la dimostrazione dell’esistenza; senza di essa siamo destinati a dimenticare, confondere, ignorare. Immergendoci nel nulla.
Phil ancora non ha colto fino in fondo, e noi spettatori con lui, ma siamo vicini a scoprire la ragione della sua ossessione per la vittoria.
L’illuminazione arriva nel weekend in cui si corre al circuito italiano di Monza, dove la Ferrari si sente “in casa”: la gara è partita da poco quando nelle retrovie la Ferrari di von Trips cerca di superare una Lotus, ma la urta a causa della rottura di una valvola. È un incidente tremendo: la Sharknose vola sul recinto di protezione, travolgendo una ventina di spettatori, mentre il pilota tedesco viene sbalzato fuori dall’abitacolo e atterra a una trentina di metri, restando disteso sull’asfalto della pista come un burattino senza fili. Morto. In testa alla corsa, Phil completa la gara ignorando il destino del compagno/rivale e vince, guadagnando i punti necessari per laurearsi campione del mondo. C’è riuscito, ce l’ha fatta.
La sua gioia è sommersa dal lutto generale. La Ferrari subisce gli attacchi dei giornali, che accusano Enzo Ferrari di aver risparmiato sulla sicurezza, e Phil viene costretto a non correre la successiva gara negli Stati Uniti, quella in cui si sarebbe dovuto festeggiare il titolo, per dare un segno.
Per lui sarà ancora peggio alcune scene dopo, passando da Maranello: in una sequenza magnifica che richiama un ciclo di operazioni chirurgiche a cuore aperto, i meccanici smantellano pezzo per pezzo le Sharknose sotto i suoi occhi. Phil assiste a un gigantesco omicidio di opere d’arte che ha un mandante preciso: Ferrari ha dato l’ordine di smontarle (cut-up) pezzo per pezzo.
“He is destroying the evidence, the evidence of my championship year. He is killing our history here in Ferrari”, urla a un amico, ormai cosciente della ragione per cui sentiva il bisogno di vincere il campionato. Phil esplicita che fare la storia è l’unico modo di sentirsi parte dell’essere, cioè di abbandonare il nulla lasciando un “segno”. Ma non basta: il nostro corpo è destinato a consumarsi, sfaldarsi, scomparire, quindi ci dobbiamo affidare agli oggetti per fare in modo che quel segno rimanga. E se quell’oggetto – o ancora meglio, quell’icona – rimane, allora continuiamo a esistere “nonostante” la nostra finitezza.
Ecco perché vincere è l’unica cosa che conta. Perché è il modo migliore che abbiamo di esistere.
Tra i creatori di storie, gli sceneggiatori sono quelli che subiscono con maggiore frequenza l’oscillazione tra essere e nulla. Per mesi, talvolta per anni, scrivono qualcosa che potrebbe diventare un film, o una serie, cioè qualcosa che prescinde dalle loro parole. Quando i progetti si bloccano, le parole scompaiono, inghiottite dall’oblio come se non fossero mai esistite. E con loro, finisce nel buco nero lo sceneggiatore che le ha scritte.
Red Cars avrebbe potuto fare la stessa fine di altre sceneggiature di David Cronenberg, come Painkillers o il citato Total Recall, che non hanno avuto la fortuna di diventare film. Ma questa volta, nell’oscillazione tra Essere e Nulla, il primo ha fatto uno scatto in più.
E oggi Red Cars esiste, in quella strana mutazione tra cinema, letteratura e arte che è l’art-book pubblicato da Volumina.