Beo

Film-intervista e schietta autobiografia, racconto di un mondo che si proietta nel presente, Beo resta ben al di qua dell’agiografia, riuscendo a caricare la storia del suo protagonista con la giusta dose di lirismo.

Un testimone resistente

Beo, classe 1920, una vita drammatica e avventurosa, si racconta senza filtri davanti alla macchina da presa di Stefano Viali e Francesca Pirani. Il suo racconto compone un affresco che è autobiografia e Storia, narrazione di un secolo attraverso la ricostruzione ad opera di un suo osservatore privilegiato, testimonianza di valori e insieme capacità di proiezione, concreta, nel presente. [sinossi]

Si deve sempre prestare molta attenzione, quando si realizza un documentario come questo Beo. Nel raccontare una vita che è insieme parte e manifestazione di un contesto culturale molto più ampio, racchiudendo immagini, speranze, sogni e disillusioni che sono patrimonio collettivo, il rischio della retorica (anche involontaria) è sempre in agguato. È un rischio che il film di Stefano Viali e Francesca Pirani, già premiato al RIFF (Rome Independent Film Festival) col riconoscimento per il miglior documentario, e al Bellaria Film Festival col premio per la colonna sonora, evita molto accuratamente. Eppure, la figura di Pompilio Baldacci detto Beo, classe 1920, una vita drammatica e avventurosa, sembra racconto e testimonianza vivente di un’epoca e di un mondo, serbatoio di memorie non fini a se stesse, ma capaci di offrirsi e prestarsi a un uso possibile nel presente. Non è celebrativo, il documentario dei due registi, non vuole comporre chissà quale affresco collettivo della Resistenza o celebrare un passato idealizzato; piuttosto, Beo racconta frammenti di immagini e storie attraverso il volto e la voce del suo protagonista, che con la sua schiettezza e il suo eloquio diretto e privo di filtri, lascia fuori qualsiasi tentazione retorica.

I due registi (insieme alla co-sceneggiatrice e narratrice Francesca Micheletti) entrano nella quotidianità di Beo quasi in punta di piedi, lasciando che l’ex partigiano si racconti a braccio; la voce della narratrice limita dapprima gli interventi diretti, facendo in modo che a commentare visivamente le parole dell’uomo siano, soprattutto, le immagini del suo presente. C’è un lirismo tranquillo, nelle immagini della casa contadina dell’uomo e di sua moglie, nei nebbiosi paesaggi delle colline del Montefeltro, nel microcosmo abitato da una personalità quieta ma non pacificata; una quiete che contrasta con le storie di vita drammatiche snocciolate dalla voce dell’uomo, elencate da lui e dai suoi familiari (oltre alla moglie Elisa, troviamo anche la testimonianza di suo fratello), esposte come il resoconto cronachistico di un quotidiano – quello della guerra e della lotta per il pane – che appare tanto lontano quanto vivido. Le parole di Beo arrivano dirette, narrano episodi avventurosi, a volte buffi (il confronto con i carabinieri nel dopoguerra), lasciando spesso disarmati per la naturalità con cui la sua voce ricostruisce un mondo, e un mosaico di vite, tanto apparentemente lontani da noi quanto concreti. Il volto e la voce di Francesca Micheletti si fanno via via più presenti, man mano che l’intervistatrice (e noi con lei) prende contatto e si sintonizza col mondo raccontato dall’uomo.

Un mondo, quest’ultimo, tutt’altro che cristallizzato e autoreferenziale: c’è sempre, nelle parole dell’ex partigiano, un confronto diretto e serrato col presente, un riferirsi a un’attualità che appare, nella sua visione, nient’affatto pacificata e soddisfacente. Nell’eloquio semplice e diretto di chi ha vissuto tra il lavoro nei campi, le trincee, e più tardi le piazze e le sezioni di partito, c’è l’inquietudine di colui che non ha visto realizzarsi quella trasformazione a cui ha dedicato, direttamente e non, la sua intera esistenza. Quella di Beo appare come vera (nel senso più profondo e alto) “ricerca della felicità”: una felicità che, come esplicitamente detto dall’uomo, ha senso se trova il suo completamento in quella degli altri, e per esteso dell’intera umanità. La visione dell’ex partigiano trova il suo ideale ed esplicito specchio nelle parole, diffuse da un apparecchio televisivo, dell’ex presidente uruguaiano Pepe Mujica: un altro combattente, che alla forza utopistica e immaginifica delle idee, è stato parimenti capace di unire la concreta pratica quotidiana. Il parallelo tra i due personaggi, nella linearità e semplicità dei concetti che esprimono, arriva allo spettatore limpido, cristallino. Così, nel contesto chiuso, e apparentemente autoreferenziale, della realtà abitata dal suo protagonista, questo Beo è capace di esplorare una parte importante del presente: le contraddizioni, in particolare, di un’area culturale e politica che proprio da una narrazione più essenziale (di valori e strumenti d’azione) potrebbe ripartire.

Giovandosi di un commento musicale di notevole presa e suggestione, che accompagna e contrappunta le immagini, il documentario di Viali e Pirani trova la chiave di volta per il racconto di una vita semplice e complessa insieme: semplice per la linearità dei valori che la muovono (e delle azioni in cui questi vengono tradotti), complessa per le implicazioni che il suo agire proietta nel presente. Beo riesce a trovare, soprattutto, la giusta distanza dal suo oggetto, evitando l’agiografia e la mitizzazione di un mondo (quello contadino, rappresentato nel film come un dato di fatto storico, scevro da valutazioni di merito), ma riuscendo parimenti a caricare il suo racconto con la giusta dose di lirismo. Al cinema, anche e soprattutto al cosiddetto cinema vérité, in fondo, non si è mai chiesto di più.

Info
Il trailer di Beo.
La pagina Facebook di Beo.

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