Un piccolo favore

Un piccolo favore

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Evidentemente derivativo rispetto a L’amore bugiardo di Fincher, Un piccolo favore di Paul Feig gioca comunque in maniera credibile sul filo del thriller al femminile, finendo però in ultimo per perdersi nella parodia auto-compiaciuta.

L’amicizia bugiarda

Stephanie è una mamma vlogger che cerca di scoprire la verità dietro la scomparsa della sua migliore amica, Emily (Blake Lively). Stephanie è affiancata dal marito di Emily, Sean, in questa ricerca che darà vita a colpi di scena, tradimenti, segreti e rivelazioni, amori, omicidi e vendette. [sinossi]

Innanzitutto, Un piccolo favore appare come un prodotto doppiamente derivativo. Da un lato, infatti, il romanzo da cui è tratto (A Simple Favor, scritto da Darcey Bell e pubblicato nel 2017) si rifà esplicitamente al thriller Gone Girl, scritto da Gillian Flynn e pubblicato nel 2012. Dall’altro, il film – che è diretto da Paul Feig (Le amiche della sposa, Ghostbusters) – rielabora e cita, più o meno direttamente il pluri-lodato (anche troppo) adattamento proprio di Gone Girl, firmato da Fincher, e uscito in Italia con il banale titolo di L’amore bugiardo.
La differenza sostanziale rispetto alla matrice è stata quella di spostare la linea del tradimento dall’amore all’amicizia e di aver fondamentalmente sdoppiato quello che in L’amore bugiardo era incarnato nell’unico personaggio dalla doppia personalità interpretato da Rosamund Pike, punto che rappresentava la vera sfida dell’operazione libro/film.

In Un piccolo favore abbiamo infatti Stephanie (Anna Kendrick), che è la mamma tutta casa e chiesa, e Emily (Blake Lively), che al contrario è la maman fatale, misteriosa e tendenzialmente alcolizzata. Come in L’amore bugiardo, l’intento è chiaro: deprivare il maschio dell’esclusiva del thriller e assegnare invece questo ruolo alle donne. Certo, il noir e la figura della femme fatale esistono dagli anni Quaranta, ma più o meno vi era sempre un uomo – o più uomini – a condurre le fila o almeno a lasciarsi manovrare dall’ambiguità femminile: era pur sempre l’uomo infatti che tendenzialmente prendeva in mano le armi e svolgeva un ruolo attivo, così come insegna d’altronde il punto di riferimento per eccellenza, La fiamma del peccato di Billy Wilder.
Nel film di Paul Feig – che così propone per il thriller una operazione simile a quella portata avanti in Le amiche della sposa, in cui aveva declinato al femminile la commedia politicamente scorretta – il maschio è totalmente inutile: il marito di Emily infatti non solo viene manovrato da entrambe le donne con cui si trova a fare i conti, ma nemmeno prova a prendere le armi; è dunque completamente passivo. Stesso discorso per il poliziotto che indaga sul caso, il quale sembra capire, intuire e prevedere come stiano andando le cose, ma non interviene mai e piuttosto preferisce lasciarsi andare a sagaci battute all’insegna del cameratismo maschile, un cameratismo che evidentemente – e, forse, inconsapevolmente – rimpiange.
Non stiamo parlando comunque di novità assolute, ma solo dell’eterno ritorno della questione femminile al centro della scena, in cui in questa fase si prova a recuperare sia pur in maniera molto parziale e timida un’attenzione al “racconto di donne” che, ad esempio, nella Hollywood anni Trenta era assolutamente centrale.

In ogni caso, ciò che non funziona in Un piccolo favore è il fatto che man mano il thriller finisce per lasciare il campo alla parodia, al divertissement, difetto in cui a ben vedere cadeva lo stesso Fincher nell’ultima parte di L’amore bugiardo, come se per l’appunto non vi fosse ancora completa fiducia nel tessere un serio thriller femminino, come se la credibilità debba per forza ad un certo punto andare a farsi benedire. Fincher, in fin dei conti, ne faceva una questione autoriale, auto-parodiandosi, mentre Feig ne fa una questione di opportunità, forse di mancanza di coraggio, probabilmente di attitudine non del tutto consona alle trame thriller.
In questo, sempre a proposito di Un piccolo favore, ha comunque un peso centrale proprio il confronto tra le due donne: da un lato la mediocre e ottusa Stephanie/Kendrick, dall’altro la fascinosa e bugiarda Emily/Lively. Tra le due, ci fa capire Feig, quella a essere in realtà più astuta è proprio la prima, perché più al passo con i tempi. Se Emily crede ancora nella possibilità di infrangere romanticamente la legge, Stephanie al contrario sa che si può operare con astuzia e ipocrisia, mostrandosi linda e casta in pubblico (non a caso tiene un blog in cui, in streaming, illustra le sue risibili ricette e che, da un certo punto in poi, utilizza come strumento giornalistico), operando allo stesso tempo in modo molto ambiguo in privato. Come il personaggio di Rosamund Pike in L’amore bugiardo, Stephanie ha capito in che modo si debbono usare i media al giorno d’oggi, in maniera personalistica e sensazionalistica conducendo in prima persona la gestione della propria immagine.
Ma tutto questo appare troppo teorico e poco pratico, nel senso che – come detto – lo spettatore viene portato pian piano ad allontanarsi dalla credibilità del racconto. E, in tal senso, appare decisivo un dettaglio: nel momento in cui Stephanie mostra di conoscere I diabolici di Henri-Georges Clouzot, capiamo che è il regista a travalicare i limiti del personaggio, che avrebbe dovuto essere stato descritto come cinefilo. E così capiamo che il costante occhiolino alla cultura francese e al suo marchio maudit (in colonna sonora c’è la presenza costante del ‘perverso’ Serge Gainsbourg) è un modo per solleticare gli istinti pruriginosi del pubblico medio americano, senza farli veramente deflagrare.

Info
Il trailer di Un piccolo favore.
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