Cocaine – La vera storia di White Boy Rick

Cocaine – La vera storia di White Boy Rick

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Confermando le doti registiche di Yann Demange, Cocaine – La vera storia di White Boy Rick si muove tra la dimensione intima e familiare della vita del suo protagonista, e la sua ascesa criminale, non riuscendo sempre a trovare un giusto equilibrio tra le due componenti.

Educazione criminale a Detroit

Detroit, 1984: il quattordicenne Richard Wershe Jr., figlio di un commerciante di armi locale, diviene informatore dell’FBI sul traffico di droga, costruendosi parallelamente una sua personale carriera criminale. Le autorità che lo proteggono, tuttavia, finiscono per voltargli presto le spalle. [sinossi]

Se il titolo originale del nuovo film di Yann Demange, White Boy Rick, poneva esclusivamente l’accento sul suo protagonista, e sul soprannome che ha caratterizzato la sua formazione criminale, la scelta della distribuzione italiana di puntare su Cocaine (oltre a riecheggiare un po’ furbescamente il pezzo di Eric Clapton) vuole rimarcare piuttosto l’oggetto – e lo strumento – della sua ascesa e caduta. Una scelta dettata con ogni probabilità dal carattere maggiormente eufonico del titolo, che mantiene tuttavia in sé la peculiarità di “biopic noir”, intimamente calato nella Detroit degli anni ‘80, che caratterizza il film di Demange; una scelta tuttavia poco in linea col fulcro del racconto, che non sembra voler parlare tanto dello strumento, quanto di colui che lo utilizza (venendone infine schiacciato). Richard Wershe Jr., aka White Boy Rick, spacciatore adolescente e informatore dell’FBI, in seguito arrestato, e scaricato dai federali che dovevano proteggerlo, è costantemente al centro dell’occhio della macchina da presa del regista. Demange, invero, sembra suo malgrado più interessato a lui, e al microcosmo – soprattutto familiare – che gli è immediatamente prossimo, che a portare avanti un reale ragionamento sull’universo criminale di cui si trovò a far parte.

Questo Cocaine – La vera storia di White Boy Rick si muove quindi eminentemente in una dimensione piccola (malgrado le sue ambizioni di spaccato sociale – e criminale), restando costantemente incollato, anche nelle scelte di regia, al suo protagonista; lo fa descrivendone la problematica crescita, e tracciandone il percorso criminale, tra il richiamo dei doveri familiari e quello sempre più impellente della strada. Regista dotato di uno stile visivamente accattivante, abile nell’orchestrare e gestire le scene d’azione, Demange, rispetto al suo esordio ‘71, si mette qui maggiormente al servizio della storia (e per esteso della Storia): là, a essere descritto era un viaggio all’inferno, quello rappresentato da una Belfast in fiamme, concentrato in una singola notte; qui, la discesa negli inferi – altrettanto plumbei – del sottobosco criminale di Detroit, si articola su un arco temporale di alcuni anni. Al centro resta lo stile nervoso del regista, il montaggio serrato, accompagnati però da un tentativo di estendere lo sguardo e abbozzare un ragionamento (antropologico, seppur subordinato alle regole del genere) su un contesto sociale e su un’intera epoca. Quell’epoca, cioè, in cui le barricate della Detroit di Kathryn Bigelow avevano lasciato lo spazio a un’amara disillusione, a una divisione del territorio controllata – e incoraggiata – dalla polizia, e alla lotta di facciata, da spot elettorale, al traffico di stupefacenti. Manifestazioni del reaganismo e dei suoi principi.

Proprio considerando le sue ambizioni, e la sua voglia di farsi racconto di un pezzo di territorio e di storia (tale da trascendere il suo protagonista) Cocaine – La vera storia di White Boy Rick rivela il suo carattere imperfetto, gravato da una sceneggiatura che fatica a mantenere insieme le varie istanze del film. L’ascesa del White Boy Rick col volto dell’esordiente Richie Merritt trascura e mette tra parentesi troppi elementi della costruzione della sua figura di giovane criminale, sorvola sugli ambigui rapporti con l’FBI, rivelandosi anche un po’ confuso nella delineazione del sottobosco criminale prossimo al protagonista, così come della sua evoluzione. Ad essere favorita, in modo più limpido e preciso, è la dimensione più intima e familiare del soggetto, il problematico restare a galla di una famiglia proletaria in un contesto urbano arreso al degrado, la difficoltà nel mantenere un’etica che non può sottomettersi al gioco di istituzioni che sembrano aver abbandonato quella realtà e chi la abita. Nella descrizione dell’attività del padre di Rick – un Matthew McConaughey sempre in parte – fa capolino qualche considerazione di più ampio respiro (l’ipocrisia nel permettere la vendita di armi, vietando però la costruzione e il commercio di silenziatori; la ferma opposizione del personaggio al commercio di droga, smontata a livello logico dal figlio, in significativo dialogo); si tratta, tuttavia, di accenni che, pur intelligenti, restano funzionali a una vicenda che si rivela più interessata alla dimensione microsociologica, e alla delineazione della vita di un adolescente della working class bianca che – incidentalmente – ha compiuto un’effimera ascesa nell’universo criminale locale.

Visivamente curato senza scadere nel formalismo, capace di affidarsi nella giusta misura ai suoi interpreti (ai due protagonisti, si aggiunge l’agente federale interpretata da Jennifer Jason Leigh, e i nonni coi volti di Bruce Dern e Piper Laurie), Cocaine – La vera storia di White Boy Rick diventa scolastico e macchinoso quando tenta di insinuarsi tra le pieghe della Storia, cercando di rendere il suo protagonista emblema delle sue contraddizioni, e caricando di contenuto emotivo la sorte da lui subita. Un limite che rende meno efficace l’ultima parte del film, che la prova di Merritt non riesce a sollevare da un’involontaria freddezza; e la voce del vero White Boy Rick, sui titoli di coda, finisce per non sortire propriamente l’effetto desiderato.

Info
Il trailer di Cocaine – La vera storia di White Boy Rick.
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