Bangla

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Presentato nella sezione Voices dell’International Film Festival Rotterdam 2019, Bangla di Phaim Bhuiyan è il racconto a carattere autobiografico di un ragazzo italiano, bengalese di seconda generazione. Uno sguardo dall’interno delle comunità di origine straniera in un’Italia multietnica, che porta una ventata di freschezza per il nostro cinema.

Londra vs. Torpignattara

Phaim è un ragazzo bengalese di seconda generazione, nato in Italia, da una famiglia di immigrati, il cui obiettivo ultimo in realtà è l’Inghilterra, che vive nel quartiere multietnico romano di Torpignattara. Si innamora di Asia, una ragazza emancipata, ma la sua famiglia lo vorrebbe sposato a una bengalese. E il momento di trasferirsi a Londra sembra essere finalmente arrivato. [sinossi]

Un romanzo di formazione, un’esplorazione adolescenziale del mondo, della vita, dell’amore, declinato nell’Italia multietnica di oggi. Tutto ciò è Bangla presentato con grande successo di pubblico nella sezione Voices dell’IFFR 2019. Phaim è nato in Italia, parla con accento romanesco e vive in quel melting pot che è il quartiere romano di Torpignattara. Phaim è evidentemente la trasposizione dello stesso Phaim Bhuiyan, regista che mantiene il proprio nome nel personaggio che pure interpreta. Raccontando della propria vita e della conflittualità tra i valori morali tradizionali della sua famiglia e i costumi liberi dei suoi coetanei. Nella sua vita entra un ciclone, rappresentato da Asia, la ragazza con cui vive la sua prima storia d’amore, cui segue anche la prima crisi. Asia è un personaggio solare che si distingue tra le tante figure di italiani che rimangono sottilmente e più o meno inconsciamente razziste. Ci sono le amiche di Asia che lo considerano come un buffo oggetto di curiosità. C’è la famiglia di Asia i cui membri si accapigliano in discussioni politiche, facendo a gara a chi è più progressista: prima si indignano perché in Italia non c’è lo ius soli e poi esibiscono un senso di patriottismo risentendosi perché gli immigrati considerano il bel paese solo come una tappa, non dandogli l’importanza che meriterebbe.
La vita di Phaim è come lui la mette in scena con evidente sincerità, è un’energia giovanile imbrigliata da quelle ancore familiari che pure non condanna. Come le opere d’arte della galleria in cui lavora, ingessato con il ruolo di chi è lì a dire di non fare fotografie o non avvicinarsi, è protetto e racchiuso in una cappa famigliare asfissiante. Sarà Asia con i suoi stimoli a provocare le prime incrinature, proprio come quando la ragazza si avvicina agli oggetti esposti, provocatoriamente suscitando l’allarme dei sensori. Sensori che suonano come avvertimento a non avvicinarsi, come sono i comandi del mentore musulmano della comunità, che pure alla fine rivelerà le sue debolezze. La vita di Phaim è un anelito alla libertà, al passare da quei vasi al chiuso protetti da raggi laser, all’arte libera della street art, di quel grande murales che campeggia a Torpignattara, contemplato da Asia e Phaim.

Phaim Bhuiyan si mostra un regista spigliato ed emancipato come il suo personaggio nella fase più matura. Usa uno stile accattivante fatto di continui passaggi onirici, di momenti di interruzione del flusso narrativo e della convenzione cinematografica, quando parla rivolgendosi in camera. C’è quel brillante incipit, che inizia in soggettiva, dove Phaim inizia un sogno erotico da cliché di un film porno, dove pure non manca di sottolineare la precarietà dei fattorini che consegnano piatti a domicilio. C’è tutta la presentazione, come fossero squadre di calcio, delle varie etnie sociali di Torpignattara. C’è poi quella scena al bar dove tiene insieme le due situazioni, Phaim occupato a parlare con le ragazze, mentre Asia si avvicina pericolosamente a un vecchio affascinante amico, restituendo lo stesso spaesamento del protagonista. Uno stile che fa venire in mente, ovviamente Woody Allen, ma anche quello che è stato un film innovativo nel cinema italiano come Tutti giù per terra di Davide Ferrario, un film che pure era il ritratto di una generazione. Phaim Bhuiyan evita comunque gli eccessi di quel film, le sue trovate sono sempre organiche e contenute.
Bangla si chiude ancora con una soggettiva, dopo quella onirica dell’inizio, che non combacia però con quella del protagonista. Ce ne andiamo, lo lasciamo in quel momento di intimità e ci congediamo chiudendo quella porta che è stata incautamente lasciata aperta. Che succederà? Una storia d’amore si può sospendere se uno dei due partner deve andare a Londra. Succedeva allo stesso Woody Allen alla fine di Manhattan: ci sono precedenti illustri.

In Bangla l’unico riferimento alla situazione politica è quello allo ius soli, che rappresentò un elemento forte di dibattito nelle scorse legislature. E ovviamente il film deve essere stato concepito e sceneggiato prima della situazione attuale. Non si può non notare comunque che in un’Italia che chiude i porti, una ventata di freschezza, nel melenso panorama del cinema italiano, arrivi da uno straniero di seconda generazione.

Info
La scheda di Bangla sul sito dell’International Film Festival Rotterdam.
La scheda di Bangla sul sito di Filmitalia.
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