Notti magiche

Notti magiche

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Anche per Paolo Virzì con Notti magiche arriva il momento di lavare i panni sporchi in famiglia e fare un film sul cinema, e sul cinema italiano in particolare. Al di là delle vaghe velleità autoassolutorie un lavoro scritto senza verve, mal costruito, e privo di reali personaggi. Alla Festa di Roma.

Dimenticare Piombino

È la notte del 3 luglio 1990. La nazionale italiana di calcio ha perso ai rigori contro l’Argentina in semifinale e dà l’addio al sogno di vincere il Mondiale. Nel Tevere viene ripescata un’automobile, con a bordo un cadavere, quello di un importante produttore cinematografico. I tre principali sospetti sono i giovani finalisti del Premio Solinas… [sinossi]

Le “notti magiche” del Mondiale di Calcio del 1990, quelle cantate da Edoardo Bennato e Gianna Nannini su musica di Giorgio Moroder, finirono nell’estate italiana sui rigori mal tirati da Donadoni e Serena e ben parati dal portiere argentino Goicoechea. Fu l’ultimo sussulto di partecipazione emotiva nazionale dell’epoca del pentapartito, prima degli attentati mafiosi, di Mani Pulite, del crollo di un sistema sostituito da un altro perfino più colluso e ferale. Con il passaggio dall’Italia democristiana a quella berlusconiana va via via sparendo – anche per ragioni meramente anagrafiche – il gotha del cinema italiano: Michelangelo Antonioni, dopo l’ictus che lo colpì nel 1985, dirige solo Al di là delle nuvole e uno degli episodi di Eros; Dino Risi firma il programmatico Tolgo il disturbo e Giovani e belli; Marco Ferreri muore nel 1997, tre anni e mezzo dopo la dipartita di Federico Fellini. Ci sono tutti, chi in una forma chi in un’altra, in Notti magiche, quattordicesima regia per il cinema di Paolo Virzì scelta come titolo di chiusura della Festa del Cinema di Roma. Quale film più adatto se non uno che, almeno nelle intenzioni, pretende di fare la festa al cinema, e in particolar modo a quello “romano”?
Parte malissimo, questa commedia che più che parlare del 1990 sembra provenire direttamente da quell’epoca, quella dei cosiddetti articoli 28, l’articolo della Legge Cinema che prevedeva fino al 1994 l’intervento fino al 30% del budget totale da parte dello Stato per i film considerati di interesse culturale o artistico. Parte malissimo perché cerca subito con fin troppa rapidità la collocazione storica – in un baracchino sul Tevere un gruppo di persone sta guardando la semifinale in televisione –, vi inserisce a forza l’escamotage narrativo – il volo di un’automobile nel fiume, con tanto di ritrovamento di cadavere all’interno – per poi chiosare su un dettaglio bozzettistico, con il questore che più che interessato al caso sembra aver voglia di discutere sul perché e il per come l’Italia sia uscita dai Mondiali. Questo senso di totale adulterazione, percepibile fin dalle primissime inquadrature, faticherà ad abbandonare lo schermo.

C’è un giallo, in Notti magiche, ma il primo a non essere interessato alla sua risoluzione è il terzetto di sceneggiatori, sia quelli in scena e che passano la notte al commissariato per dare la propria versione dei fatti, sia quelli dietro lo schermo, vale a dire Francesca Archibugi, Francesco Piccolo e lo stesso Virzì. Sarebbe fin troppo facile parlare di autobiografismo sotterraneo, per quanto sia un aspetto sicuramente non secondario, sia per l’età che avevano gli autori dello script nel 1990 sia perché in un modo o nell’altro questo film è il racconto di un’iniziazione. Alla vita, forse. Al cinema, sicuramente. E soprattutto al cinema italiano, come sempre rappresentato con due pinze e una tenaglia, tra traffichini e lamentosi, questuanti e primedonne. Uno schema dal quale il cinema nostrano sembra in tutta franchezza trovarsi sempre a suo agio, arrivando persino a specchiarvisi anche quando si dovrebbe utilizzare lo stiletto, e non il pennello…
Virzì si diverte a giocare con il passato, prendendolo sommamente – e forse bonariamente, chissà – in giro, con il solito produttore in odor di pignoramento ma che cerca di mantenersi disperatamente a galla, i giovani senza arte né parte pronti a veder traditi i loro sogni di gloria, e i grandi vecchi che non sanno far altro che dare buoni consigli, bacchettare le nocche, chiudersi nel proprio egotismo e crogiolarsi all’ombra dei propri successi.
Uno spaccato che non solo non aggiunge molto a quanto già visto in passato, ma appare anche confuso, come se lo stesso regista fosse ancora alla ricerca di una messa a fuoco. Così si sprecano le scene al limitar del grottesco, negli studi fumosi di pregiatissimi sceneggiatori che appaltano i loro lavori a “negri” della scrittura, o a cena da Otello alla Concordia, un ajo e oio a due passi da via del Babuino. E qui Virzì non fa altro che passare in rassegna le truppe, in elencazioni di nomi (senza cognome, un po’ per affetto un po’ per evitare eventuali strascichi polemici) che rievocano visi ben noti nelle memorie cinefile: Ettore, Ennio, Suso, Furio, Gillo, e via discorrendo. Tutto in famiglia, come i panni sporchi da lavare di andreottiana memoria.

Ma l’impressione è che tutto permanga sempre in superficie, come quella jaguar che non ne vuole sapere di affondare. Nell’approcciarsi a quel mondo, e a quegli autori, che pure ha avuto modo di conoscere, Virzì si limita a idolatrare la superficie liscia dell’immagine, dimentico di poter scavare, e arrivare a qualche soglia di profondità. C’è la silhouette di Roberto Benigni nel finale de La voce della luna e quella di Fellini che lo sta dirigendo, ma nulla di più. Si intravede Monicelli, ma è un attimo. Virzì sembra trasformarsi quasi in un Sorrentino più amante del popolare, così limpido e allo stesso tempo privo di chiaroscuri e di controluce. C’è tutto in bella mostra, ma in realtà c’è ben poco da mostrare. E in questo racconto che non decolla mai, anche perché non ha interesse a restituire reale umanità – i tre protagonisti sono rimasti in bozza, sul foglio di carta – si avverte anche un fastidioso senso di auto-assoluzione. Nel carnaio cinematografaro messo alla berlina, dove tutti sono meno affascinanti e meno geniali di quanto traspaia dai loro film, si alza la voce del giovane Luciano Ambrogi, figlio di un operaio di Piombino morto e di una classe operaia che sta morendo. Il cinema italiano non ha mai guardato nei tinelli delle case di città come Piombino, dice l’aspirante sceneggiatore, e per questo è in crisi. L’esordio di Virzì, La bella vita, è ambientato a Piombino e parla di classe operaia, di licenziamenti, di depressione. Le sue inquadrature si spingono nei tinelli. Cosa sta cercando di sottolineare allora Virzì? Il suo è davvero un omaggio un po’ burlone al cinema italiano o forse è la proclamazione di se stesso come unico baluardo di difesa di un cinema italiano che altrimenti sarebbe allo sbando, e che già lo era all’epoca dei grandi maestri? Il sospetto è lecito, e appesantisce ulteriormente la lettura di un film per il resto innocuo, scritto senza particolare ispirazione e soprattutto senza amare e saper soffrire con i suoi personaggi. A mancare, nel cinema attuale di Virzì, è con ogni probabilità la scrittura di Francesco Bruni, il suo sguardo sull’umano, la sua tessitura narrativa, l’afflato popolare mai artefatto.

Info
Il trailer di Notti magiche.
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